Matrimonio al convento, op. 86

Opera lirico-comica in quattro atti

Musica: Sergej Prokofiev (1891 - 1953)
Libretto: M. Mendel'son, da "The Duenna" di R. B. Sheridan

Ruoli: Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, controfagotto, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, triangolo, woodblock, tamburello, tamburo, maracas, piatti, grancassa, tam-tam, arpa, archi
Composizione: 1940 - 1943
Prima rappresentazione: Leningrado, Teatro Accademico Nazionale d'Opera e Balletto, 3 novembre 1946
Edizione: Muzfond, Mosca, 1944
Sinossi

L'azione si svolge a Siviglia nel XVIII secolo durante i giorni del Carnevale.

Atto primo
Il nobile gentiluomo Don Gerolamo ed il ricco mercante di pesce Mendoza chiacchierano davanti alla casa del primo, compiacendosi di un accordo appena stipulato che li lega nel commercio e che ha come fulcro la promessa da parte di Don Gerolamo di far sposare a Mendoza la sua bella figlia, Luisa. Mentre i due entrano in casa, sopraggiungono Ferdinando, figlio di Don Gerolamo, invaghito della nobile Clara D'Almanza, e Antonio, un giovane innamorato di Luisa, ma di condizione sociale e ricchezza non adeguate. Ferdinando teme che Antonio sia un rivale per raggiungere Clara, ma invece Antonio inizia a fare una serenata a Luisa. Questa lo sente e gli risponde dichiarandogli il suo amore. Nel frattempo alcune maschere s'intrufolano nella scena ballando, cantando e prendendo in giro Don Gerolamo, il quale esce di casa cacciandole dalla piazza.

Atto secondo
Luisa, in camera sua, parla con la vecchia governante della situazione in cui il padre l'ha messa; deve sposare il brutto e vecchio Mendoza e rinunciare ad Antonio. La governante architetta quindi uno stratagemma per far si che Luisa riesca ad uscire di casa, incontrare Antonio e sposarsi senza che il padre possa impedirglielo. Si farà cacciare di casa da Don Gerolamo per aver portato a Luisa un biglietto amoroso di Antonio, ed allora scambiandosi vestiti ed identità con la giovane, lei sarebbe rimasta in casa, mentre Luisa sarebbe andata a raggiungere il suo innamorato. Prima di mettere in atto il piano Luisa ed il fratello Ferdinando cercano ancora una volta di far recedere il padre dal suo progetto, ma dinanzi ad un secco rifiuto, entra in gioco la governante, e tutto procede come dovuto.

L'azione si sposta al mercato del pesce dove sono Mendoza ed un suo amico aristocratico, Don Carlo. Li capitano anche Luisa, travestita da governante, e Clara; la prima in cerca di Antonio, mentre la seconda, anch'essa fuggita di casa, non vuole più vedere Ferdinando. Questi, infatti, era entrato nottetempo e con una chiave falsa nella casa dell'innamorata, ma la fanciulla dopo una gioia iniziale, aveva sentito il rimorso per quell'incontro clandestino, si riteneva offesa da Ferdinando e aveva deciso di abbandonare il suo amato per richiudersi in convento, ma, in fondo, con la speranza che Ferdinando la seguisse. Luisa architetta allora un altro piano per risolvere l'intricata situazione in cui tutte e due si trovano, e cambia ancora una volta vestiti e identità, assumendo quella di Clara. Sotto queste nuove spoglie avvicina Mendoza, giocando sul fatto che il mercante non la conosce direttamente, e gli chiede se può rintracciarle Antonio. Pur non capendo bene la situazione, Mendoza fa quello che la finta Clara gli chiede e lascia il mercato mentre Don Carlo accompagna Luisa a casa del mercante in attesa di incontrare Antonio.

Mendoza è impaziente di conoscere la sua promessa sposa, e va a casa di Don Gerolamo. Ovviamente Luisa non c'è più, e al posto della giovane il mercante incontra la governante travestita. All'inizio rimane interdetto perché le mirabolanti descrizioni della bellezza e della grazia della giovane fattegli da Don Gerolamo non corrispondono assolutamente al vero, ma poi la governante lo affascina con malie e complimenti, e Mendoza pensa che in fondo quella donna può andargli bene. Il problema adesso è come può la governante, nei panni di Luisa, uscire di casa senza che Don Gerolamo la veda e scopra l'inganno. Un rapimento, ecco la trovata! La governante dice a Mendoza che deve venire di notte a rapirla, e l'idea romantica piace molto all'ambizioso mercante. Tutto è dunque a posto, e l'Atto si chiude con un gioioso brindisi tra Don Gerolamo e Mendoza, i quali credono che le cose procedano per il verso giusto, mentre in realtà sono stati entrambi messi nel sacco.

Atto terzo
Mendoza torna a casa sua insieme ad Antonio, il quale non capisce il motivo per cui Clara lo vuol vedere. Riconosce Luisa travestita e viene messo al corrente di tutto l'inganno, mentre il vecchio mercante e Don Carlo li spiano senza però riuscire a capire quello che i due si dicono. La scena cambia e l'azione ritorna in casa di Don Gerolamo mentre questi sta suonando con un amico e un servitore un improbabile minuetto. Durante il concertino prima arriva Don Carlo con un biglietto da parte di Mendoza che lo informa del rapimento di Luisa (in realtà della governante), notizia alla quale non bada più di tanto perché tutto filava secondo progetto, e poi un ragazzo con una lettera di Luisa che chiede il consenso al padre per il suo matrimonio, ovviamente con Antonio, il quale però non viene nominato esplicitamente. Don Gerolamo non riesce a raccapezzarsi fra le due missive, ma poi decide che le donne sono strane creature, ordina al domestico di organizzare un banchetto per festeggiare quella sera stessa il matrimonio della figlia con Mendoza, e poi torna a suonare tranquillo.

Ancora un cambio di scena. Siamo nel convento dove la vera Clara si è rifugiata, e dove, non avendo più alcuna speranza di un futuro d'amore con Ferdinando, ha già indossato l'abito di novizia. Sopraggiungono quindi Luisa e Antonio ormai riuniti ed in procinto di sposarsi, seguiti dappresso da Ferdinando alla ricerca disperata di Clara. Ecco che però tutti questi travestimenti provocano un'altra vittima, ed il povero Ferdinando parla con Clara vestita da suora senza riconoscerla, e pensa che Antonio lo abbia tradito perché lo crede in compagnia di Clara, mentre quella che lui vede da lontano è soltanto Luisa travestita.

Atto quarto
Nel monastero quattro frati, Agostino, Benedettino, Chartreuse ed Elixir, fanno baldoria con i loro confratelli inneggiando al vino e bevendo alla salute delle monache del convento. Le loro libagioni sono però interrotte dall'arrivo di Antonio e Mendoza che cercano un prete disposto a celebrare le nozze con le loro innamorate; sulle prime i frati non accettano, ma dinanzi ad una "offerta" in denaro, non sanno dire di no. Nel frattempo Ferdinando raggiunge Antonio, e prima ancora che questo gli spieghi tutto, lo sfida a duello; solo l'intervento di Clara, che si fa riconoscere, riesce a risolvere la situazione, e dopo Mendoza, anche Antonio, Luisa, Ferdinando e Clara si sposano nel convento. Terminate le nozze tutti vanno a casa di Don Gerolamo, per primi Mendoza e la falsa Luisa, seguiti dalle due coppie di giovani. I travestimenti vengono finalmente abbandonati e ognuno riprende la propria identità. Mendoza scopre l'inganno e lascia la casa maledicendo tutti ed inseguito dalla governante divenuta sua moglie. Don Gerolamo fa i conti fra quanto ha perso con il matrimonio sfumato tra Luisa e Mendoza, e quanto invece ha guadagnato con quello tra Ferdinando e Clara; si ritiene soddisfatto, e dà la sua benedizione agli sposi. Gli invitati applaudono, si canta, si beve e si loda l'amore, e nella gioia del brindisi finale, ha termine la vicenda.

