Orsèolo

Dramma in tre atti

Testo del libretto (nota 1)

ATTO PRIMO

A Venezia, alla metà del secolo XVII, negli anni della sfortunata guerra di Candia.

QUADRO I

(Nella casa del Senatore Marco Orsèolo, Inquisitore di Stato, Capo dei Dieci. Una piccola stanza ad uso di biblioteca e scrittoio. Un uscio a destra, un altro a sinistra; due finestre nei muro di faccia. Tutt’intorno scaffali ed armadi; uno dei quali, a sinistra, nasconde un usciolino segreto. Orsèolo sta seduto presso una scrivania. Di fronte a lui, pure seduto, il Senatore Michele Soranzo. D’aprile, di sera. Sopra la scrivania arde una lampada a più lucignoli.)
SORANZO
La denuncia è firmata: dal maggiore
dei tre fratelli. Il Fusinèr accusa
del ratto di Cecilia sua sorella
vostro figlio Marino,
e insieme a lui tre complici
sinora sconosciuti.
ORSÈOLO
I due feriti,
hanno parlato?
SORANZO
Entrambi. E sì la fante
che il gondoliere han detto chiaramente
d’averlo ravvisato.
ORSÈOLO
Fantasmi della febre. Alcuna traccia
non v’è della ragazza?
SORANZO
Ne di lei, ne dei rei, nessuna traccia.
Tracce non ricercate a tempo, dice
una seconda accusa presentata
contro di voi…
ORSÈOLO
Contro di me?
SORANZO
Stasera.
Si accusa in voi l’Inquisitor di Stato
di non aver voluto la ricerca
e l’arresto dei rei… Se pur non sia
che di essi – o di quell’un che più vi preme –
non abbiate voi stesso favorito
la fuga…
ORSÈOLO
Accusa stolta…
SORANZO
Son parole
del Fusinèr. Ma già la voce corre,
e il sospetto dilaga…
ORSÈOLO
… stolta e vile.
Quel Fusinèr vuol forse vendicarsi
della risposta avuta quando osò
mirare alla mia figlia
come a donna sua pari.
Il figlio d’un volgare tagliaboschi
che comprò col denaro il patriziato;
un uom che, pur sedendo nel Consiglio,
gridando va censure contro i nobili
perché il popolo ond’egli usci lo esalti!
Ma che potrà Rinieri Fusinèr
contro Orsèolo?
SORANZO
Orsèolo oggi è il Capo
dei Dieci, e se ha diritti ha pur doveri!
ORSÈOLO
Soranzo!
SORANZO
Non l’ho detto per offendervi.
Ma ognuno sa che amate vostro figlio
come il lume degli occhi…
ORSÈOLO
Ancor di più !
È l’unico mio figlio,
è i1 solo cui commettere potrò
di continuare il nome degli Orsèolo.
Ed io, suo padre, so di sue virtù.
SORANZO
Non degli errori?
ORSÈOLO
Anche di quelli, so.
Ma sono errori, non azioni infami.
Già da due giorni so, del rapimento
e del sospetto. Ebbene? Son due giorni
e una notte ch’io veglio e attendo. E ancora
attenderò, sin che il mio figlio torni
per udire da lui, dalla sua bocca,
che l’accusa è calunnia. Alla viltà
d’un uomo del mio sangue e del mio nome
io no, non posso credere.
Ma se le accuse e le mormorazioni
contro di me sian segno che in Venezia
la nobiltà del sangue è ormai spregiata
ecco, la porta è aperta, e il vecchio Orsèolo
non si nasconde. Mandi, mandi pure
la Signoria suoi messi ad arrestarlo…
SORANZO
Sacro è il Capo dei Dieci! Ed io vi dico
prima che l’onta sopra lui, la vita,
se li aveste, di dieci vostri figli!
ORSÈOLO
(balzando in piedi)
Or ragionate come aveste in casa
figli bastardi…
SORANZO
Orsèolo!
ORSÈOLO
Scusatemi.
SORANZO
Ricordatevi, Orsèolo, di Lando,
e d’Andrea Morosini.
Se fosse vostro figlio
colpevole di ratto e ferimento…
ORSÈOLO
La Repubblica ha giudici… E carnefice…
SORANZO
Ma in quanto a voi?
ORSÈOLO
So il mio dovere. E compierlo
saprò.
SORANZO
Vi voglio credere.
ORSÈOLO
Dovete!
SORANZO
Vi credo. Ma un consiglio non v’offenda…
Non venite stasera in Ca’ Grimani,
alla festa…
ORSÈOLO
Perché il sospetto aumenti?
Verrò, con la mia figlia.
SORANZO
È un vecchio amico
fedele che vi prega…
ORSÈOLO
Vi ringrazio,
ma ho già deciso.

