In uno dei suoi famosi colloqui con Robert Craft, Stravinskij espresse una volta con arguta ironia la sua scarsissima stima nei confronti della musica italiana del Settecento, arrivando addirittura a definire Vivaldi «un tipo tedioso che componeva la stessa forma un'infinità di volte». L'unico che riusciva a salvarsi almeno in parte dalle staffilate stravinskiane era proprio Scarlatti: «Scarlatti è una faccenda diversa». Ma, aggiungeva subito Stravinskij, «anche lui variò così poco la forma...». E persino Schumann, di solito critico attento e perspicace dei fenomeni musicali sia del suo tempo che del passato, aveva scritto che Scarlatti, in confronto con i maggiori compositori tedeschi, era «come un nano capitato in mezzo ai giganti».
Mitizzato alla sua epoca come uno dei più grandi strumentisti d'Europa, fatto oggetto di una vera e propria «caccia al manoscritto» negli anni immediatamente successivi alla sua morte, il buon Domenico venne in effetti ben presto confinato in quel limbo di «compositori minori» in cui tutto tende a confondersi: il destino che sembrava attenderlo era quello di essere ricordato semplicemente come uno dei «precursori» della forma-sonata, o come uno dei molti che avevano cercato di emancipare la scrittura per strumento a tastiera dalla vecchia tradizione del basso continuo.
Se oggi le cose non stanno così, e se il nome di Scarlatti ha saputo reggere a testa alta il confronto con quelli di Bach e di Händel in occasione delle celebrazioni dell'anno europeo della musica del 1985, lo si deve al lavoro e all'impegno di molte persone: gli studiosi, come Longo, come Kirkpatrick, e molti altri dopo di loro, che hanno analizzato, catalogato e pubblicato il corpus delle composizioni scarlattiane: ma anche, e forse soprattutto, i musicisti, come Horowitz, che hanno inserito le musiche di Scarlatti nel loro repertorio, le hanno incise e suonate in concerto accanto a Liszt e Chopin, presentandole con eguale dignità e dedicando loro altrettanta «attenzione interpretativa».
La Sonata K. 531 (dove la K sta a indicare la numerazione del catalogo di Kirkpatrick, basato su un tentativo di ordinamento cronologico) si presenta sin dalle prime battute come uno strano miscuglio tra «vecchio» e «nuovo»: l'ariosa melodicità degli arpeggi, la semplicità dello schema armonico cadenzale su cui essi sono basati, e la simmetrica periodicità del fraseggio puntano ovviamente verso il nuovo (verso... Mozart, per dirla in soldoni); ma tutto ciò, nel contempo, è inquadrato in una scansione ritmica regolare e incessante, senza buchi o strappi improvvisi, decisamente imparentata con un'estetica tardo barocca (alla... Bach, se vogliamo mantenere la schematicità del paragone precedente). Anche l'alternanza tra le due mani ha qualcosa di vagamente contrappuntistico, e punta dunque verso il passato. Ma c'è la sorpresa, la zampata del grande: una volta che ci siamo abituati al meccanismo ritmico regolare e inarrestabile, verso la metà della prima sezione, Scarlatti ferma l'inarrestabile, blocca tutto con una pausa sospensiva generale. Il meccanismo riprende, ma sembra quasi girare a vuoto, come se «rumoreggiasse», senza riuscire a ritrovare la sua strada. E si riblocca. Ancora riprende a rumoreggiare, ma questa volta trova infine la sua strada verso la cadenza conclusiva della sezione. Ritornello della sezione, e quindi seconda sezione (anch'essa ritornellata), dove si ritrova la stessa sorpresa, lo stesso coup de théatre.
Franco Sgrignoli