Ravel, come ebbe a confessare nel suo «Schizzo biografico», fu sempre attratto sin dall'infanzia dal fascino del mondo orientale ed esotico, dagli incantesimi delle storie antiche e favolose che erano particolarmente congeniali alla sua aristocratica sensibilità e gli permettevano di realizzare certe suggestive e preziose risonanze armoniche e strumentali. Sin dal 1898 Ravel fu tentato dai racconti orientali delle «Mille e una notte» e incominciò a musicare un libretto d'opera di Gallard intitolato ugualmente Shéhérazade. L'opera rimase allo stato di abbozzo e l'unica cosa compiuta fu l'ouverture, che l'autore diresse in un concerto nel 1899 alla Société Nationale e poi ritirò perché non gli sembrava molto originale, in quanto in essa era fin troppo evidente l'influenza della musica russa, che a quel tempo era una delle scoperte della cultura francese, come reazione al wagnerismo e ai solenni riti parsifaliani che si celebravano nel tempio di Bayreuth. Alcuni frammenti di questa ouverture furono utilizzati e rielaborati più tardi dal musicista, quando nel 1903 la lettura dei poemi orientali di Tristan Klingsor (dissimulazione wagneriana del nome di Leon Ledere) gli ispirò tre fra le sue liriche migliori raccolte in un poema sinfonico per canto e orchestra dal titolo Shéhérazade, in cui questa volta si avverte l'influenza di Debussy e del suo Pelléas, che era andato in scena la primavera dell'anno precedente e alle cui diverse rappresentazioni aveva assistito con curiosità e ammirazione il giovane Ravel.
Il trittico raveliano, formato da Asie, La flûte enchantée e L'indifférent, riprende quasi letteralmente il declamato e la vocalità debussiane avvolte in una sfumata orchestrazione, in cui i timbri hanno un valore determinante per la evocazione dell'atmosfera poetica. Asie è il più debussiano dei poemi e vi si alternano come in un fantastico caleidoscopio immagini diverse del continente orientale: l'orchestrazione si mantiene sempre su sonorità discretamente delicate e solo alla fine del brano si accende ed esplode luminosamente. La flûte enchantée è un canto d'amore espresso dal flauto, la cui melodia è volta per volta languida, triste e gioiosa, tale da richiamare alla mente l'esperienza dell'Après midi d'un faune. L'indifférent è il pezzo più scarno del trittico e immerge l'ascoltatore in un clima di sensualità e di torpore tipicamente orientale, che Ravel riesce a rappresentare con poche ed essenziali linee melodiche, disposte e ordinate secondo la lucida intelligenza cartesiana dell'autore, che forse in questa pagina già mostra la volontà di volersi distaccare dal legame debussiano.
Ennio Melchiorre
Il 30 aprile 1902 andava in scena all'Opera comique di Parigi Pelléas et Mélisande, il capolavoro con il quale Claude Debussy scriveva nella storia del teatro musicale una pagina capitale, gettando un ponte arditissimo fra l'Ottocento di Wagner e le mille faticose ramificazioni in cui si sarebbe dilatata l'esperienza novecentesca. Una prima contrastata, come si sa: e che tuttavia riuscì a giungere nel giro di un paio di mesi alla quattordicesima replica. A tutte queste rappresentazioni assistè, sempre più entusiasta, il ventisettenne Ravel, che giusto in quel tempo attendeva alla composizione di un lavoro che non per caso pareva voler in qualche modo ricalcare un'esperienza debussyana di dieci anni prima, il Quartetto in fa maggiore. Subito dopo questo, nasceva la composizione che più d'ogni altra di Ravel sembra pagare un tributo all'arte di Debussy, e in primo luogo al Pelléas: i tre poemi per voce e orchestra di Shéhérazade, terminati nel 1903 ed eseguiti l'anno successivo alla Société Nationale. Con essi, Ravel si accostava per la prima volta, dopo qualche tentativo giovanile, alle magie della grande orchestra, unendovi la voce (anche questo un campo fin allora relativamente poco battuto da lui): niente di più naturale che questi approcci, data l'età e l'esperienza ancora abbastanza ristretta del compositore, avvenissero sotto il segno più o meno marcato di un'influenza altrui. Sicché è forse da far risalire soprattutto a Shéhérazade la «colpa» di tutti quegli equivoci che per tanto tempo hanno reso difficile stabilire la vera natura dei rapporti fra lo stile e l'estetica di Ravel e quelli di Debussy; rapporti che certamente ci furono, e molto stretti, ma dei quali è indispensabile ridimensionare la portata quando si rischi di proporre l'idea di una dipendenza di Ravel nei confronti di Debussy, come di un epigono nei confronti di un caposcuola. Il giudizio, certo acutissimo, che Erik Satie pronunciava sul giovane Ravel («un Debussy plus épatant», un Debussy più sbalorditivo, più mirabolante) poteva, in questo senso, apparire ambiguo: ma a confermare il significato più vero, quello che poneva in risalto l'originalità di Ravel piuttosto che la sua aderenza allo stile dell'altro, erano già venuti nel 1901 quei Jeux d'eau che anticipando di qualche anno la grande stagione del pianismo debussyano (le Estampes sono del 1903) ribaltavano addirittura il rapporto in favore del musicista più giovane.