(Prende di sulla scrivania un campanello e lo scuote, per chiamare il servo.)
SORANZO
Sia come volete.
(Si alza.)
ORSÈOLO
A più tardi.
SORANZO
A più tardi.
ORSÈOLO
(al servo, che è entrato portando un candelabro acceso)
Fate lume
(a Soranzo)
Vi sono servo.
SORANZO
Dio vi guardi, Orsèolo.
(Preceduto dal servo che gli fa lume, Soranzo esce.)
LA VOCE DI UN GONDOLIERE (*)
(da fuori)
Or ti piaccia, o vaga stella,
sti miei canti un poco aldire,
poi che sola sei tu quella
a che servo e voglio servire.
Anzoletta vaga e bella,
gli occhi tuoi me fa languire
(Il servo rientra)
(*) da una ballata di Leonardo Giustiniani
ORSÈOLO
Chi è costui che canta?
IL SERVO
È il nuovo gondoliere del traghetto,
Eccellenza.
ORSÈOLO
C’è un nuovo gondoliere?
IL SERVO
Quel povero Zuane
non ne poteva più. Gli ha preso male
stamane sulla gondola.
La vecchiaia, Eccellenza
ORSÈOLO
La vecchiaia…
(Va alla scrivania, prende da un cassetto una borsa, e ne toglie alcune monete che dà al servo.)
Gli porterete queste, domattina.
IL SERVO
Iddio ve ne rimeriti, Eccellenza.
Orsèolo getta la borsa sulla scrivania.
ORSÈOLO
Fate dire a Madonna Contarina
d’esser pronta fra un’ora. Andate, andate.
(Il servo esce)
LA VOCE DEL GONDOLIERE
Ogni zorno più me sento
ste mie fiamme reforzare;
quanto piú per to amor stento,
tanto piú te voglio amare…

(Il servo è appena uscito che si vede aprirsi l’usciolo segreto, dal quale entra un uomo ammantellato e mascherato. Passando tra la scrivania e il muro, l’uomo corre all’uscio donde è uscito Soranzo, e lo chiude; poi corre all’uscio opposto e chiude anche quello. Orsèolo ode il rumore del passi di lui, si volta e lo vede.)
ORSÈOLO
Chi siete ? Che volete?