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Agli anni immediatamente successivi al ritorno di Prokof'ev in Unione Sovietica nel 1932, dopo la lunga parentesi di vita e lavoro all'estero iniziata nel 1918, è legata l'ideazione e la realizzazione dell'opera comica Matrimonio al convento. Questa fu infatti iniziata nel 1940 e terminata nel 1943, ma le vicende drammatiche della Seconda Guerra Mondiale fecero slittare la sua prima rappresentazione al 1946, anno in cui venne messa in scena al Teatro Kirov di Leningrado. Matrimonio al convento seguì a ruota la prima opera del periodo sovietico di Prokof'ev, Semèn Kotko op. 81 del 1939, un melodramma patriottico tratto dal romanzo di Valentin Kataev, Io, figlio del popolo lavoratore, che aveva posto il compositore in una situazione difficile, in quanto il suo lavoro era piaciuto a chi in esso vedeva gli echi di un'espressività rivoluzionaria preformalista, ma al contempo aveva attirato le critiche di chi, dopo l'anatema di Zdanov del 1936 contro la caotica musica occidentalizzante e borghese degli anni Venti, si era appiattito su di uno stile di regime accademico e lontano da qualsiasi "pericolosa" alzata di testa. Fatto sta, che Semèn Kotko sparì repentinamente dalla scena dei teatri sovietici.

Non che l'opera fosse un capolavoro assoluto, specialmente se guardiamo a quanto già fatto da Prokof'ev negli anni precedenti, e cioè L'amore delle tre melarance del 1919, e L'angelo di fuoco del 1927, però la cosa dispiacque al musicista, e lo disorientò per quanto riguarda il filone poetico a cui rivolgersi per una nuova creazione. Attenersi agli ordini del partito non gli era artisticamente possibile, ma non era neanche possibile rischiare troppo; occorreva quindi trovare una via d'uscita. Il compositore Nikolaj Mjaskovskij gli suggerì di dedicarsi ad un soggetto shakespeariano, ma ecco apparire all'orizzonte una divertente quanto "innocua" commedia dell'irlandese naturalizzato inglese Richard Brinsley Sheridan (Dublino 1751 - Londra 1816) intitolata The Duenna. Prokof'ev si attribuì il merito della scoperta, anche se la sua seconda moglie, Mira Mendelssohn, ricorda invece di essere stata lei a segnalare la commedia al marito. La riduzione del libretto fu comunque fatta a quattro mani dai due coniugi che in poco tempo realizzarono il libretto da musicare mantenendo il tono burlesco e ironico proprio dell'originale, e suddividendo le scene in serenate, arie, duetti ecc. per rivisitare lo stile operistico settecentesco.

Il titolo dato all'opera fu Matrimonio al convento, e questa riscosse grandi consensi sia di pubblico che di critica, dando finalmente a Prokof'ev quel successo che il compositore non aveva ancora ottenuto in patria.

La buona riuscita dell'opera è senza dubbio dovuta alla qualità della commedia da cui è tratto il libretto; inoltre, cercando un poco nelle pieghe del testo originale e nella vita del suo autore, si possono scoprire alcune notizie interessanti.

Per esempio, The Duenna non era una vera e propria commedia, quanto uno spettacolo che univa tra loro canto, danza e recitazione nello stile di The Beggaer's Opera di John Gay. Se infatti sfogliamo il testo di Sheridan, troviamo vere e proprie canzoni e duetti già pensati dallo scrittore per essere musicati, e questo senz'altro incuriosì Prokof'ev alla ricerca di una commedia sui cui lavorare per una nuova opera. O ancora, è curioso il fatto che l'autore delle musiche originali per lo spettacolo di Sheridan, andato in scena con grande successo il 21 novembre 1775 al Covent Garden di Londra, fosse il giovane Thomas Linley, cognato dello scrittore, e reduce da studi musicali in Italia dove nel 1770 aveva incontrato Wolfgang Amadeus Mozart nel suo primo viaggio italiano nel corso di una serata in cui ebbe la fortuna di suonare insieme al genio salisburghese. Se poi passiamo alla vita di Sheridan, è facile vedere come la vicenda narrata in Duenna, e quindi in Matrimonio al convento, sia ispirata a quanto realmente successo all'autore, e cioè il rapimento della sua innamorata, Elizabeth Linley, perché destinata ad un altro, la fuga in un convento, ed alla fine il matrimonio segreto. Inoltre il titolo inglese non è altro che la traslitterazione del termine francese duègne, vecchia governante, forse proprio perché fuga e matrimonio di Sheridan e consorte avvennero in Francia.

Data la qualità della commedia di Sheridan, è interessante notare quale sia stato il lavoro fatto da Prokof'ev in sede di trasformazione della vicenda per capire cosa è rimasto dell'originale, e cosa invece sia stato cambiato. In poche parole la vicenda della commedia di Sheridan racconta di due coppie di innamorati, Antonio/Luisa - Ferdinando/Clara, delle loro traversie per sposarsi, fatte di fughe e di travestimenti, del loro matrimonio in un convento celebrato da frati crapuloni, del fallito tentativo del padre di Luisa di far sposare la figlia ad un ricco ebreo, e dell'inganno che la governante di Luisa tira a quest'ultimo facendosi sposare al posto della sua padrona. Il tutto si svolge a Siviglia nel 1600 durante il Carnevale, e quindi condito da balli, maschere e con l'happy end della benedizione finale paterna.

Prokof'ev, come poi si leggerà più avanti con maggior ampiezza di dettagli nell'argomento, riprende l'intelaiatura originale con poche modifiche; queste sono sostanzialmente quattro: 1) la commedia di Sheridan si apre con un I Atto dall'andamento globalmente sentimentale (serenate degli amanti), mentre Prokof'ev decide di iniziare con una scena a due tra Don Gerolamo, il padre di Luisa, e Mendoza, il mercante a cui ha promesso la figlia, puntando a dare immediatamente una valenza comica alla vicenda attraverso la caratterizzazione grottesca dei due personaggi. 2) Il ricco e vecchio pretendente di Luisa in Sheridan è l'ebreo Isaac Mendoza, e più di una volta l'autore non risparmia sarcasmo e attacchi antisemiti al suo personaggio; Prokof'ev, invece, mantiene solo il cognome portoghese di Mendoza nel suo libretto e lo fa diventare un mercante di pesce, una di quelle figure tipiche delle commedie settecentesche di vecchio ricco ed avido preso in giro e gabbato in quanto vuole sposare una giovane bella e ricca per fare un affare acquisendo la sua dote. 3) Terza variante è la gustosissima scenetta con cui il compositore apre il III Atto, quella cioè in cui Don Gerolamo con un amico ed un domestico suonano un grottesco minuetto, brano che poi diviene una sorta di Leitmotiv della figura del padre di Luisa nel resto del melodramma. 4) Per concludere, bisogna osservare che il testo di Sheridan è suddiviso in tre atti, mentre quello di Prokof ev in quattro atti; la scelta non è casuale, in quanto l'ultimo atto nasce per dare particolare risalto alle figure dei frati ubriaconi a cui gli innamorati si rivolgono per celebrare le loro nozze segrete, dando così spazio a situazioni musicali comiche tipiche del gusto operistico russo.

Si è prima detto di come la scelta del soggetto sia stata anche dovuta a motivi politico-artistici contingenti, però bisogna anche notare come il lavoro di Prokof'ev s'inserisca all'interno di un percorso più ampio di rivisitazione delle forme musicali del passato, specialmente del XVIII secolo, in cui si annoverano, tra gli altri, Pulcinella (1921), The Rake's Progress (1951) di Igor Stravinsky, Amelia al ballo (1937) di Gian Carlo Menotti, e Les Mamelles de Tirésias (1944) di Francis Poulenc. Le forme chiuse tipiche del gusto operistico settecentesco vengono riprese da Prokof'ev, ma arie, duetti, trii e quartetti non sono legati tra loro da recitativi più o meno secchi o accompagnati, bensì da un declamato estremamente fluido e teatrale, figlio di una tradizione russa che non bisogna trascurare nell'ascoltare questa opera.