Detto questo, resta indubbio che con Shéhérazade ci troviamo nel cuore di un linguaggio e di una dimensione poetica di scoperta ascendenza debussyana. Un connotato questo, che si mescola con tutta una serie di rimandi, anche esterni, ad atteggiamenti culturali o mode caratteristici di un clima estetico diffusissimo nella Parigi fra la fine dell'Ottocento e gli albori del nostro secolo, e che ampiamente traspaiono nella stessa scelta del testo poetico. Il fascino delle Mille e una notte e della loro protagonista Shéhérazade è uno dei simboli più scontati di quell'estetismo: sensualità e crudeltà, liberazione fantastica abbondantemente contaminata di languore, esotismo geografico e cronologico, meglio se di colorito orientale, sono fra i luoghi obbligati del Decadentismo; e in terra di Francia assunti del genere non mancarono di fiancheggiare le avventure poetiche del movimento simbolista. E a quest'ultima corrente artistica - per tacere dei rapporti profondi e complessi che ebbe con essa la musica proprio nella persona di Claude Debussy - aderiva il poeta e pittore autore dei versi impiegati da Ravel nella sua Shéhérazade, quell'Arthur Justin Leon Leclère che amava celarsi sotto lo pseudonimo smaccatamente wagnerizzante (ecco un altro intreccio con il retroterra estetico di Debussy) di Tristan Klingsor, riprendendo i nomi di personaggi eletti a simbolo di due opposti poli d'attrazione della poesia di Wagner, la passione pura di Tristano e la tentazione al male impersonato dall'esecrando mago di Parsifal. Nei tre poemi di Leclère-Klingsor si celebra un'Oriente fantasmagorico, «grondante», nota Carli Ballola, «eleganze e profumi floreali», in continuo e mutevole scambio fra parola e immagine visiva o evocazione sonora. A queste suggestioni Ravel risponde, sul piano vocale, piegando la parola cantata a un declamato evidentemente memore della sconvolgente lezione di Pelléas: «così grave, libero, largo e cantato», dice Vladimir Jankélevitch, che «a nessuno verrebbe in mente di definire secco e asciutto lo stile di Ravel»; una soluzione, quindi, senz'altro lontana da quelle che la produzione maggiore e più matura del musicista avrebbe saputo trovare, caratterizzandosi come una delle più taglienti e traslucide esperienze artistiche del Novecento. Nella partitura orchestrale, Ravel celebra con mano straordinariamente scaltrita il trionfo della magica e lussureggiante tavolozza sonora impressionista, dispensando con larghezza trilli, arpeggi, glissandi, meravigliose torniture melodiche, sognanti macchie di colore ed estasi timbriche.
