Africa, op. 89

Fantasia in sol minore per pianoforte e orchestra

Musica: Camille Saint-Saëns (1835 - 1921)
Organico: pianoforte solista, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 3 trombe, 2 cornette, 3 tromboni, timpani, triangolo, piatti, archi
Composizione: Cairo, 1 aprile 1891
Prima esecuzione: Parigi, Société Nationale de Musique, 25 ottobre 1891
Edizione: Durand, Parigi, 1891
Dedica: Marie-Aimée Roger-Miclo
Guida all'ascolto (nota 1)

"Africa! Una fantasia scritta in parte su temi orientali. Come tutto ciò che questo maestro della musica ha prodotto, è frutto di finezza di spirito, di perfezione di stile, il che lo rende di enorme interesse; ma è anche ricco di fantasia e oseremo affermare che pianoforte e orchestra abbiano, in Africa, ruoli ben equilibrati. Ci è sembrato, in effetti, che il pianoforte sia trattato alla maniera dolce e amabile dei maestri di un tempo, come invece all'orchestra si offra tutto il lusso della musica moderna".

In pochi tratti, il periodico L'Art Musical, dopo la prima ai Concerts Colonne di Parigi, il 25 ottobre 1891, schizzava un profilo corretto dell'op. 89 di Camille Saint-Saëns. Africa è un abile melange di sensiblerie romantica e di aperture allo spirito moderno, di alto artigianato ottocentesco e di non completa insensibilità agli effluvi del Novecento prossimo venturo. Far ricadere la "maniera dolce e amabile dei maestri" solo sui tasti del pianoforte, però, e trovare già nell'orchestra tutto il lusso della modernità, risulta un po' schematico e non più a fuoco, storicamente.

Africa è un prodotto "di sintesi" più di ogni altro lavoro di Saint-Saëns per pianoforte e orchestra, ma la tradizione che scende da Liszt, maestro e amico che nel '68 aveva ammirato il Secondo Concerto e nel '77 a Weimar sollecitato la prima di Samson et Dalila, resta la materia più densa e pesante; con un rilevante intervento "attualizzante": lo sfoltimento delle fronde più lussureggianti.

Alla fine della carriera, chiusa nel 1921 in estremo distacco dalle espansioni debussyane e dai terremoti stravinskijani, Saint-Saëns avrebbe dato ai pianisti la felicità di cinque grandi pezzi da concerto che il tempo e le oscillazioni del gusto hanno spesso accantonato nei ripostigli della storia, dopo le generazioni (non comunicanti) dei Rubinstein, Anton e Arthur. Cinque Concerti in cui la linea solista è di qualità inattaccabile e lo strumento esaltato nei suoi aspetti più tecnici, spesso preservato dall'obbligo - dal peso? - di annunciare i temi più melodicamente "esposti", di frequente anticipati in orchestra. Forse questa inclinazione compositiva fece vedere allora, nell'orchestra di Africa, una modernità che oggi notiamo meno spiccata. Di sicuro lo strumentale, conseguente logico della forma Fantasia, è assai meno monumentale di quella, ad esempio, del Concerto più eseguito, il Secondo, granitico e massiccio: ad Africa bastano pochi legni, due corni, due cornette a pistoni (variante francese, leggera, della tromba), tre tromboni e archi. La compattezza prevale sulle grandi contrapposizioni di masse.

Nella primavera del 1890, alla Societé Nationale de Musique, era stata data in prima esecuzione la Fantaisie per pianoforte e orchestra di Debussy, peraltro in una versione che l'autore aveva esecrato in una lettera personale a D'Indy, che l'aveva tagliata di ben due movimenti. Forse l'esempio non fu senza conseguenze.

Saint-Saëns aveva già composto quattro dei suoi cinque Concerti per pianoforte e orchestra (come cinque sono le Sinfonie, non tre: essendo due semplicemente fuori rubrica): il primo nel 1858, il secondo nel '68 (in 17 giorni), il terzo un anno dopo (1869) e il quarto nel 1875. Un solo precedente in forma "piccola": la Rapsodie d'Auvergne (1884), venata di temi popolari. Africa - dieci minuti di musica - aggiunge qualcosa, anzi molto: un gioco orientale, in risposta alla seconda e non meno profonda passione dell'autore per la musica come viaggio. Nelle culture altre, preferibilmente.

Nel dicembre del 1890 Saint-Saëns aveva lasciato Parigi per Ceylon, al ritorno si era fermato al Cairo e ad Alessandria. Due anni prima aveva visitato a lungo Algeria ed Egitto. Nel '95 avrebbe compiuto il suo più lungo viaggio in Oriente, fino all'Indocina. Il Mediterraneo lo attrasse sempre. Per morire, scelse il calore e i colori di Algeri.

Di vene esotiche e folk il catalogo di Saint-Saëns è letteralmente cosparso, con titoli "dedicati" - come la Suite algerienne, Une nuit à Lisbonne, la Jota aragonesa del 1880, la stessa Rapsodie d'Auvergne del 1884, il Caprice sur des airs danois et russes, la Havanaise per violino e orchestra del 1887, il Quinto Concerto che verrà, nel 1896, nominato "L'egiziano" - ma anche e soprattutto con una messe di materiali presi dalla musica bassa: temi, ritmi, citazioni sparse ovunque nelle pagine grandi e piccole, dalla Danse macabre al consumatissimo Cygne del Carnaval des animaux, ai lampi lussureggianti del Bacchanale di Samson et Dalila.

In Africa il materiale "originario" si annuncia subito nell'introduzione in forma rapsodica, riappare in molti accidenti di tonalità, in echi del flauto e soprattutto nel tema in sol maggiore, un veloce 6/8, che è la Danse des Almées (le cantanti-danzatrici orientali), frutto di annotazioni nel taccuino musicale algerino. Il tutto legato liberamente con cadenze del pianoforte.

Saint-Saëns era un accademico. Qualcuno dice pompier. Aveva raccolto l'eredità di Cherubini dalle mani del suo insegnante di armonia, Halévy. Per quanto affascinato da "modernisti" come Liszt e Wagner, non tagliò mai il cordone che lo legava per natura e cultura al corpo "sano" del Romanticismo, con Schumann come estremo aggetto. Del debussyano Pelléas et Mélisande, nel 1902, disse tutto il male possibile, come Elvira di Don Giovanni. Dopo poche battute del Sacre di Stravinskij, nel 1913, testimoni dicono che si alzò indignato. Aveva 78 anni, ma non era questione di età. La sua estetica gli avrebbe fatto condividere le parole sprezzanti di Jascha Heifetz: "Leggo musica contemporanea per rendermi conto di quanto sia inutile scrivere altro dopo Beethoven".

Fatale, alla fortuna critica di Saint-Saëns, fu la petite phrase della Sonata di Vinteuil di Proust, che a Jacques de Lacretelle rivelò come il modello non fosse in Franck bensì nella "frase incaritevole ma in fondo mediocre di una Sonata per violino e pianoforte di Saint-Saëns, musicista che non amo".

Eppure la piccola Africa anticipava ben più di un secolo fa un neoesotismo che oggi è sotto i nostri occhi e, non sempre confessato, nel nostro orecchio.

Carlo Maria Cella


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 27 novembre 2004


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Ultimo aggiornamento 28 gennaio 2015