È indubbiamente intenzione del compositore ripercorrere alcuni dei momenti particolari della tradizione operistica russa tanto in Semèn Kotko quanto in Matrimonio al convento. Nel primo, per esempio, abbiamo la scelta di un soggetto legato alla storia nazionale nel suo versante popolare, e subito viene in mente il lontano antenato Ivan Susanin, protagonista di Una vita per lo zar (1836) di Mikhail Glinka, il musicista considerato il padre della musica nazionale russa. Nel secondo appaiono come tratti tipici del gusto russo tanto l'ambientazione "esotica" spagnola, per esempio già usata ancora da Glinka in brani come Jota aragonesa (1845) o Souvenir d'une nuit d'été a Madrid (1851), l'uso di melodie dal sapore popolare che qua e là s'insinuano nel tessuto musicale colto dell'opera, o ancora le scene comiche al limite del grottesco di alcuni personaggi come i frati Agostino, Chartreuse ed Elixir in cui riprendono vita le buffonerie popolari, per esempio, dei melodrammi Knyatz Igor di Aleksandr Borodin o della Chovanscina di Modest Musorgskij. Inoltre è interessante notare come il declamato melodico usato da Prokof'ev provenga direttamente dagli esperimenti compiuti nel XIX secolo da Aleksandr Dargomyzskij nell'opera Il convitato di pietra, e da Musorgskij ne Il matrimonio, nonché da Cajkovskij neìl'Evgenij Onegin, tutti lavori in cui gli autori hanno tentato di superare i limiti musicali ed espressivi posti dal recitativo tradizionale, attraverso uno studio delle caratteristiche melodiche proprie della lingua russa; anche questo un segno della "russicità" del lavoro di Prokof'ev impegnato a creare un prodotto musicale popolare inteso sì come "non borghese", ma che non fosse neanche del folklorismo tout-court di regime.

Matrimonio al convento si apre con una breve introduzione in cui Prokof'ev coniuga unite tra loro le varie caratteristiche linguistiche dell'opera: melodicità, dinamismo, umorismo. La città di Siviglia immersa nel carnevale fa quindi da sfondo a tutta la vicenda, e in essa, vuoi nelle piazze colorate, nelle sue case o nei romantici monasteri, i personaggi si muovono al suono spesso grottesco di fiati e ottoni. Il compositore mette subito in scena un pezzo forte, il dialogo tra Don Gerolamo (tenore) e Mendoza (basso) rapiti nel calcolo di futuri guadagni. Tutto passa in secondo piano dinanzi al delirio dei due che macinano la vita degli altri sotto la ruota dell'interesse economico, e Prokof'ev non si lascia sfuggire la ghiotta occasione di ridicolizzare questo furore umano. Da controcanto musicale a questa prima scena funge la sobria serenata del giovane innamorato, Antonio, nonché gli scanzonati balli delle maschere che con sarcasmo s'infilano nelle vicende dei protagonisti della storia chiudendo il I Atto fra le ombre della notte, mentre la città si addormenta.

Nel II Atto è un altro dialogo ad aprire la scena. Luisa (soprano) e la sua governante (contralto) riflettono su quanto Don Gerolamo aveva predisposto, dolendosi la prima, architettando inganni la seconda; pezzo forte di questo secondo Quadro sono però la seconda e terza scena, in cui s'intrecciano le parti di Luisa, Don Gerolamo e dell'altro suo figlio Ferdinando (baritono) in un succedersi d'incisi e frasi spezzate, di rincorse musicali dove il grottesco ed il drammatico sono due categorie dell'animo umano senza soluzione di continuità. Allo stesso modo è notevole il monologo di Don Gerolamo nella quinta scena, lì dove, sfruttando un topos della commedia, si lamenta del dover educare una figlia ribelle. Cambia il Quadro, ed ecco il coro introdurci nella piazza del mercato del pesce: il regno di Mendoza. Il gioco degli inganni si recita fra i banchi su cui guizzano trote e merluzzi, e dove il tronfio mercante canta accompagnato dall'oboe su di una base di fagotti saltellanti. La parentesi lirica di Luisa e Clara dà spazio agli archi, e Prokof'ev ha modo così di sfruttare tutti i colori dell'ampia orchestra che ha inventato per quest'opera.

Ricco di trovate è il quarto Quadro, quello in cui Mendoza va a casa di Don Gerolamo per incontrare la sua futura sposa, ed in cui viene perpetrato l'inganno dalla governante. L'introduzione dei violini ci sospende in una Spagna russificata, e il dialogo a tre fra il padrone di casa, il suo futuro genero e la domestica, Lauretta, è reso esilarante dalla rapidità con cui si susseguono tra loro sussurri, ammiccamenti e mezze parole. Allo stesso modo Prokof'ev restituisce musicalmente il gioco degli equivoci che in scena giocano tra loro il vecchio Mendoza e la governante, il primo ritenendo di parlare a Luisa, la seconda tutta intenta a interpretare la sua parte truffaldina. Anche qui gli strumenti si rincorrono fra loro inseguendo ogni sfumatura del discorso e della psicologia dei personaggi, ma comunque sempre in un dosaggio sobrio, che non supera mai le voci, e che rende leggero il procedere della scena. Un brindisi chiude l'Atto, un brindisi reso grottesco dalla marcetta che la tromba fa risuonare sullo sfondo. Uno dei vari brindisi della vicenda; il IV Atto si apre infatti con il blasfemo inno al vino cantato dai frati ubriaconi, così come un altro brindisi, questa volta gioioso, chiuderà l'intera opera.

Il III Atto è musicalmente complesso, e questo in quanto la vicenda stessa è complicata da cambi di scena e di personaggi. Per esempio, un punto interessante è la seconda scena del quinto Quadro, quando cioè Mendoza ed il suo amico Don Carlo spiano dal buco della serratura Antonio e Luisa che parlano tra loro. Prokof'ev infatti sceglie di non far parlare in musica i due amanti, ed il loro dialogo è simboleggiato da una melodia romantica di sottofondo, mentre mette in musica il discorso ipocrita dei due spioni. Cambia Quadro, il sesto, ed eccoci un'altra volta in casa di Don Gerolamo. Il compositore ci stupisce ancora con una trovata da maestro, ed inventa un concertino "buffonissimo" da music-hall in cui Don Gerolamo si avventura in funambolismi virtuosistici al clarinetto, mentre, già ce lo immaginiamo, un servo bislacco batte forte sulla grancassa, e un panciuto amico del nobiluomo si agita dinanzi al leggio soffiando nella sua trombetta e pestando il piede in terra per seguire il tempo. Prokof'ev rispolvera il suo gusto sarcastico in questa scenetta, ricordandosi, perché no, anche di quanto il suo connazionale Stravinsky aveva scritto per esempio in Renard, e ne L'histoire du soldat, dando vita ad una scenetta comica estremamente raffinata.

Sempre nel III Atto, il settimo Quadro ci porta nel convento in cui Clara, l'innamorata di Ferdinando, si è rinchiusa per dimenticare la vita terrena. Cambia l'atmosfera; le nebbie del silenzio e della meditazione avvolgono la scena dalla quale emerge il canto sconsolato di Clara, a cui poi si aggiungerà quello invece felice di Luisa e del suo innamorato Antonio, ormai in procinto di unirsi in matrimonio. Ferdinando raggiunge il convento, ma per lui e Clara il lieto fine non è ancora arrivato. Questo Quadro è sicuramente il più "romantico" dell'intera opera. Il luogo, le vicende amorose delle due coppie sono vicine, cantano tutti e quattro gli innamorati toccando sia le corde della felicità che quelle del dolore, dando modo a Prokof'ev di raggiungere, a differenza degli altri quadri molto cameristici, un uso sonoristicamente ampio e sinfonico dell'orchestra.

Il IV Atto ci porta nel monastero dove padre Agostino, i frati Benedettino, Elixir e Chartreuse insieme ai loro confratelli sono dediti al culto del vino. L'atmosfera '"barbara" che il musicista russo crea per descrivere l'ottavo Quadro, al limite fra il comico ed il sacrilego, ci riporta alla mente alcune soluzioni adottate dal compositore per un'altra sua grande creazione del suo primo periodo sovietico, le musiche per il film di Sergej Ejzenstejn, Aleksandr Nevskij del 1938. Effetto caratteristico della scena è il ritornello ostinato e "vertiginoso" di frate Elixir che si inebria nella sua danza pagana, ed a cui Prokof'ev aggiunge, in modo rafforzativo, un inno sacro dal sapore gregoriano che deve dare ad Antonio e Mendoza, capitati nel convento per cercare un prete che li sposasse alle loro innamorate, il senso di sacralità penitente del luogo mascherando i riti orgiastici. Il Quadro procede mantenendo l'ascoltatore nel pathos creato da un insieme di situazioni: il grottesco dei frati, la comicità dell'inganno che si sta perpretando ai danni di Mendoza in procinto di sposare la governante travestita da Luisa, l'amore appagato nell'unione di Antonio e Luisa, e quello conflittuale tra Ferdinando e Clara, la lussuria di Padre Agostino interessato ai denari degli innamorati, la violenza della vendetta che Ferdinando vuole compiere credendo Antonio un traditore. Prokof'ev padroneggia questo cocktail di emozioni e passioni, e la musica si adatta continuamente al succedersi degli avvenimenti per interpretarne le situazioni.