Shéhérazade, per continuare con le parole di Jankélevitch, resta dunque «un poema orientale dai colori cangianti, sentito senza alcuna ironia, ove le prigioniere non hanno ancora imparato il pudore dei propri sentimenti»: un lavoro dunque decisamente poco raveliano, vedendolo con gli occhi di oggi; il che non impedisce che in molti luoghi di esso, specialmente nel secondo e nel terzo pezzo, i segni peculiari della sensibilità più vera di Ravel vi appaiano in abbondanza. In Asie, la prima delle tre liriche, ci troviamo in un clima di facili compiacimenti: il lungo brano si articola in un preludio e in una serie di episodi corrispondenti alle avventure fantastiche che si dipanano nel poema, con una deliberata e puntuale aderenza dell'immagine sonora a quella verbale, ambedue traducendosi in suggestione visiva anche in virtù di decantati esotismi (è stato rilevato il rimando dei carillons che accompagnano l'evocazione dei «Mandarins ventrus» alla ancor lontana Ma mère l'Oyé): il ritorno, nella chiusa, degli echi sfumati dell'introduzione sembra, oltre che conferire al brano un senso di compiutezza, riprodurre i contorni evanescenti del sogno. Al denso estetismo di questo viaggio fantastico succede, con un certo contrasto di atmosfere - mitigato peraltro da una nascosta unitarietà tematica - lo spleen delicatissimo della Flùte enchantée: la suggestione musicale implicita nella poesia non va certo perduta per Ravel, che ne approfitta per far cantare lo strumento fascinoso che già nel Prelude à l'après-midi d'un faune di Debussy aveva annunciato le nuove prospettive sonore del Novecento. L'atmosfera di questo pezzo è, senza infingimenti, quella del Simbolismo più autentico: ma nella brevità del testo poetico la realizzazione musicale trova una densità e una contenutezza di modi a tutti gli effetti degni del segno netto e conciso delle future creazioni di Ravel. Ancor più innanzi si va con L'indifférent: un alone di vistosa sensualità nel testo, un languore non meno estenuato nella traduzione musicale. Ma l'asciuttezza del colorito orchestrale, la drastica concentrazione del materiale tematico, il tono più sommesso apparentano questo pezzo al nitore del Quartetto, di poco precedente, e soprattutto all'aforistica incisività nella quale con il procedere della sua evoluzione Ravel avrebbe tradotto le cifre più pudiche della sua poesia.
Daniele Spini
ASIE Asie, Vieux pays merveilleux des contes de nourrice Où dort la fantaisie comme une impératrice En sa forêt tout emplie de mystère Asie, Je voudrais m'en aller avec la goëlette Qui se berce ce soir dans le port, Mystérieuse et solitaire Et qui déploie enfin ses voiles violettes Comme un immense oiseau de nuit dans le ciel Je voudrais m'en aller vers les îles de fleurs En écoutant chanter la mer perverse Sur un vieux rythme ensorceleur Je voudrais voir Damas et les villes de Perse Avec les minarets légers dans l'air; Je voudrais voir de beaux turbans de soie Sur des visages noirs aux dents claires; Je voudrais voir des yeux sombres d'amour Et des prunelles brillantes de joie Et des peaux jaunes comme des oranges Je voudrais voir des vêtements de velours Et des habits à longues franges Je voudrais voir des calumets entre des bouches Tout entourées de barbe blanche Je voudrais voir d'âpres marchands aux regards louches, Et des cadis, et des vizirs Qui du seul mouvement de leur doigt qui se penche Accorde vie ou mort au gré de leur désir Je voudrais voir la Perse, et l'Inde et puis la Chine Les mandarins ventrus sous les ombrelles Et les princesses aux mains fines, Et les lettrés qui se querellent Sur la poésie et sur la beauté; Je voudrais m'attarder au palais enchanté et comme un voyageur étranger Contempler à loisir des paysages peints Sur des étoffes en des cadres de sapin Avec un personnage au milieu d'un verger; Je voudrais voir des assassins souriant Du bourreau qui coupe un cou d'innocent Avec son grand sabre courbé d'Orient Je voudrais voir des pauvres et des reines Je voudrais voir des rosés et du sang Je voudrais voir mourir d'amour ou bien de haine Et puis m'en revenir plus tard Narrer mon aventure aux curieux de rêves En élevant comme Sindbad ma vieille tasse arabe De temps en temps jusqu'à mes lèvres Pour interrompre le conte avec art... |
