Concerto per pianoforte n. 2 in sol minore, op. 22


Musica: Camille Saint-Saëns (1835 - 1921)
  1. Andante sostenuto
  2. Allegro scherzando
  3. Presto
Organico: pianoforte solista, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, piatti, archi
Composizione: 2 maggio 1868
Prima esecuzione: Parigi, Société Nationale de Musique, 13 maggio 1868
Edizione: Durand, Parigi, 1875 (Versione per due pianoforti G. Hartmann, Parigi, 1868)
Dedica: Madame A. de Villers nata de Haber
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Il secondo Concerto per pianoforte e orchestra di Saint-Saëns fu eseguito per la prima volta al Cirque d'Hiver di Parigi, il 13 maggio 1868; il dedicatario della composizione, Anton Rubinstein, non ne era l'interprete solista, ma, per l'occasione, impugnava la bacchetta sul podio; al pianoforte sedeva l'autore, che alla fine si ebbe le lodi di Liszt. Potrà apparire strano l'entusiasmo (indubitabilmente sincero, data la lealtà e la proverbiale generosità dell'uomo) provato da un autentico novatore del linguaggio pianistico e da un «romantico integrale» come Liszt per una musica che trae le proprie ragioni d'essere da ben altre scaturigini lessicali e spirituali. Il virtuosismo pianistico, perlaceo e smagliante di Saint-Saëns è infatti di tipo, se non antiquato, certamente tradizionalista, rifacendosi a quella generazione di pianisti-compositori che attraverso Hummel, Steibelt, Kalkbrenner, Dussek, Moscheles ed altri ebbe il suo superiore esponente in Mendelssohn e che, aggirando le scogliere scbumanniane e chopiniane con i loro vortici armonici e timbrici, si ricollegava sostanzialmente alle classicistiche levigatezze di Muzio Clementi e della sua scuola. Accademico nel senso migliore - ossia non romantico - del termine, il Concerto in sol minore di Saint Saëns (come tutta la produzione operistica, sinfonica, cameristica del fecondissimo Maestro) non è però scolasticamente retrivo, nè raggrinzito nei cascami di strutture linguistiche e formali datate. La sua autenticità, riscontrabile nel taglio formale non convenzionale, nella sensibilissima dimensione timbrica della parte solistica e nella complessiva e tutta francese estrosità del discorso, ricco di tratti imprevedibili (soprattutto nel Finale) e di friandises dispensati con la noncuranza del gran signore, non poterono dispiacere a Liszt: nella cui cattolicissima coscienza artistica le fumogene gestualità iper-romantiche convivevano imperturbabilmente con le disinvolte maniere dell'uomo di mondo, sensibile come pochi altri alle discretissime eleganze e ai delicati profumi mendelssohniani della impeccabile partitura.

Il Concerto si apre con una cadenza in una maniera preludiante pseudo-barocca, che introduce all'Andante sostenuto: bella pagina dai discreti toni lirici, svolta attraverso l'arco sinuoso di due motivi primari, la cui fluida «spontaneità» è, in realtà, tutta costruita con formidabile magistero artigianale. Alla fine del brano, la cadenza iniziale, ingegnosamente combinata con incisi del primo, tema, riappare, questa volta però circonfusa di un suggestivo alone orchestrale.

Il secondo movimento combina felicemente ritmi e umori dello Scherzo classico con l'architettura della forma-sonata. La brillantissima scrittura pianistica si compiace di trovate sorprendenti, come la ricorrente imitazione dei tocchi di timpano che si fanno udire in orchestra all'inizio del brano: «Beato te, che sai fare di tutto!», soleva esclamare Bizet, sconcertato dalla mostruosa disponibilità - preclusa al proprio genio superbamente delimitato - del dottissimo Camille. La stessa eccitazione ritmica pervade il monumentale Presto conclusivo, concepito, per diretta suggestione mendelssohniana, in un tempo dì vorticoso saltarello; dove peraltro, ogni tentazione di natura troppo romanticamente folklorica e ogni facile indulgere al pittoresco e al naif sono accuratamente esorcizzati dall'impassibile gesto del signore dì classe, cui non si addice dare troppo nell'occhio.