Si apre quindi il nono ed ultimo Quadro. Conclusi i rocamboleschi giochi in convento, tutte e tre le coppie vanno a casa di Don Gerolamo dove, nel frattempo, questi aveva allestito un grande ricevimento per festeggiare il matrimonio della figlia con Mendoza. Prokof'ev dedica questa parte a Don Gerolamo, ed apre il Quadro riprendendo il tema della sua aria nella quinta scena del secondo Quadro; poco più avanti riecheggia anche lo sgangherato minuetto con cui si era aperto il III Atto in casa del nobile spagnolo, tema che appare e scompare come sottofondo nella scena del ricevimento. Nel frattempo gli inganni si svelano. Mendoza scopre il tiro che la governante gli ha giocato, così come Don Gerolamo si trova dinanzi al fatto compiuto di aver perso il suo denaro e di aver sposati in un giorno solo tutti e due i suoi figli. La velocità dell'intreccio non permette qui l'inserimento di arie, ed il compositore snoda le prime quattro scene su di un alternarsi di recitativi e dialoghi, riservandosi per la scena finale un grande quintetto accompagnato dal coro in cui la vicenda trova la sua felice conclusione in un rinsavimento di Don Gerolamo che perdona i figli, mentre gli invitati alla festa lodano la sua liberalità e la bontà del suo cherry. Un finale di buonumore che ben chiude questa divertente commedia degli intrighi.

Giancarlo Moretti

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Prokofiev fu operista istintivo, appassionato, dotato e precoce come pochi, almeno nella sua epoca. Ma fu anche operista sfortunato, fin dagli inizi e per la massima parte della sua vita; sì che la sua fama in questo genere, fatte salve poche eccezioni (anzitutto L'amore delle tre melarance, che pure non è l'unico capolavoro), è in forte misura una fama postuma, e neppure oggi del tutto consolidata. Le molteplici peripezie attraverso cui passò la sua produzione teatrale stanno a testimoniare questa verità, alla quale tuttavia si oppone, immediatamente, la realtà di una vocazione per l'opera senza dubbio eccezionale, e sorretta da solide fondamenta sia sul piano della poetica che delle scelte drammatico-musicali: in pari tempo, e fin dall'inizio, non conformiste e tenacemente legate alla tradizione.

Prokofiev compose la sua prima opera teatrale - Il gigante - a nove anni: un'opera in tutti i sensi infantile, che ebbe però la possibilità, grazie all'affettuosa compiacenza della madre, di venir subito allestita in una rappresentazione privata, familiare. Ma già nel 1904, allorché il ragazzo tredicenne sostenne l'esame di ammissione al Conservatorio di Pietroburgo, le opere erano diventate quattro, e almeno una di esse - L'ondina, tratta dalla novella di La Motte-Fouqué - in grado di destare l'interesse di esaminatori severi quali Rimski-Korsakov e Glazunov. Agli anni di studio in Conservatorio risale la prima prova di più maturo impegno, quella Maddalena, scabra e aggressiva, alla quale fu rifiutata l'esecuzione nel saggio annuale degli allievi (ed era la prima volta che il compositore si scontrava con la dura realtà dei superiori: «sognavo di comporre delle opere con marce, tempeste, scene terrificanti, e invece mi volevano insegnare delle regole», scriverà rammentando quel tempo; e di scene terrificanti, nel soggetto della Maddalena, non ne mancavano certo). Come non mancano, ma su un piano compositivamente più alto e omogeneo, non di rado illuminato da lampi di genio, nel primo notevole, compiuto lavoro teatrale di Prokofiev, Il giocatore da Dostoievski, che ciononostante dovette attendere oltre dodici anni prima di venire rappresentato (Bruxelles, 1929; iniziato nel '15, finito nel '16, annunciato dal Teatro Marinski per il febbraio-marzo 1917, scomparve dal cartellone a causa dello scoppio della Rivoluzione di febbraio, ma in realtà era già stato affossato da una furiosa rivolta delle masse artistiche e della stampa, unanimemente contrarie alla rappresentazione).

Forse furono anche questi eventi che spinsero Prokofiev a scegliere la strada dell'Occidente, ufficialmente solo per «prendere una boccata d'aria fresca». E proprio in America, dove era emigrato e dove si tratterrà per un lustro, trascorrendo poi altri dieci anni in Europa, egli colse la prima affermazione come operista con L'amore delle tre melarance, scritto di getto nel '19 e rappresentato con grande successo a Chicago alla fine del 1921 (giunto in Russia nel '26, fu la prima apparizione ufficiale di Prokofiev operista in patria); nel contempo però, inconsapevolmente e certo incolpevolmente, preparandosi la via per una nuova delusione, assai più amara di tutte le precedenti: L'angelo di fuoco, una delle creazioni più impressionanti del Novecento, alla quale il musicista attese fra il '19 e il '23 rimaneggiandola di continuo nei quattro anni seguenti, non trovò teatro disposto ad accoglierla (solo nel '28 se ne dette a Parigi un'esecuzione del secondo atto in forma di concerto) e rimase, vivente l'autore, irrappresentata; per essere riscoperta in tutta la sua visionaria grandezza solo due anni dopo la morte di lui, in una storica serata del settembre 1955 alla Fenice di Venezia (e di passaggio notiamo quanto si debba all'Italia nella rivalutazione postuma del teatro prokofieviano: soprattutto, accanto a Venezia e a Firenze, al San Carlo di Napoli, il primo al mondo che osasse ripresentare Il giocatore e, da noi, rappresentare Matrimonio al convento, nel 1959).

Dopo L'angelo di fuoco, opera che in forma complementare alla «favola» dell'Amore delle tre melarance costituisce la quintessenza di una visione innovatrice e originale del teatro musicale, Prokofiev si tenne lontano per molti anni dal cimento operistico, vuoi per le delusioni patite nel vano tentativo di affermarsi in modo definitivo, vuoi perché queste due opere avevano complessivamente esaurito un primo stadio della sua ricerca e di quanto propriamente avesse da dire. Vi si riaccostò soltanto nel '39, sei anni dopo il ritorno in patria, con un lavoro sotto molti aspetti nuovo, strettamente legato alle circostanze in cui maturò: l'epopea popolare del Semion Kotko, attraverso la quale Prokofiev cercò di conciliare le richieste del regime sovietico con le proprie, individuali esigenze artistiche, rimanendo, suo malgrado, penosamente invischiato nella difficile quadratura del circolo. È a questo punto che si colloca la composizione dell'opera comico-lirica in quattro atti Matrimonio al convento. Essa, rispetto al Semion Kotko che immediatamente la precede, è la conseguenza di una brusca sterzata, un ritorno, unitariamente perseguito da Prokofiev nella molteplicità dei mezzi usati, alla vena più caratteristica della sua arte, sia pure con una colorazione tutta speciale. Iniziato nel 1940 e completato già alla fine dell'estate di quell'anno, Matrimonio al convento avrebbe dovuto andare in scena nel '41, ma una circostanza ancora una volta drammatica - lo scoppio della guerra - ne impedì l'esecuzione. Fallito anche il progetto di presentarla al Bolscioi nell'autunno 1943 (e fu in quest'occasione che Prokofiev rivide la partitura al fine di renderne lo stile più omogeneo), l'opera venne rappresentata soltanto a guerra finita, il 3 novembre 1946 al Teatro Kirov (ex Marinski) di Leningrado, con accoglienze assai positive e quasi trionfali, come prima in patria mai era accaduto a Prokofiev. Ma fu solo un'eccezione. Le peripezie ripresero, ancor più accresciute, con le due ultime fatiche teatrali del compositore: l'ambizioso, smisurato e per molti versi irrisolto progetto di musicare Guerra e pace di Tolstoi, lavoro che lo tenne impegnato quasi fino alla morte (ancora nel '52 era intento a rivedere e rifare la partitura), non ebbe il conforto di una verifica in teatro (vi apparve soltanto nel '55 a Leningrado, dopo la famosa, benché incompleta, «prima» al Maggio Musicale Fiorentino del 1953); mentre l'ultima opera, La storia di un vero uomo, composta nel 1947-48, non andò oltre una tumultuosa anteprima. E ciò nonostante l'autorità raggiunta da un artista considerato ormai, e non da breve tempo, fra i massimi del secolo.

