Non sono molti i casi di grandi maestri che abbiano consegnato tutto intero il loro messaggio artistico ad uno strumento e ad una forma; soprattutto nel secolo XVIII legato alla produzione su commissione e aperto all'intercambiabilità degli stili e degli organici strumentali. Che Domenico Scarlatti, figlio di Alessandro e cresciuto fra i teatri di Roma e Napoli, abbia sospeso per tempo e per sempre la sua produzione operistica è già una circostanza sorprendente; ma è quasi assillante l'interrogativo che le sue oltre 550 Sonate pongono allo storico moderno per l'uniformità della cornice esterna opposta alla mutevolezza della sostanza interiore. Anche la storia s'è divertita a mescolare le carte, non lasciandoci di tale patrimonio una sola Sonata autografa, cancellando agganci a fatti della vita e dati utili ad un ordinamento cronologico sufficientemente articolato. Le Sonate di Scarlatti sono state quindi per gran tempo considerate come un grande blocco compatto, e ogni Sonata particolare come un mondo in sé concluso e risolto.
Questo stato primordiale della conoscenza scarlattiana è stato superato per merito delle ricerche di Ralph Kirkpatrick che in Domenico Scarlatti, Princeton 1953 (più volte ristampato) ha fornito una nuova catalogazione razionale delle Sonate di Scarlatti che ha sostituito quella tradizionale di Longo.
Sonata K 214. In re maggiore (Allegro vivo) è uno di quei tipici movimenti rapidi scarlattiani derivati dallo spunto della Giga. La velocità con cui si succedono le immagini stimola una scrittura armonica essenziale, abbreviata, ohe accoglie incontri inconsueti (alcune sovrapposizioni di triadi di tonica e dominante sono state «purificate» nell'edizione di Longo). Secondo un processo, di cui Scarlatti conserva il segreto, alla festosa ronda ritmica si compenetrano fugaci ma intensi spunti di melodie (una all'inizio della seconda parte di accesso colore spagnolo).
Giorgio Pestelli