L'amore delle tre melarance, op. 33
Opera teatrale in quattro atti
Musica: Sergej Prokofiev (1891 - 1953)
Libretto: proprio, da Carlo Gozzi
Ruoli:
- Il re di Trèfle, sovrano di regno immaginario (basso)
- Il Principe, suo figlio (tenore)
- La principessa Clarice, nipote del re (contralto)
- Leandro, primo ministro (baritono)
- Truffaldino, buffone di corte (tenore)
- Pantalone, consigliere del re (baritono)
- Tchelio, mago (basso)
- Fata Morgana, strega (soprano)
- Principessa Ninette, melarancia n. 3 (soprano)
- Principessa Linette, melarancia n. 1 (contralto)
- Principessa Nicolette, melarancia n. 2 (mezzo soprano)
- Smeraldina, cameriera della Fata Morgana (mezzosoprano)
- Farfarello, un demonio (basso)
- La cuoca, gigante custode delle tre melarance (basso)
- Maestro delle cerimonie (tenore)
- Herald (basso)
- Difensori della tragedia, della commedia, del dramma lirico e della farsa
- Dieci "Ridicules"
- Piccoli demoni, mostri, ubriachi, ghiottoni, guardie, servi, soldati
Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 3 clarinetti, clarinetto
piccolo, clarinetto basso, 3 fagotti, controfagotto, 6 corni, 3 trombe,
3 tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, piatti, triangolo, tamburo
militare, tam-tam, chimes, xilofono, 2 arpe, archi
Composizione: Chicago, 1 ottobre 1919
Prima rappresentazione: Chicago, Teatro dell'Opera, 30 dicembre 1921
Edizione: Gutheil, Parigi, 1922
Sinossi
Prologo.
Impersonati da diverse sezioni del coro, i Tragici, i Comici, i Lirici e le Teste vuote disputano
sullo spettacolo che sta per iniziare, reclamando intrecci eroici e sentimentali. Ma intervengono
gli Originali (nei quali si coglie la proiezione del compositore nella sua lotta contro le convenzioni
teatrali) a proclamare che l’autentico teatro è quello che ora si rappresenterà, ‘l’amore delle tre
melarance’. Per tutta la durata dell’opera, i vari gruppi corali resteranno in scena collocati su
due alte torri con balconate e intervenendo nell’azione, talvolta in modo risolutivo.
Atto primo.
Nel palazzo del re di Coppe i medici di corte pronunciano il loro verdetto sull’ipocondria che affligge
il principe Tartaglia: guarirà solo se riuscirà a ridere. Il re è afflitto dalla prospettiva della
perdita del figlio e dell’ascesa al trono della detestata nipote Clarissa; Pantalone propone allora
che si proclamino feste e mascherate per risollevare l’animo di Tartaglia. ‘Scena infernale’, fiamme
e fumo: il mago Celio gioca a carte con la fata Morgana la sorte del principe, ma ne è sconfitto.
Intanto Clarissa e Leandro tramano contro il principe e si accordano per succedergli al trono come
regina e principe consorte. Per sopprimere Tartaglia, Leandro propone di aggravare la sua ipocondria
con un metodo che reputa infallibile: dal momento che il principe andrebbe curato a colpi di allegria,
gli toglierà ogni speranza di sorriso inondandolo di prosa ampollosa, tragica e antiquata. Ma la trovata
suscita l’ironia degli Originali e di Clarissa: meglio, obietta la perfida nipote, ricorrere al veleno
o a una pallottola. Alla loro congiura si unisce Smeraldina.
Atto secondo.
Il principe Tartaglia è in preda all’ipocondria. Il menestrello Truffaldino lo invita inutilmente a prender
parte ai festeggiamenti in suo onore finché, esasperato, getta tutti i medicinali dalla finestra. Truffaldino
ha infine convinto il principe ad assistere alle feste di corte (Marcia e Interludio). Sopraggiunge Morgana,
travestita da vecchia signora. Truffaldino la riconosce e si adopera per scacciare l’indesiderata intrusa.
Messa in fuga, la fata inciampa e cade a gambe levate, suscitando le sospirate risa di Tartaglia. Ma presto
l’allegria è raggelata dalla maledizione che la fata lancia contro il principe. Stregato dall’amore di tre
melarance prigioniere della maga Creonta, Tartaglia dovrà liberarle se desidera avere pace. Il principe accetta
la sfida; invano trattenuto dal re, parte alla loro ricerca accompagnato da Truffaldino.
Atto terzo.
Nel deserto, il mago Celio cerca di proteggere Tartaglia e Truffaldino; ma il diavolo Farfarello gli ricorda
che essendo stato sconfitto alle carte da Morgana, i suoi poteri sono inefficaci. Celio appare ai suoi protetti:
consegna loro un anello da usare contro la maga Creonta e li ammonisce ad aprire le melarance solo dove troveranno
acqua in abbondanza. Farfarello accetta di portare i due eroi in volo fino al castello della maga Creonta (Scherzo).
