Un'opera splendida ci introduce allo Scarlatti autore di musica vocale: la cantata «Che vidi, o Ciel, che vidi!». Nell'involuto testo anonimo, l'io lirico si finge spettatore di una scena tragica in cui la ninfa Filli piange inconsolabile sull'amato Tirsi, moribondo. Questo frammento di favola pastorale viene adattato all'architettura essenziale della cantata - l'articolazione tradizionale in due arie alternate ad altrettanti recitativi - attraverso il chiaroscuro di due momenti affettivi contrastanti, in grado di garantire all'interprete l'occasione di esibire la propria versatilità nel canto di portamento, in quello d'agilità e nella tempra drammatica del recitativo. La prima aria m si concentra infatti sull'icona dolorosa della donna disperata, mentre la seconda raccoglie il filo di speranza (la nascita di un figlio che le ricordi il padre) proposto dal recitativo che la precede, mettendo in scena un quadretto naturalistico dal chiaro significato morale: una violenta tempesta che risolve nel quieto paesaggio di un'Arcadia idealizzata. Un accurato recitativo accompagnato apre la com¬posizione, impegnando sin dall'esordio il piccolo gruppo cameristico in una resa sensibile del dettato poetico (ad esempio, attraverso il susseguirsi di indicazioni di tempo modulate assecondando le svolte testuali). La scena è introdotta in medias res con una gestualità drammatica che traduce nell'incalzare del ritmo puntato la sorpresa per la vista pietosa. Se la descrizione della scena richiama un accompagnamento più discreto e distaccato, in Adagio e piano, sul quale la voce reagisce sensibile ai nuclei semantici più intensi del testo («aspro», «amaro», «parti»), la conclusione dell'apostrofe disperata a Tirsi è intonata in un più mosso Andante. A quel punto il commento del compassionevole spettatore avrà modo di effondersi nell'incanto lirico dell'ampia prima aria. Questa, costruita nella forma grande col da capo (AA'BAA), profonde continue raffinatezze nella suadente invenzione tematica (caratterizzata da salti d'ottava sia in A che in B), nella naturalezza delle colorature a «pietà» e «pena», nell'intarsio delle risposte tra voce e violini, nell'asprezza delle dissonanze e dei contrasti dinamici a «È crudele». Il secondo recitativo nasce semplice ma si colora della calda aureola dei violini quando il testo si apre alla speranza («E quindi il gentil fiore...»), anticipando l'immaginario bucolico dell'aria. In quest'ultima, scritta anch'essa nella forma col da capo, la sezione principale evoca la violenza di una tempesta grazie alla concitazione di un materiale tematico di straordinaria varietà, tipico dell'imitazione meteorologica della musica tardobarocca: un materiale ordinatamente presentato dall'ampio ritornello introduttivo e associato dalla voce a precisi nuclei semantici definiti dal testo poetico. Nel cuore dell'aria la sezione contrastante offre invece l'oasi bucolica di un Andante moderato in cui i violini effondono, a imitazione della benefica pioggerellina del testo, una figura di terzine ripresa poi dalla voce, finché il da capo non riproporrà lo scenario grandioso dello scatenarsi degli elementi, assicurando così un degno finale alla cantata, nel segno di una pirotecnica esibizione dell'interprete vocale.
Raffaele Mellace