Non però evidentemente in patria. Ritornato in Unione Sovietica nell'aprile 1933, accolto con entusiasmo dagli amici di un tempo, con circospezione dai nuovi padroni, Prokofiev trovò una situazione politica e artistica molto complessa. Da un lato si consumavano, in modo confuso e contraddittorio, i residui di un magnifico impulso di rinnovamento, bruciato sulle ceneri della disfatta delle avanguardie; dall'altro dilagava un apparato burocratico soffocante e sempre meno disposto, anche in arte, a scendere a patti con i trasgressori. Le composizioni che seguono immediatamente questo ritorno (le musiche per il film Il luogotenente Kize, le musiche di scena per Le notti egiziane di Tairov, il Secondo Concerto per violino, i Dodici pezzi facili per pianoforte, i Sei canti popolari op. 66) sono il frutto del tentativo da parte di Prokofiev di comprendere la nuova situazione e di adattarcisi, mirando anzitutto a rivitalizzare in modo personale i dettami del cosiddetto realismo socialista. Un articolo apparso sulle «Izvéstia» il 16 novembre 1934 è a questo proposito illuminante, anche come dichiarazione di principi artistici: «Il compositore deve tener conto che nell'Unione Sovietica la musica si rivolge a milioni di persone che in passato se ne curavano poco o nulla. È questo pubblico di massa che il nuovo compositore deve sforzarsi di raggiungere. Io credo che il tipo di musica necessario sia quello che definirei leggero-serio e serio-leggero. Non è facile scoprire il linguaggio adatto: in primo luogo dev'essere melodioso, e la melodia dev'essere chiara e semplice, ma non comune e triviale. Molti trovano abbastanza difficile inventare una melodia, per non parlare di una melodia con un preciso significato. Il medesimo ragionamento si applica alla tecnica: anche la forma dev'essere chiara e semplice, ma non stereotipata. Non ci serve la vecchia semplicità, ma un nuovo tipo di semplicità. E questa si può raggiungere soltanto quando il musicista padroneggia l'arte di comporre musica seria e significativa, conquistando così la tecnica per esprimersi in termini semplici e tuttavia originali».

Solo pochi mesi dopo, nel gennaio 1936, un durissimo fondo della «Pravda», organo ufficiale del partito, significativamente intitolato Caos anziché musica, tagliava in modo drastico i nodi di una possibile discussione, prendendo esplicitamente posizione contro i musicisti «formalisti» e «modernisti», «innovatori piccolo-borghesi e antipopolari». La condanna, originata come è noto dalla Lady Macbeth del distretto di Mszensk di Sciostakovic, non coinvolgeva per adesso Prokofiev; ma egli dovette rendersi conto che un compromesso intelligente, come quello da lui tentato in termini non conformisti, sarebbe stato assai difficile. Pur non disposto a tradire se stesso, Prokofiev decise di fare ulteriori concessioni, per dimostrare almeno la sua buona volontà e il suo autentico amor patrio; non comprendendo, o fingendo di non comprendere, che queste concessioni mai si sarebbero sintonizzate sulla medesima lunghezza d'onda dei censori. Si situa appunto all'apice di questa svolta, che vide la nascita di capolavori diversi come la favola sinfonica per bambini Pierino e il lupo (1936), il balletto Romeo e Giulietta (1935-36) e la colonna sonora per l'Alexander Nevski di Eisenstein, la composizione del Semion Kotko, ricavata da un romanzo di Valentin Kataev emblematicamente intitolato Io, figlio del popolo lavoratore: programmaticamente, un'opera «sovietica», eroica e popolare. Al di là dei contenuti intrinseci e del valore specifico, assai disuguale, di questa partitura, quel che contò fu che essa non ebbe accoglienze favorevoli, prima ancora che per le scelte musicali - troppo moderniste e «carenti in fatto di melodia e di varietà espressiva» - per il modo in cui Prokofiev aveva trattato il tema patriottico: cercando cioé di non cadere nella retorica della celebrazione e mirando invece a comporre un'opera piena di vita, attuale nel soggetto e accessibile nel linguaggio, ma non piatta e volgare. Invano ne aveva spiegato le ragioni, in pari tempo ribadendo i cardini della sua poetica anche alla luce delle nuove condizioni: «Per quanto sarebbe stato più vantaggioso sotto l'angolo del successo immediato imbottire l'opera con melodie dal profilo familiare, ho preferito usare materiale nuovo e scrivere nuove melodie dal nuovo disegno nel maggior numero possibile. Una nuova vita, nuovi soggetti richiedono nuove forme d'espressione e l'ascoltatore non si lamenterà se ha dovuto compiere un piccolo sforzo per afferrarle».

Il fallimento di questo estremo tentativo provocò, come detto, una brusca sterzata, il cui risultato fu un nuovo lavoro per il teatro scaturito da tutt'altre aspirazioni e intenzioni. Già altra volta, in un momento delicato della sua esistenza, Prokofiev si era rivolto a un soggetto non russo e lontano dall'attualità, a metà strada tra favola e realtà. Se allora si era trattato di sfondare al più presto in un territorio straniero (ma la scelta e il riadattamento dell'Amore delle tre melarance di Gozzi gli erano stati suggeriti prima della partenza dalla Russia dall'amico Mejerhold), ora si trattava di recuperare il terreno perduto sospendendo i termini di una polemica fastidiosa: in un certo senso aggirando l'ostacolo e affrontandolo da tutt'altra prospettiva.

Fosse che la scelta, in sé curiosa, di una commedia del tardo Settecento inglese - The Dueña (La governante) del drammaturgo irlandese Richard Brinsley Sheridan (1751-1816), per l'occasione ribattezzata Matrimonio al convento (ma occorre aggiungere che il titolo originale russo è Fidanzamento al convento) - venisse ispirata a Prokofiev dalla sua compagna (e di lì a poco sua seconda moglie) Mira Mendelssohn, come ella ci assicura; fosse che invece nascesse dal compositore stesso, anglista appassionato, nelle cui mani il testo inglese era capitato per caso nel 1940, affascinandolo per «il sottile humour, il delizioso lirismo, l'acuta precisione dei caratteri dei personaggi, la dinamica dell'azione, così avvincente e ben costruita che in nessun momento l'interesse viene meno e il suo procedere è atteso con impazienza», come egli dichiarò in una nota del '43, certo è che il soggetto si prestava meravigliosamente a essere sviluppato in forma operistica, e ancor più in una forma operistica composita, a Prokofiev intimamente congeniale. E ciò per diversi motivi. La commedia di Sheridan è infatti «un perfetto esemplare di teatro di costume, garbatamente ironico nei confronti di un mondo ormai mitico» (Rubens Tedeschi); mitico, aggiungeremo noi, anche nei riguardi degli stilemi e delle convenzioni dell'opera settecentesca, del cui spirito e delle cui forme la commedia è pervasa pur tendendo, ironicamente appunto, al distacco, al non coinvolgimento emotivo. Ora, questi spunti, accortamente ripresi ed elaborati, si innestavano alla perfezione sui cardini dell'estetica teatrale di Prokofiev, fornendogli il pretesto per esaltare, rispetto al forte impegno («aristocratico» o «popolare») delle opere di ispirazione russa, caratteri in lui innati: il gusto del giuoco disincantato, in equilibrio fra serietà e parodia, il rigore di un ordine formale chiaro e prestabilito, la tendenza all'invenzione melodica pura, all'idea musicale sorgiva e autosufficiente, in una mescolanza tipicissima di vena lirica, sarcastica e grottesca; e ancora: vi era la possibilità, che il testo di Sheridan offriva in abbondanza, di creare ed esaurire musicalmente (nell'unità di componenti musicali assolute) situazioni sceniche già di per sé destinate alla musica, come canzoni, danze, pantomime, mascherate, travestimenti, serenate e cori. Nel settecentesco, classico girotondo delle coppie smaniose d'amore, farcito di equivoci e intrighi, costellato di inganni fittizi e di gioiosi disinganni, sapientemente guidato dalla mano esterna di un provocatore (una matura governante desiderosa di accasarsi, la duena del titolo originale), fino al tradizionale, immancabile lieto fine, Prokofiev aveva modo di ripensare modernamente tutto un mondo passato, irreale, teatralmente simulato e deformato, e di far rivivere, per così dire dall'interno, la storia dell'opera, prendendo a modello gli esempi della sua età dell'oro, accettandone, ma non passivamente, regole e schemi: quelle regole e quegli schemi a cui egli, musicista del Novecento, aveva sempre guardato con disincanto, ma non senza subire il possente richiamo dei piaceri «puri» dati da una fantasia musicale liberata, lanciata a briglia sciolta nei meccanismi «impuri» dell'invenzione teatrale. «È frizzante come champagne; si potrebbe farne un'opera nello stile di Mozart o di Rossini», narra la Mendelssohn ch'egli esclamasse dopo aver letto la commedia di Sheridan.