Davanti al castello di Creonta, appare la maga sotto le spoglie di una gigantesca cuoca, che è pronta a uccidere
le tre melarance con un colpo del suo cucchiaio da minestra. Grazie all’anello donato da Celio e mostratole da
Truffaldino, la cuoca non si accorge del principe, che si introduce nella cucina impossessandosi delle tre melarance,
ognuna delle quali ha le dimensioni di una testa umana. I due fuggono dal castello (ripresa dello Scherzo). Tartaglia
e Truffaldino sono in fuga da Creonta, nel mezzo del deserto. Truffaldino è tormentato dalla sete; approfittando
del sonno del principe, disubbedisce all’ordine del mago Celio e apre una delle melarance, che nel frattempo hanno
raggiunto le dimensioni di una persona. Ne esce Linetta che chiede disperatamente da bere, o per lei sarà la morte.
Preso dalla disperazione, Truffaldino apre la seconda melarancia e appare Nicoletta: entrambe spirano per la sete
mentre il menestrello fugge. Al suo risveglio il principe apre la terza melarancia e ne esce la principessa Ninetta,
la più bella delle tre, di cui subito s’innamora venendone altrettanto prontamente ricambiato. Anche Ninetta sarebbe
destinata a morire di sete se in suo soccorso non giungesse l’intervento
ex machina degli
Originali –
alias Prokof’ev – che entrano in scena e offrono alla principessa un provvidenziale
secchio d’acqua. Ninetta e Tartaglia si abbandonano allora alle effusioni sentimentali di un duetto d’amore in piena
regola, suscitando i commenti entusiastici dei Lirici: «Dramma, dramma lirico! Amore romantico!». Su richiesta di
Ninetta, il principe si allontana dall’amata lasciandola sola nel deserto per procurarle le vesti adatte a presentarsi
al palazzo del re di coppe. Approfittando della sua assenza sopraggiungono la fata Morgana e Smeraldina, gettando
nella disperazione gli spettatori che assistono dalle balconate. Conficcandole uno spillone nella testa, Smeraldina
tramuta la povera Ninetta in un grosso topo e prende il suo posto nell’incontro con il re. Al ritorno di Tartaglia con
tanto di corteo regale, l’impostora reclama di essere Ninetta, la sua promessa sposa. Tartaglia naturalmente rifiuta,
ma suo padre lo obbliga a rispettare il dovere di inalterabilità della parola regale.
Atto quarto.
Il mago Celio e la fata Morgana si scontrano di nuovo, scambiandosi accuse e invettive. Celio sta per soccombere ma
gli Originali lasciano i loro posti e intervengono in suo favore rinchiudendo Morgana nella torre. Nella sala del
trono del palazzo del re di Coppe. Giunto il corteo regale, si scopre il drappo che cela il trono riservato alla
principessa ma, tra lo sconcerto generale, vi appare seduta Ninetta in forma di grosso topo. Mentre sta per essere
scacciata dalle guardie del re, Celio interviene e con la sua magia le restitusce le vere fattezze umane. La congiura
di Clarissa, Leandro e Smeraldina è allora smascherata: il re condanna i traditori all’impiccagione, ma questi si danno
alla fuga e vengono inseguiti invano finché la fata Morgana non interviene a salvarli dalla punizione scomparendo per
incanto insieme a loro. Insieme agli Originali, tutti festeggiano in coro il principe Tartaglia e l’autentica principessa.
Dopo aver trascorso in Russia gli anni della prima guerra mondiale e i momenti tumultuosi della rivoluzione d’Ottobre,
nel 1918 il giovane Prokof’ev si era proposto di conquistare i palcoscenici degli Stati Uniti con le sue doti trascendentali
di pianista aggressivo e virtuoso, che gli erano valse l’appellativo di ‘Chopin cosacco della generazione del futuro’, e
con l’impeto ‘modernista’ delle sue composizioni. Come ricorda il compositore nella propria autobiografia, infatti, gli
spettatori che nel ‘21 assistettero alla ‘prima’ americana dell’Amore delle tre melarance si
sentirono assieme felici e scandalizzati per aver presenziato a una ‘première modernista’; ma
l’origine della polemica rimontava già a tre anni prima. Mentre l’abilità dell’esecutore alla tastiera era tale da potersi
accattivare facilmente le simpatie di qualsiasi pubblico, ben diversa era stata l’accoglienza riservata alle sue musiche,
nelle quali i critici scorgevano i pericolosi germi del contagio della sovversione ‘anarchica e bolscevica’. E anche se in
qualche misura Prokof’ev si presentava davvero quale ambasciatore della nascente Russia sovietica (il viaggio oltreoceano
era stato incoraggiato anche da Gor’kij e da Lunacarskij), l’effettiva sua ‘rivoluzione’ era di marca prettamente musicale
e da sola ben sufficiente a suscitare il più ampio degli scandali nel mondo dell’opera, così come quella di Stravinskij si