Giovanni Carli Ballola

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il secondo e più popolare concerto per pianoforte di Saint-Saëns risale al 1868 e deve la sua paternità, in un certo senso, al pianista Anton Rubinstein, che chiese all'amico compositore di preparare un lavoro per la Salle Pleyel di Parigi. Là i due si sarebbero scambiati i ruoli abituali, con Saint-Saëns esecutore al piano e Rubinstein direttore. Saint-Saëns accolse la proposta e in soli diciassette giorni mise mano alla partitura del Concerto, che pure aveva già in mente da tempo. La critica e il pubblico furono freddi di fronte all'esecuzione (solo il secondo tempo fu applaudito), anche perché, a ragione e per stessa ammissione di Saint-Saëns, troppo ridotto era stato il tempo per studiarlo. Ciò nonostante Franz Liszt, che era presente alla «prima», gli testimoniò la più sincera ammirazione. È comunque probabile che il pubblico sia rimasto sconcertato dei bruschi cambiamenti d'umore del lavoro, che passa con impagabile nonchalance dal Barocco al Classicismo, sino al più ispirato spirito Romantico. Se d'altronde qualcuno scrisse che «il Concerto inizia con Bach e finisce con Offenbach», è vero che l'eterogeneità dello stile è una cifra compositiva del Concerto n. 2 in sol minore op. 22.

Il primo tempo, Andante sostenuto, è in un'insolita Lied-form, tripartita e con un'ampia quanto intensa introduzione, una cadenza à la manière di Johann Sebastian Bach, che richiama alcune delle sue enigmatiche fantasie per tastiera. In ogni caso, indipendentemente dai riferimenti ad altri autori del tempo come Franck e d'Indy, le retour à Bach era un topos della produzione di Saint-Saëns, che si era rifatto allo stile fugato per la Seconda Sinfonia op. 55; si concludeva con un fugato il Secondo Trio del 1892 e citiamo solo, per organo, i numerosi preludi e fughe scritti tra il 1894 e il 1895; tra il 1877 e il 1920 compose, inoltre, undici fughe per piano di cui quattro con preludio. Oltre a ciò vi sono, però, nel Concerto altri e «più» riferimenti stilistici, espliciti o meno: quando, dopo l'introduzione, entra il primo gruppo tematico si scorgono accenti eroici d'impeto beethoveniano nella verve e nella profondità delle asserzioni iniziali scolpite in stile di recitativo, prima che il nucleo del primo tema lentamente si configuri nella sua complessa integrità dai toni austeri. Ancora di altro colore invece il tema della sezione centrale, una melodia «romantica» che ridesta fuggevoli impressioni chopiniane in quell'incedere ispirato e un po' sognante, sostenuto dall'ondeggiante appoggio in sincope del basso. Nella sezione successiva sono ancor più evidenti le concessioni e rimembranze rispetto a stili «altri»: ricorda molto Liszt, ad esempio, la ricerca scoperta ed evidente della tecnica formidabile del pianoforte, ma anche e soprattutto l'espansione e la libertà strutturale del passo, elemento che poi, di fatto, va a caratterizzare l'intera architettura. Qui il pianoforte, prima avvia una serie di passi via via più virtuosistici, coinvolgendo in una turbinosa enfasi anche l'orchestra, poi crea una tensione esplosiva che coincide con lo slancio della Ripresa. Torna il primo tema principale, ma enunciato con una forza travolgente e ripetuto nelle vaporose volate del «solo», sino a sfociare senza soluzione di continuità in una grande cadenza che riprende con suprema sintesi - tecnica e di toccante spiritualità lisztiana - i tratti tematici precedenti più esemplari (che appaiono trasfigurati, come le scalette digradanti, ora tenui risonanze di inusitata tenerezza o il primo tema, addolcito in un soave canto solitario col rientro del tempo I). La trasfigurazione prosegue nell'epilogo, in cui il ritorno dell'orchestra permette ancora la replica del primo tema e lo collega con l'inatteso ritorno dell'introduzione-cadenza d'apertura del pianoforte, ora distribuita sotto una luce diversa rispetto all'inizio, fatta di nebulose rifrazioni orchestrali che, pedali armonici in sospensione, ne restituiscono un'immagine al tramonto, come sfocata; la conclusione nel Moin lent finale ricorda il preambolo al primo tema, con quelle sue violente asserzioni orchestrali.