Nella quale particolarmente accattivante dovette sembrargli anche l'ambientazione spagnola: la Siviglia poetica e letteraria, anch'essa mitica, cara all'immagine operistica. Non la Siviglia assolata e rovente della Carmen, ma quella notturna e inquieta del Don Giovanni, fusa con quella animata e vivace, giocondamente seria, di Beaumarchais, Da Ponte, e naturalmente Mozart e Rossini; la Spagna, insomma, esotica e teatralissima del Settecento, che tanto aveva fatto innamorare di sé gli artisti e i musicisti europei, anche nell'Ottocento: dai compositori delle scuole nazionali, massime di quella russa (i Dargomiski, i Glinka, i Rimski-Korsakov antenati di Prokofiev), fino ai più severi rappresentanti della cultura e della musica tedesca: sì che un musicista come Wolf scrisse la sua unica opera teatrale - Der Corregidor - su un soggetto spagnolo, per molti versi di intonazione simile a quella del Matrimonio al convento. Vi era poi, su tutti, un modello ancor più diretto, sia per l'intreccio, quasi identico, sia per il carattere, lirico e comico nello stesso tempo, nel quale esso era stato svolto: Il matrimonio segreto di Domenico Cimarosa, ricavato da una commedia inglese pressoché coeva di quella di Sheridan. E Cimarosa, nel suo pur breve soggiorno a Pietroburgo, aveva lasciato sedimenti profondi nella cultura russa.

Ma, come si è accennato, nella scelta della Duella un terzo elemento si era imposto a Prokofiev con attrattiva irresistibile: ossia che quel testo teatrale contenesse in sé spunti, caratteri, situazioni, momenti eminentemente musicali, i quali cioè richiedevano e contenevano già la musica. Rimandando, per quel che concerne i rapporti fra la commedia di Sheridan e l'opera di Prokofiev, all'articolo di Giulio De Angelis pubblicato sul «Numero unico» del Maggio, basterà qui ricordare come quella sia formata di parti dialogate per buona parte integrate da musiche di scena, composte, per la prima londinese del 1775, dal suocero e dal cognato di Sheridan, Thomas Linley senior e Thomas Linley junior: costituite, queste ultime, da brani musicali solistici, da duetti, terzetti, pezzi d'assieme e cori, ora nello stile popolareggiante dei songs, ora in quello più elevato delle arie (o degli insiemi) propriamente detti. Prokofiev, coadiuvato nella stesura del libretto da Mira Mendelssohn (alla quale furono affidate le parti più propriamente poetiche, come i couplets in versi), seguì abbastanza fedelmente la traccia di Sheridan ma ne adattò lo svolgimento ai propri fini: che erano quelli, da lui stesso denunciati, di sfruttare le possibilità offerte da Sheridan per «introdurre tutta una serie di pezzi chiusi, in sé compiuti - serenate, ariette, duetti, quartetti e più grandi pezzi d'assieme - , senza arrestare mai il corso dell'azione». Ne risultò dunque non semplicemente un'opera a pezzi chiusi, come quelle della tradizione, bensì una commedia musicale fatta di scene in sé compiute che si succedono senza interruzione, sostenute e legate da un tessuto orchestrale sempre denso, spesso tendente a emergere per porsi in primo piano in episodi musicali, sinfonici o «da camera», autosufficienti.

Ciò comportò naturalmente una reinvenzione pressoché totale della struttura teatrale. Se i personaggi principali rimasero inalterati in quanto «tipi» convenzionali, funzioni prestabilite di un'azione sagacemente congegnata e articolata (giovandosi però, grazie all'intervento della musica, di più penetranti e individuali caratterizzazioni), altri se ne aggiunsero per definire scene secondarie ma non inessenziali al meccanismo drammatico-musicale: i tre monaci beoni, dai nomi significativi di frate Elixir, frate Chartreuse e frate Bénédectine, che animano la spassosa scena del convento (primo quadro dell'ultimo atto); le due cameriere Lauretta e Rosina, nomi anch'essi pieni di richiami alla tradizione operistica, che danno modo alle protagoniste femminili di risaltare in parti liriche (scene, arie e ariosi) costruite secondo la tecnica tradizionale ma non statiche; le due figure mute dei suonatori di trombetta e grancassa che collaborano con Don Gerolamo nella concertazione di un Minuetto caricaturale (e questo - secondo del terzo atto - è un quadro di grande rilievo nel contesto dell'opera). Così come furono aggiunte alcune fulminee battute ironiche o ammiccanti (ahimé andate perdute nella pur bellissima traduzione italiana di Flavio Testi, usata anche per la presente edizione), senza dubbio frutto della sofisticata eleganza della Mendelssohn, fine letterata; e variate certe connotazioni, anche fondamentali, di alcuni personaggi (la più importante delle quali è la trasformazione di Mendoza - Isacco, in Sheridan - da «schifoso ebreo» a semplice mercante di pesce: ripugnando a Prokofiev, anche nella finzione, ogni forma di antisemitismo). E tutto questo per scopi, prima ancora che drammaturgici, specificamente musicali: tali cioè da consentire alla musica di espandersi seguendo il suo corso e il suo respiro naturale e di guidare dall'interno, unitariamente, il succedersi dell'azione.

A ragioni di economia musicale vanno dunque ascritte le non marginali diversità, così puntualmente analizzate dal De Angelis, del libretto rispetto alla commedia originale. Che nell'opera, per esempio, la dueña figuri non come protagonista dell'intreccio ma come figura di sfondo e quasi deus ex machina della vicenda - per intendersi assai più un Don Alfonso che non un Figaro -, nasce dal fatto che la costruzione drammaturgica tende a privilegiare, sfruttando le simmetrie speculari fra le coppie di innamorati già presenti in Sheridan, i rapporti musicali fra di esse, fino al culmine finale, dove le maschere cadono, della scena del finto matrimonio al convento; e ciò spiegherebbe, assai più dei motivi addotti dall'autore - secondo il quale La Dueña non avrebbe suonato bene in russo - la ragione del cambiamento del titolo: non La Dueña appunto, bensì Matrimonio al convento. (O meglio fidanzamento, per ora; dato che quello fantomaticamente celebrato in convento e che scioglie lietamente la trama non è certo un vero matrimonio con i crismi della legalità: e alla legalità Prokofiev ci credeva, persino nell'intitolare le sue opere). Un'altra figura, per converso, risalta, sia nell'azione che nella musica, assai più che in Sheridan: quella di Don Carlo, nobile decaduto amico del nobile-ricco Don Gerolamo, vero rappresentante della vecchia società e di un mondo tramontato: personaggio al quale Prokofiev conferisce tratti di un'affettuosa, tenera comicità (si veda il duetto con Luisa che apre il terzo atto). Egli è l'unico che non si lasci prendere dalla follia del denaro e dell'amore - i vecchi avidi e libertini da un lato, i giovani ardenti e spensierati dall'altro - e che stia quasi a sé, su uno sfondo crepuscolare un po' patetico e un po' nostalgico, ridicolo e serio nello stesso tempo. Anche in questo caso è riaffermata quella priorità definitiva del ruolo della musica, mezzo non soltanto di ininterrotto svolgimento drammatico ma anche di introspezione psicologica, che è attributo essenziale dell'opera.

