Che vidi oh ciel che vidi

Cantata per soprano, due violini e basso continuo

Musica: Domenico Scarlatti (1685 - 1757)
Testo: autore ignoto
  1. Che vidi oh ciel che vidi
    Recitativo per soprano, 2 violini e basso continuo
  2. Ben fedele è chi la mira - Andante cantabile (do maggiore)
    Aria per soprano, 2 violini e basso continuo
  3. Priva del caro bene
    Recitativo per soprano, 2 violini e basso continuo
  4. Se nube oscura - Allegro moderato (mi bemolle maggiore)
    Aria per soprano, 2 violini e basso continuo
Organico: soprano, 2 violini, basso continuo
Composizione: 1730 - 1735 circa
Guida all'ascolto (nota 1)

Un'opera splendida ci introduce allo Scarlatti autore di musica vocale: la cantata «Che vidi, o Ciel, che vidi!». Nell'involuto testo anonimo, l'io lirico si finge spettatore di una scena tragica in cui la ninfa Filli piange inconsolabile sull'amato Tirsi, moribondo. Questo frammento di favola pastorale viene adattato all'architettura essenziale della cantata - l'articolazione tradizionale in due arie alternate ad altrettanti recitativi - attraverso il chiaroscuro di due momenti affettivi contrastanti, in grado di garantire all'interprete l'occasione di esibire la propria versatilità nel canto di portamento, in quello d'agilità e nella tempra drammatica del recitativo. La prima aria m si concentra infatti sull'icona dolorosa della donna disperata, mentre la seconda raccoglie il filo di speranza (la nascita di un figlio che le ricordi il padre) proposto dal recitativo che la precede, mettendo in scena un quadretto naturalistico dal chiaro significato morale: una violenta tempesta che risolve nel quieto paesaggio di un'Arcadia idealizzata. Un accurato recitativo accompagnato apre la com¬posizione, impegnando sin dall'esordio il piccolo gruppo cameristico in una resa sensibile del dettato poetico (ad esempio, attraverso il susseguirsi di indicazioni di tempo modulate assecondando le svolte testuali). La scena è introdotta in medias res con una gestualità drammatica che traduce nell'incalzare del ritmo puntato la sorpresa per la vista pietosa. Se la descrizione della scena richiama un accompagnamento più discreto e distaccato, in Adagio e piano, sul quale la voce reagisce sensibile ai nuclei semantici più intensi del testo («aspro», «amaro», «parti»), la conclusione dell'apostrofe disperata a Tirsi è intonata in un più mosso Andante. A quel punto il commento del compassionevole spettatore avrà modo di effondersi nell'incanto lirico dell'ampia prima aria. Questa, costruita nella forma grande col da capo (AA'BAA), profonde continue raffinatezze nella suadente invenzione tematica (caratterizzata da salti d'ottava sia in A che in B), nella naturalezza delle colorature a «pietà» e «pena», nell'intarsio delle risposte tra voce e violini, nell'asprezza delle dissonanze e dei contrasti dinamici a «È crudele». Il secondo recitativo nasce semplice ma si colora della calda aureola dei violini quando il testo si apre alla speranza («E quindi il gentil fiore...»), anticipando l'immaginario bucolico dell'aria. In quest'ultima, scritta anch'essa nella forma col da capo, la sezione principale evoca la violenza di una tempesta grazie alla concitazione di un materiale tematico di straordinaria varietà, tipico dell'imitazione meteorologica della musica tardobarocca: un materiale ordinatamente presentato dall'ampio ritornello introduttivo e associato dalla voce a precisi nuclei semantici definiti dal testo poetico. Nel cuore dell'aria la sezione contrastante offre invece l'oasi bucolica di un Andante moderato in cui i violini effondono, a imitazione della benefica pioggerellina del testo, una figura di terzine ripresa poi dalla voce, finché il da capo non riproporrà lo scenario grandioso dello scatenarsi degli elementi, assicurando così un degno finale alla cantata, nel segno di una pirotecnica esibizione dell'interprete vocale.

Raffaele Mellace

Testo

Recitativo:

Che vidi, o Ciel, che vidi!
Langue Tirsi e il sembiante
tutto ha già sparso di color di notte.
E la fedel consorte
stagli pietosa e in un dolente accanto,
richiamando entro il core
quel che l'aspro dolore
sopra i lumi le spinge amaro pianto.
Oh come ancor tacendo
par che guardi ella, favelli e dica:
«Tu parti e m'abbandoni?
Ah, se già fece amor de'voler nostri
un sol volere, t'arresta, e aspetta solo
tanto che per pietà m'uccida il duolo».


Aria:

Ben crudele è chi la mira,
e non piange, e non sospira,
e non ha di lei pietà.
Tema e duol le opprime il seno,
e virtù che al pianto è freno
maggior pena al cor le dà.


Recitativo:

Priva del caro bene,
Filli dunque dovrà trarre i suoi giorni
sempre tra affanni e pene? Oh Dio, che parlo?
Dove mi guida un rio timor? Tacete,
funesti miei pensieri,
o con più grati accenti
parlate al mesto cor, se saggi siete.
Forse talor col velo di torbida sventura
non copre i doni suoi provvido il Cielo?
Chissà che la sua doglia,
pietà destando, non raddoppi amore
e quindi il gentil fiore
non sorga ad appagar gl'altrui desiri,
onde madre si miri
di vago pastorel, che ne' consigli
il suo gran padre e lei in virtù somigli,
sì che non mai dal vero
mia fatidica mente andò lontana?
Già il vedo entro il pensiero
di bianco e dolce aspetto,
di biondo crine e d'ogni pregio adorno
vezzosamente a lei scherzar d'intorno.


Aria:

Se nube oscura
ricopre il giorno,
orrido il cielo
freme d'intorno,
empie d'orror.
Ma se in umore
poscia si scioglie,
mira il pastore
tra verdi foglie
nascere il fior.
(1) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 153 della rivista Amadeus


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Ultimo aggiornamento 6 gennaio 2015