Il Presto scherzando è un tempo in forma di rondò-sonata, pensato nello spirito di uno scherzo dai toni gai, un po' frivoli, con un gioco molto sottile del pianista, che spicca per l'agilità con cui intesse un dialogo con l'orchestra e per la levità con cui elabora le idee principali. Tutto scorre, fin dal tema-refrain dell'Esposizione, con ineluttabile e impalpabile volatilità, mentre solo il secondo tema, dall'incedere più pesante e dal tono un po' burlesco, segna un episodio di moderata discontinuità con l'orizzonte sonoro dominante. Dopo uno Sviluppo che riprende, sotto diverse prospettive, primo e secondo tema, la Ripresa non è testuale, ma con alcune varianti dettate soprattutto dal virtuosismo leggero del solista e dalla fine orchestrazione a maglie diradate dell'orchestra: così i due attori sulla scena, come in un soffio, concludono correndo e con un filo di voce il loro avvincente eloquio.

Mulinanti, rabbiose terzine in crome del pianoforte introducono ora uno scalmanato tema di tarantella, ben riconoscibile con i suoi tratti dal profilo accidentato e nel suo tipico andamento saltellante, una costante di fondo del terzo movimento del Concerto op. 22, il Presto. Ma il riferimento di taglio un po' «folclorico» a questa italica danza d'origine meridionale faceva parte a pieno titolo dell'orizzonte culturale dei musicisti di pieno Ottocento: pensiamo solo all'ultimo tempo della Sinfonia Italiana di Mendelssohn, un salterello, o ancora al Capriccio italiano di Caikovskij, o all'ultimo movimento della fantasia sinfonica Aus Italien di Richard Strauss. Non v'è respiro nell'accapigliarsi incalzante delle idee: così, dopo la comparsa del tema principale, ancora nell'Esposizione il primo gruppo prosegue con una sezione secondaria caratterizzata dal serrato scambio scopertamente percussivo tra solista e orchestra (come un ritmico, ordinato battere di mani in danza di gruppo), un'agitata progressione discendente, un passo di brillante virtuosismo in scalpitanti terzine; il secondo gruppo tematico, in re minore rispetto al sol minore iniziale, prosegue con un'idea di salto che letteralmente si infrange su vibranti trilli di fermata, si invola in una scalare ascesa accordale del pianoforte, prosegue in accordi rabbiosamente ribattuti sino ai turbinosi arpeggi che chiudono la sezione: davvero colpisce l'efficacia e la resa quasi pittorica con cui Saint-Saëns disegna i fisici movimenti di danza esaltandone la plasticità, sfruttando la frontalità e la gestualità ritmico-melodica dei suoi temi. Nello Sviluppo i medesimi elementi tematici ricompaiono, ma questa volta c'è l'occasione per metterne in mostra alcuni particolari, come il caracollante incipit del primo gruppo o l'uso insistito del trillo del secondo, elaborato in forma di delicata fantasia dal solista mentre l'orchestra dipinge aurorali armonie; ancora tornano le scalpitanti terzine della frase secondaria e gli accordi ribattuti del secondo gruppo, sino a raggiungere una sorta dì climax che scarica la propria energia su di una travolgente scala cromatica collegata direttamente alla Ripresa. Nell'Epilogo pesanti accordi risuonano come potenti rintocchi di campane alternati a fulminei scatti in terzine, cui segue un ultimo, ubriacante episodio ancora basato sulle caratteristiche terzine.

Marino Mora


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 29 ottobre 1972
(2) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 164 della rivista Amadeus


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Ultimo aggiornamento 5 febbraio 2017