(Lo sconosciuto si toglie il mantello e lo getta sopra una seggiola, e leva la maschera. Come Orsèolo vede dinanzi a sé suo figlio, indietreggia sino al seggiolone a lato della scrivania, e vi si lascia cadere appoggiando ai braccioli le mani tremanti. Il giovane avanza di qualche passo, s’inginocchia davanti a suo padre, e china la testa e aspetta.)
ORSÈOLO
È vero ?
(Il giovane non risponde. Orsèolo tende le mani e lo afferra al sommo delle spalle, e preme sì che egli sia forzato ad alzar la testa e a guardarlo negli occhi, e ripete, con voce straziata, la domanda.)
È vero?
Due giorni ed una notte senza sonno…
Avevo dunque anch’io paura? Guardami!
Grida che non è vero… Grida… Gridalo!
MARINO
Vi prego, ve ne supplico, calmatevi.
Forse è l’ultima volta che vi parlo.
ORSÈOLO
Non t’avessi più visto!
(Il giovane sussulta e fa per alzarsi.)
No, rimani.
Voglio sapere. Ov’è quella fanciulla?
Dove l’hai tu nascosta?
Morta?… Uccisa?…
Con le tue mani, tu, Marino?
MARINO
(scattando in piedi)
No!
Perchè non lo credeste, io non fuggii
coi miei compagni. E se costei è morta,
non fu per mano nostra; e morì pura.
ORSÈOLO
(con dolorosa ironia)
Non foste dunque voi che la rapiste?
MARINO
Non lei, ma i suoi fratelli cercavamo.
Si voleva sol dare una lezione
a quei tre Fusinèr,
che ormai da troppo tempo, impunemente,
van diffamando, in Piazza e nel Consiglio,
i nomi più onorandi di Venezia,
accusando i patrizi e le lor donne
di colpe e vizi infami…
ORSÈOLO
Hanno ragione!
MARINO
Non spetta a loro d’esser nostri giudici.
Sapevamo che in onta alla condanna
inflitta dal Senato
ai vetrai di Murano, i Fusinèr
erano andati, in pompa, ad una festa
di quelle maestranze. E noi andammo.
Abbordammo la gondola ad un miglio
dalla città. Non v’erano i tre uomini…
Soltanto la sorella v’era…
ORSÈOLO
E allora…
E allora la rapiste…
MARINO
La rapimmo.
ORSÈOLO
Eravate briachi?
MARINO
Sì, briachi;
ma più di sdegno e d’ira che di vino.
Vogando a gran bracciate eravam giunti
di fronte all’Arsenale… Due di noi
erano già sbarcati… All’improvviso
la fanciulla balzò, si buttò in acqua…
Notte buia… Passava una pattuglia…
(Un lungo silenzio penoso.)
Ho bisogno d’aiuto…
d’aiuto e di denaro…
ORSÈOLO
E dovrei, io…
MARINO
Siete il Capo dei Dieci, sì, ma siete
anche mio padre !
ORSÈOLO
(con espressione di dolore più che di sdegno)
Forse ch’io mai chiesi,
prima di condannar col reo un complice,
se fossero parenti?
Una è la legge giusta, una per tutti!
MARINO
Prima legge è salvare la potenza
dello Stato. E lo Stato siamo noi,
il patriziato che lo fece grande.
O mantenere intatti i privilegi
conquistati dai nostri, ed impedire,
con ogni mezzo, che ci sian contesi,
o noi favoriremo le congiure,
contro di noi e contro la Repubblica,
d’ogni gente più vile…
ORSÈOLO
Al Tribunale
dirai codesto…
MARINO
Al Tribunale? Ai giudici?
Un Orsèolo contro l’altro?
ORSÈOLO
No!
Qui non vi sono Orsèolo e suo figlio!
Qui v’è soltanto un criminale, reo
d’una colpa infamante, e contro a lui
un uomo onesto, un uomo senza colpe,
che diritto e dovere ha di colpirlo.
MARINO
E dunque denunziatemi. Ma la giuro
che vivo, no, nessuno potrà prendermi.
(Si bussa all’uscio di sinistra.)
ORSÈOLO
Chi è là?
LA VOCE DI CONTARINA
Son io…
ORSÈOLO
Più tardi.
Ti chiamerò tra poco.
MARINO
(si accosta a suo padre, da parlargli quasi all’orecchio)
Come pensar potreste vostro figlio,
l’unico vostro figlio, alle catene,
là, nella prigione Orba…
ORSÈOLO
Taci…
MARINO
Come
potreste voi pensarlo
nella camera nera dei tormenti,
alle corde, sospeso per i polsi?..
ORSÈOLO
(sottovoce)
Neppur con una maschera di ferro…
(gridando)
Non posso, no, non posso!
MARINO
E allora… Padre… Addio…