era indirizzata con pari veemenza ‘barbarica’ contro le convenzioni del balletto. Si intuisce perciò quanto coraggio vi
fosse nella scelta del direttore dell’Opera di Chicago, l’italiano Cleofonte Campanini, nel commissionare una creazione
allo ‘Chopin cosacco’ già nel 1918, poco dopo il suo arrivo. Da parte sua Campanini accolse con entusiasmo la proposta del
compositore, che da qualche tempo pensava a un soggetto fiabesco ricavato da Gozzi; nel lungo e avventuroso viaggio dalla
madrepatria Prokof’ev aveva avuto modo di abbozzarne a mente le linee fondamentali. Al mondo della fiaba, alle maschere e
alle grottesche parodie della commedia dell’arte ideate da Gozzi, il compositore era giunto attraverso l’essenziale mediazione
del drammaturgo e regista d’avanguardia Vsevolod Mejerchol’d. Nel generale clima di quegli anni, segnato da una ventata di
reazione ai debordanti languori tardoromantici e al sentimentalismo verista, il teatro fantastico di Gozzi assumeva il valore
della rivolta antinaturalistica libera da ogni costrizione – si pensi, in quello stesso periodo, alle maschere
dell’Arlecchino di Busoni o a Petruška di Stravinskij. Nel pieno della
sua riscoperta del mondo delle maschere, nel ‘14 Mejerchol’d pubblica dunque una versione dell’Amore
delle tre melarance che cattura l’attenzione del compositore: il soggetto gli è caldamente raccomandato e stimola
la sua fantasia tanto da non fargli dimenticare di portarne con sé una copia negli Stati Uniti, dalla quale trarrà la versione
francese utilizzata nella ‘prima’ americana. Nell’ottobre del 1919 l’improvvisa morte di Campanini offrì all’Opera di Chicago
il pretesto per rinviare il debutto di una stagione. Dopo il successo di Chicago del ‘21 sotto la bacchetta del compositore
medesimo e la ripresa di New York dell’anno seguente, un momento cruciale sarà rappresentato dall’entusiastico successo della
produzione del ‘26, a Leningrado. Per la prima volta in lingua originale, essa permise di apprezzare l’arguzia e i giochi di
parole del testo russo, che Prokof’ev aveva ripreso da Mejerchol’d e che da entrambi erano stati concepiti in modo specifico
per le scene sovietiche.
Con questo suo primo e sofferto successo teatrale Prokof’ev creò una partitura in grado di rispecchiare alla perfezione
l’ironia tagliente e disincantata del testo di Gozzi-Mejerchol’d. L’antisentimentalismo del conte veneziano, che con le sue
inverosimili fiabe indirizzava altrettanti strali contro l’‘eresia’ della commedia di Goldoni, basata sull’osservazione realistica
dei caratteri e delle situazioni della vita quotidiana, si salda in felice armonia con quello che si suole definire lo ‘stile
da circo’ delle avanguardie russe e parigine. Lo sberleffo e la caricatura delle convenzioni del consunto melodramma ottocentesco
è la cifra che percorre l’opera da cima a fondo. Il ricco catalogo delle garbate irriverenze va dalla melopea di marca musorgskiana
del lamento del re, nel primo atto, all’evocazione quasi-wagneriana di Farfarello da parte del mago Celio nel terzo, o ancora
alle inflessioni pucciniane (cantano come Mimì in Bohème, notava Mila) escogitate per l’apparizione
delle tre principesse-melarance. E d’altra parte non mancano nemmeno degli attimi di vera commozione, come nel duetto d’amore
di Tartaglia e Ninetta, che costituisce un’eccezione al prevalente trattamento della voce e lascia presagire il più acceso
lirismo del balletto Romeo e Giulietta. Del resto l’opera ha dei forti punti di contatto con il
balletto anche nelle sue linee generali, tanto da esser stata talvolta intesa come una sintesi ideale tra queste due grandi e
inconciliabili forme teatrali. Come in un balletto, la voce assolve infatti a un compito di evocazione timbrica e decorativa che
lascia il passo alla potenza gestuale dell’orchestra, al suo vibrante impeto ritmico. Non a caso i brani più popolari delle
Tre melarance sono i momenti di maggior fulgore orchestrale – la Marcia e Interludio e lo Scherzo –
spesso eseguiti all’interno di una suite sinfonica tratta dall’opera già nel ‘22. A questi pregi va ad assommarsi l’efficace
trovata del prologo in cui sono contrapposte le diverse fazioni degli spettatori (prologo che si deve per intero a Mejerchol’d).
Trovata che ha un’esito nient’affatto intellettualistico e che risulta tanto più funzionale nei casi degli interventi degli
spettatori nell’azione, che si susseguono senza snaturarne lo svolgimento e anzi conferendole il tocco di un ulteriore straniamento
fantastico.
Michele Porzio
(1)
"Dizionario dell'Opera 2008", a cura di Piero Gelli, edito da Baldini Castoldi
Dalai editore, Firenze
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Ultimo aggiornamento 5 aprile 2021