A una maggiore evidenziazione drammatica concorrono in primo luogo la condensazione della trama e la concentrazione del libretto in situazioni sceniche musicalmente determinate. L'opera, suddivisa in quattro atti e nove quadri, rispetta rigorosamente le unità di tempo, luogo e azione: la vicenda si svolge a Siviglia, fra interni ed esterni, e scorre veloce da una sera all'altra, ravvivata da un carnevale notturno, dal giuoco delle mascherate e degli equivoci, per concludersi con un grandioso banchetto in casa di Don Gerolamo che sancisce, fra brindisi e balli, il lieto fine: passando prima, per la svolta decisiva, entro le mura di un convento abbandonato dove fratelli e monaci dissoluti celebrano rumorosamente gioie tutt'altro che spirituali. La scorrevolezza e il brio dell'intreccio sono assicurati in secondo luogo dal rivestimento musicale: fin dall'inizio, dopo la rapida Introduzione che annuncia alcuni dei temi principali dell'opera, Prokofiev, a differenza di Sheridan, ci trasporta in medias res, con un duetto nel quale Don Gerolamo, padre di Ferdinando e Luisa, e Mendoza, avido mercante di pesce interessato alla ragazza, suggellano il patto d'amicizia e d'affari con una promessa di matrimonio. Sul prolungamento del duetto si ha la prima presentazione di questi due personaggi (una canzonetta nella quale Don Gerolamo espone le sue apprensioni di padre diverrà nel corso dell'opera il suo Leitmotiv), e indirettamente anche di Luisa, le cui virtù, comicamente enumerate dal padre fra le esclamazioni di stupore del maturo pretendente, sono buffamente paragonate a quelle taumaturgiche del pesce. Ecco poi entrare Ferdinando e Lopez (il padrone con il suo servo, stilema tipico della tradizione operistica); costui ama, riamato, Clara, amica di Luisa, ma l'ha offesa con la sua audacia intemerata, penetrando nottetempo nella sua camera. Quasi senza che ci se ne accorga, il quadro è dipinto, l'atmosfera creata, i personaggi delineati e caratterizzati dalla musica. Nella seconda parte dell'atto la temperatura espressiva sale notevolmente, dapprima con la serenata di Antonio (innamorato di Luisa, ma inviso al padre di lei), poi con il breve, tenero duetto dei due amanti, infine con la già ricordata scena del carnevale notturno: un balletto di maschere che dà vita a un vasto intermezzo orchestrale di sapore orientaleggiante, il quale, inserito nello svolgimento dell'azione, la risolve e conclude in una specie di pantomima accompagnata dalla musica, di spessore prima sinfonico, poi tenuemente cameristico (l'attonito canto di tre violoncelli soli sulla scena). Dopo essersi connessa con l'azione e con il canto, dunque, è alla musica che alla fine dell'atto spetta di riassumere ed esaurire, sospendendola ma non interrompendola, la trama.

L'ampio secondo atto, che consta di tre quadri, innesca e aggroviglia l'intreccio dei travestimenti. In breve: la governante Margherita, che mira con l'inganno ad accasarsi con il ricco e ridicolo Mendoza, prenderà il posto di Luisa, mentre Luisa, fuggita di casa per raggiungere Antonio, si fingerà Clara. L'azione, come è ovvio, si fa più serrata, ricca di colpi di scena, ora indulgendo a sottolineature comiche suggerite dalla situazione (come nel battibecco grottesco-caricaturale fra Don Gerolamo e la dueña), ora effondendosi in espansioni liriche, trepida eco degli intimi turbamenti degli innamorati. Ma non mancano gli inserti nei quali la musica torni a svolgere un ruolo preminente: il variopinto coro delle pescivendole che apre e chiude il terzo quadro (è questa una invenzione di Prokofiev, che manca in Sheridan), il canto arioso e sognante («Andantino») di Clara, amante assai più ingenua e sentimentale di Luisa, il canto nostalgico e commosso del vecchio nobile Don Carlo, il quale da vero gentiluomo sposa, senza saperlo, la causa dei giovani, inconsciamente della giovinezza da lui perduta sentendo acuto il richiamo e il ricordo. Culmine dell'atto è la scena esilarante degli equivoci fra Mendoza, venuto in casa dell'amico per conoscere la futura moglie, e la governante, che si è sostituita a Luisa. Per conquistare Mendoza, che immaginandosi tutt'altra merce non sa nascondere le sue perplessità, la governante intona in suo onore una faceta canzone piena di doppi sensi, parodia di un song di Sheridan (ed è un altro inserto chiuso efficacissimo, in tono con l'ambigua situazione). In questa scena la caricatura del melodramma tradizionale si fa più evidente allorché i due decidono di fuggire romanticamente insieme, per coronare con qualche brivido il loro sogno d'amore; ma è niente di più che un fugace accenno, un sottinteso tanto mite quanto sorridente.

Atto terzo. Tre quadri, anche qui. L'arco drammatico, senza tuttavia interrompersi, per così dire indugia in preziosi, virtuosistici arabeschi, presentando una successione di scene nelle quali il peso specifico della musica, ora più che mai mezzo di costruzione formale, è considerevolmente accentuato. E non è un caso che proprio qui Prokofiev raggiunga il massimo quanto a originalità e individualità compositiva. Il primo quadro, suddiviso in cinque scene, è un modello di proporzione e di perfezione: simmetricamente aperto e chiuso dalle forme in sé compiute di un Duetto e di un Quartetto, esso culmina in una scena in tutto degna del più fantastico, geniale Prokofiev. Mendoza ha condotto nel suo appartamento Antonio per fargli incontrare la bella Clara d'Almanza che si dichiara di lui innamorata; costei altri non è se non Luisa, travestita, come sappiamo. da Clara. Il giovane, che non sa del travestimento e non vorrebbe tradire l'amico, seppur riluttante accetta di appartarsi con lei. Ed è a questo punto che inizia la scena centrale: Mendoza e Don Carlo spiano dal buco della serratura gli approcci amorosi dei due, commentandoli a mezza voce con stupefatte interiezioni, magistralmente contrappuntate dalla musica, che par quasi voler rappresentare ciò che accade dietro la scena. È questo senza dubbio un momento di grande teatro, visionario e quasi surreale, sia per la situazione davvero bizzarra, sia per il modo in cui essa viene descritta: con una lucidità, una oggettività e una ricchezza di sfumature straordinaria, tale da velare ineffabilmente di mistero la innegabile comicità del momento. Mendoza, evidentemente eccitato, accoglie il felice ritorno dei due innamorati dalla stanza manifestando a sua volta con risolutezza i propri propositi amorosi: anch'egli saprà farsi valere, conquistando la sua bella grazie a un rapimento pronubo di indicibili delizie. È il tramonto. Il lirismo un po' affettato del maturo sognatore si depura a poco a poco nel Quartetto, che ricapitola i sentimenti in giuoco come in un concertato classico.

Il quadro seguente, sesto dell'opera, è racchiuso omogeneamente nella forma musicale di un Minuetto, alla cui concertazione stanno attendendo Don Gerolamo con un amico e un servo. È un Minuetto assai strano, pomposo e sfigurato, scritto per un organico insolito: clarinetto (strumento del quale Don Gerolamo si vanta gran virtuoso), cornetta e grancassa. La stranita comicità della scena sta tutta nel contrasto fra la gioconda serietà della prova diretta da Don Gerolamo e le importune interruzioni provocate dall'arrivo delle patetiche lettere di Mendoza e di Luisa, entrambi pentiti e in ansia per i possibili effetti dei loro atti; Don Gerolamo, il quale impaziente com'è di terminare la concertazione del pezzo da lui scelto per le nozze imminenti non si rende conto dell'equivoco, risponde accordando salomonicamente a tutti il suo perdono. Il settimo quadro ricalca invece moduli più convenzionali: da un lato la disperazione di Clara, giunta al convento per farsi monaca, dall'altro l'ira di Ferdinando, che si crede tradito dall'amico e dall'amata. Anche qui predominano le forme chiuse e in modo particolare le effusioni liriche (il fluente duetto fra Antonio e Luisa, musicalmente ripreso da quello del primo atto; il grande Arioso di Clara, innalzata suo malgrado al rango di eroina tragica, da melodramma), inframezzate da momenti più discorsivi e movimentati (l'impetuosa gelosia di Ferdinando, deciso a farsi giustizia in duello).

