Tzigane

Rapsodia da concerto - versione per violino e orchestra

Musica: Maurice Ravel (1875 - 1937)
Organico: violino solista, 2 flauti (2 anche ottavino), 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, tromba, triangolo, piatti, campanello, celesta, arpa, archi
Composizione: Luglio 1924
Prima esecuzione: Parigi, Les Concerts Colonne, 30 novembre 1924

Vedi al 1922 n. 118 la versione per violino e pianoforte ed al 1922 n. 119 la versione per violino e luthéal
Guida all'ascolto (nota 1)

Composta nel 1924 per violino e cymbalom e dedicata a Jelly d'Arànyi, la rapsodia da concerto Tzigane fornì a Ravel il pretesto, lo stesso anno, per una trascrizione orchestrale. Mai come in tal caso il termine «pretesto» pare lecitamente utilizzabile dacché al musicista, pur prodigo di arricchimenti nel campo del suono, nessuna ulteriore risorsa poteva venire dal maggiorato spessore della breve composizione. A differenza che in altre celebri opere strumentali raveliane ove la sostanza musicale pur già compiutissima manifesta, per la gamma degli effetti coloristici e delle gradazioni di tocco, una lata potenzialità all'orchestra, si rivela in questa ultima la assoluta bastevolezza del ruolo violinistico: atto a stabilire un tour de force, satanico e smagliante, sul concetto di ziganismo, con la conseguenza di smontare in pochi minuti mezzo secolo di giaculatorie finto-balcaniche.

Tutta la violinisterie che partendo da certe malcaute tentazioni dei classici era approdata a Bruch, Wieniawski e al primato del peggio, viene qui immersa nel tonificante bagno della cattiveria; e il tremendo virtuosismo, giocato su un bagaglio il più fearsome possibile di colpi d'arco e di effetti di armonici, si rivela (come sempre, del resto, in Ravel) la molla, e la segreta ragion d'essere, del più impavido degli snobismi: senza neppur la cautela di quel torvo spleen in cui s'era incarnata quattro anni prima la follia de La Valse; con il più sovrano disprezzo, piuttosto, delle raisons du coeur.

Si è detto della perfetta autosufficienza del ruolo violinistico; la lunga cadenza introduttiva, contorta di lividi segnali, vi appone del resto una sigla inappellabile. Ma non ci si chiama Ravel per nulla; e così, in un'opera tanto squisitamente solistica, con un'orchestra destinata a recitare la fatal parte dell'accompagnatrice, persino l'ingresso ammaliante dell'arpa, alla fine dell'esposizione del violino, vale a connotare una raffinatezza di apparato che ancor meglio si preciserà nell'esultanza brillante della rapida danza conclusiva. Così il meccanismo si perfeziona e si completa, dando ragione all'ipotesi azzardata anni fa da Alberto Mantelli secondo cui una qualche relazione doveva legare «questo modo di concepire il solismo strumentale e l'amore, che rasentava la mania, di Ravel per i più complicati giocattoli meccanici».

Aldo Nicastro


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 21 marzo 1976


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Ultimo aggiornamento 15 maggio 2013