ASIA Asia, antico paese favoloso dei racconti dell'infanzia in cui la fantasia come un'imperatrice dorme nella sua foresta tutta piena di mistero Asia, vorrei andarmene con la goletta che si culla stasera nel porto, misteriosa e solitaria e che spiega finalmente le sue vele violette come un immenso uccello notturno nel cielo vorrei andarmene verso le isole fiorite ascoltando cantare il mare perverso su un vecchio ritmo ammaliatore vorrei vedere Damasco e le città della Persia con nell'aria esili minareti; vorrei vedere bei turbanti di seta su visi neri dai denti rilucenti; vorrei vedere occhi cupi d'amore e pupille brillanti di gioia e pelli gialle come arance vorrei vedere vestimenti di velluto e abiti dalle lunghe frange vorrei vedere dei calumet nelle bocche circondate da una barba bianca vorrei vedere abili mercanti dagli sguardi subdoli, e dei cadì, e dei visir che con il semplice abbassare del loro dito accordano la morte o la vita secondo, il loro piacere vorrei veder la Persia, e l'India e poi la Cina i mandarini panciuti sotto gli ombrellini e le principesse dalle mani sottili, e i letterati che discutono accaniti sulla poesia e sulla bellezza; vorrei fermarmi nel palazzo incantato e come un viaggiatore straniero contemplare a mio piacere dei paesaggi dipinti su stoffe incorniciate d'abete con un personaggio in mezzo ad un giardino; vorrei vedere assassini che sorridono del carnefice che mozza il capo a un innocente con la sua grande curva sciabola d'Oriente vorrei vedere poveri e regine vorrei vedere rose e sangue vorrei veder morire d'amore oppure di odio e ritornarne dopo a narrare la mia storia a quelli che amano i sogni alzando come Sindbad la mia vecchia tazza araba di tanto in tanto fino alle mie labbra per interrompere ad arte il mio racconto... |
LA
FLÛTE ENCHANTÉE L'ombre est douce et mon maître dort Coiffé d'un bonnet conique de soie Et son long nez jaune en sa barbe blanche Mais moi, je suis éveillée encor et j'écoute au dehors Une chanson de flûte où s'épanche Tour à tour la tristesse ou la joie Un air tour à tour langoureux ou frivole Que mon amoureux chéri joue Et quand je m'approche de la croisée II me semble que chaque note s'envole De la flûte vers ma joue Comme un mystérieux baiser. |
IL
FLAUTO MAGICO L'ombra è dolce e il mio signore dorme sotto un berretto conico di seta il lungo naso giallo nella sua barba bianca ma io, io veglio ancora e ascolto, fuori, la canzone di un flauto che diffonde di volta in volta la gioia o la tristezza un motivo di volta in volta languido o frivolo che suona il mio diletto innamorato e quando mi avvicino alla finestra mi sembra che ogni nota s'involi dal flauto verso la mia guancia come un bacio misterioso. |
L'INDIFFERENT Tes yeux sont doux comme ceux d'une fille Jeune étranger Et la courbe fine De ton beau visage de duvet ombragé Est plus séduisante encor de ligne. Ta lèvre chante sur le pas de ma porte Une langue inconnue et charmante Comme une musique fausse... Entre! Et que mon vin te réconforte... Mais non, tu passes Et de mon seuil je te vois t'éloigner Me faisant un dernier geste avec grâce Et la hanche légèrement ployée Par ta démarche féminine et lasse... |
L'INDIFFERENTE Hai gli occhi belli come una ragazza giovane straniero, e la curva fine del tuo bel viso ombreggiato di peluria ha una linea ancor più seducente. Canta il tuo labbro sulla mia soglia una lingua sconosciuta e incantevole come una nota falsa... Entra. E che il mio vino ti ristori... Ma no, tu passi ti vedo allontanare dalla soglia facendomi un ultimo gesto grazioso con l'anca piegata leggermente nel tuo passo stanco e femminile... |