Il quarto e ultimo atto scioglie i nodi della vicenda, rimettendo tutte le cose al loro giusto posto: i giovani si uniranno secondo i loro desideri, mentre Mendoza finirà per scoprire troppo tardi la beffa e ritrovarsi scornato e maritato con la vecchia governante. Lo stesso Don Gerolamo, facendo buon viso a cattivo giuoco, accetterà il fatto compiuto, più che altro preoccupato di far bella figura con la sua festa e il suo Minuetto. Un'ombra di bonaria ironia fa capolino in questo disincantato abbandono al giocoso meccanismo a incastri della favola, dove «tutto ha lieto fine», come cantano in coro, fra il sonante tintinnare dei bicchieri, i partecipanti alla splendida festa finale. E ironia, assai più che vera e propria caricatura, si ritrova anche nella sfarzosa messinscena del quadro al convento, pagina intrisa di echi mussorgskiani, di melodie e ritmi della più autentica tradizione russa: nell'allegro brindisi dei monaci, nello strascicato salmo penitenziale da questi recitato controvoglia (contrappunto vigoroso nel quadro d'insieme), nel comico prestarsi all'inganno, essi stessi ingannati più che ingannatori, nelle rituali, ridicole chiose moraleggianti che gravemente essi aggiungono a sancire le «fortunate unioni». In queste scene conclusive la piena della musica scorre inarrestabile, come in un pirotecnico carosello finale che raggiunge l'acme durante il banchetto, allorché si ripresentano, a mo' di ricapitolazione, tutti i motivi musicali più importanti dell'opera, con il Minuetto, ora sorpreso mentre risuona fuori scena, in testa. La capacità inventiva e le formidabili doti di orchestratore di Prokofiev, qui profuse a piene mani, ci abbagliano, lasciandoci storditi; senza però farci dimenticare l'equilibrio di un magistero compositivo in grado di spaziare all'interno del linguaggio musicale più eterogeneo con proprio, inconfondibile stile.

In una nota scritta per il «Sovinform bureau» il 26 marzo 1943, Prokofiev dichiarò: «Quando decisi di comporre un'opera sul soggetto della Dueña avevo dinanzi a me due possibili strade: sottolineare il lato comico dell'opera oppure quello lirico. Ho scelto la seconda soluzione». In realtà già nella elaborazione del libretto i due caratteri coesistono: Matrimonio al convento è infatti un'opera lirico-comica. E ciò vale anche per la musica. Nessun dubbio che l'aspetto lirico sia preminente, per quanto il lirismo di Prokofiev, fatta eccezione per alcuni momenti di aperta sospensione, è piuttosto un ininterrotto susseguirsi di brevi idee melodiche che sorreggono il corso dinamico dell'azione (e vedemmo già come il proposito di non arrestare mai l'azione fosse il primo postulato dell'opera, insieme con quello, altrettanto fondamentale, di fare della melodia il motore primo della composizione); ma il lato comico è anch'esso presente in modo massiccio nella partitura, e non soltanto come sviluppo della comicità intrinseca al soggetto. Essa abbonda infatti di sottolineature comiche, di spunti musicali grotteschi e caricaturali, tanto più efficaci in quanto presi di sfuggita, con distacco e ironia appena accennata, mai insistita. Il secondo quadro del terzo atto (la movimentata scena del Minuetto in casa di Don Gerolamo), ne offre mirabile esempio, con il suo scintillante intrecciarsi di effetti contrastanti di comicità e lirismo. I quali termini, nei momenti migliori dell'opera, sono brillantemente fusi in uno stile di conversazione musicale scorrevole e brioso, composito ed elegante, che si giova in forte misura del continuo alternarsi di recitativi, declamati e brevi parti parlate a sezioni chiuse melodicamente espanse, per lo più caratterizzate da ampi, tensivi intervalli.

La vivacità ritmica, che scandisce il dipanarsi dell'azione, è un altro degli elementi basilari della costruzione musicale. Senza indulgere a quegli eccessi «motorii», «urbanistici», ferreamente implacabili, che talvolta appesantiscono le sue creazioni pianistiche e sinfoniche, Prokofiev costruisce qui un ritmo interno alla musica, un sostegno vitale per la sua impalcatura, elastico e intimamente aderente alle figure melodiche - cellule, incisi o intere frasi - che si ergono a definire una scena, un personaggio, una situazione; e così facendo riduce a unità la stessa multiforme varietà degli elementi compositivi. Armonicamente, siamo nei limiti di una moderata modernità. Spesso intere scene ruotano intorno a un'unica sfera tonale, esaurendone l'ambito senza rinunciare ad affermare con chiare cadenze la tonalità d'impianto; per poi passare, nel modo più naturale richiesto dalle esigenze sceniche, ad altre regioni tonali. Gli stessi bruschi scarti armonici, ove si verifichino, come pure la maggiore incidenza del cromatismo o la complessità delle stratificazioni tonali e politonali, sono giustificati dalla situazione teatrale, ma non da essa predeterminati: giacché la realizzazione sonora, e ciò vale anche per la scelta strumentale e per l'insieme vocale-orchestrale che ne deriva, è sempre il prodotto di una trovata musicale, al fine di illustrare e precisare quel dato momento dell'azione o quello stato d'animo del personaggio.

In altri termini, Prokofiev mostra di credere ancora nelle possibilità espressive di un linguaggio che, pur ampliato e liberamente ricreato, mantiene solide basi nella tradizione: e di questa cerca di recuperare, rinnovandoli, gli elementi fondamentali. Non è forse un caso che questa operazione, il cui risultato non è l'eterogeneità stilistica ma la personale reinvenzione di strutture significanti, abbia trovato lo spazio vitale per esplicarsi pienamente proprio nell'opera lirica; non nelle sue convenzioni, argutamente, all'occorrenza, prese in giro; non nelle sue forme statiche, stereotipate o melodrammatiche; bensì nella fedeltà all'essenza del teatro musicale, alle sue leggi eterne, al delicato equilibrio dei suoi fattori, in funzione dell'unità e dell'economia dell'organismo vivente creato con tutti i mezzi che l'esperienza - quella coscienza della contemporaneità che l'artista moderno deve avere di fronte al proprio linguaggio e alla propria epoca - metteva a disposizione del musicista. In questo senso Matrimonio al convento è una vetta nella produzione di Prokofiev, superiore per compattezza persino alla favola dell'Amore delle tre melarance, dove pure l'invenzione puramente musicale, la prepotenza delle idee musicali sorgive e icasticamente scolpite erano maggiori; e ben rappresenta, all'ultimo e più maturo stadio, un aspetto caratteristico della sua personalità creativa, quel Iato tendente a ricomporre fantasticamente in bella, superiore unità le tremende lacerazioni esistenziali e artistiche che per esempio un'opera come L'angelo di fuoco aveva, con acuta, tragica coscienza, manifestato. Ogni musicista del Novecento storico, a ben pensarci, sembra avere due anime: una potenzialmente costruttiva - «comica» - , l'altra potenzialmente distruttiva - tragica -. Sono, questi, tratti ricorrenti nell'arte del nostro secolo; e vien da credere che soltanto rinunciando all'una delle due in favore dell'altra fosse possibile giungere a qualcosa di definitivo, di veramente compiuto. Impossibile appare, anzitutto sul piano linguistico, la riconciliazione finale, la riconquista dell'identità, l'utopia della totalità, umana e artistica. Quei musicisti che ci si provarono, non possedendo la cinica spregiudicatezza di uno Stravinsky, furono destinati al fallimento: così Puccini, Busoni, Hindemith, Schönberg, Berg e tanti altri minori. Anche Prokofiev volle provarsi, con l'opera che, nelle circostanze in cui egli si trovava ad agire, di tutta la sua carriera avrebbe dovuto rappresentare la summa, già nel titolo eloquente: Guerra e pace. Inutile esorcismo, nella realtà se non di fatto incompiuto, di sogni angosciosi, vissuti esistenzialmente in prima persona e dunque, nella condizione dell'artista novecentesco, inattuali e inattuabili.

Sergio Sablich


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 5 ottobre 1996
(2) Testo tratto dal programma di sala della rappresentazione del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 18 giugno 1982


I testi riportati in questa pagina sono tratti, prevalentemente, da programmi di sala di concerti e sono di proprietà delle Istituzioni o degli Editori riportati in calce alle note.
Ogni successiva diffusione può essere fatta solo previa autorizzazione da richiedere direttamente agli aventi diritto.


Ultimo aggiornamento 8 settembre 2013