(Quando Marino sta per riprendere di sulla seggiola, ove lo gettò, il suo mantello, si riode la voce del gondoliere che passa dal canale cantando. Orsèolo sussulta.)
ORSÈOLO
Fèrmati. Aspetta.
(Di sulla scrivania, alla quale ora si appoggia, Orsèolo ha tolto in mano la borsa di denaro: e tendendo la mano all’indietro lascia che Marino la prenda.)
Non si torna più indietro…
MARINO
(Un’improvvisa dolcezza di memorie e di rimpianti assale il giovane.)
Venezia mia!
ORSÈOLO
Signore Iddio, di tanti
e sì orrendi peccati ero io colpevole,
perchè non meritassi di morire
avanti di patire questo strazio?
Ma or che sotto a me la terra sfugge,
e un abisso d’infamia m’è davanti,
e non ho forza d’arrestare il piede,
vi chiedo di finire, di finire!
Non ho più forza, o Dio, son troppo vecchio!
MARINO
Padre, lo so, v’ho dato assai dolori,
anche prima di questo così grande.
Pregate Dio per me, e perdonatemi.

(Si getta il mantello sulle spalle e s’avvia, camminando a ritroso, contemplando suo padre, stroncato dal colpo, sperando in una parola, in uno sguardo di lui. Il vecchio non si volta. Prima di rivarcare la soglia dell’usciolo, aperto, sosta un momento ancora.)
MARINO
Quando potrete… dite a Contarina…
Baciatela per me…
(Esce)

(Orsèolo è solo, le braccia abbandonate lungo i fianchi, la testa curva. A un tratto si scrolla, e con evidente sforzo si alza. Non riesce a tenersi in piedi, ricade seduto. Tende il braccio, prende di sulla scrivania il campanello e lo scuote.)

(Si ode bussare all’usclo di sinistra.)
ORSÈOLO
Vieni… Entra…
LA VOCE DI CONTARINA
E’ chiuso.

(Si ode la fanciulla ridere con la balia. Orsèolo va ad aprire l’uscio che fu chiuso da Marino. Entra Contarina con la sua balia levantina.)
CONTARINA
Padre, non era qui con voi Marino ?
ORSÈOLO
Chi lo disse? Nessuno era qui meco.
CONTARINA
M’era parso d’udire la sua voce.
ORSÈOLO
Ho detto ch’ero solo…
CONTARINA
Son tre giorni
che non rincasa…
ORSÈOLO
Ebbene? Affari suoi.
Non è un fanciullo.
(rivolgendosi. alla Levantina)
Va’, chiamami Zorzi.
Perché piangi? Che hai?
CONTARINA
(sorridendo e carezzando la balia sui capelli)
Povera balia!
Ubbie, malinconie, timori vani…
LA LEVANTINA
(con voce lamentosa)
Padrone mio, ti prego, non uscire,
e non condurre al ballo Contarina.
Mentre ch’io la vestivo, una civetta
ha gridato tre volte…
È segno di sventura,
padrone…

(Improvvisamente giungono da fuori grida concitate e rumore di gente in corsa. Orsèolo allibisce, e si riaccosta alla scrivania e vi si appoggia. )
VOCI DA FUORI
– Dàlli! Dàlli! Dàlli, piglialo!
Piglialo

(Entra un servo portando un doppiere acceso, e sull’altro braccio la cappa nera di Orsèolo.)
ORSÈOLO
Va’, scendi a veder che accade…

(Il servo depone il candelabro e la cappa sulla scrivania, e va alla porta. Gira la maniglia, ma non può aprire.)
ORSÈOLO
(violento)
Gira la chiave…
(Il servo apre ed esce.)
LA LEVANTINA
Oimè!

(Presa dal terrore. Contarina corre vicino a suo padre. )
CONTARINA
Oimè!
ORSÈOLO
Tu tremi ?
Hai paura anche tu, come la balia ?
CONTARINA
Non è paura, no… Ma quelle grida,
la vostra voce, il vostro turbamento…
Che accade intorno a noi, che dunque accade?
Parlate… Una parola…
ORSÈOLO
Quale? Quale?
Udisti mai che una parola possa
scoperchiare una tomba?
O trarre a salvamento
uno che sia caduto dentro a un pozzo?
O soltanto, soltanto riaprire
la porta che uno chiuse di sua mano?
Non le parole, solo i fatti contano!
CONTARINA
Perché mi dite questo? Io non comprendo.
ORSÈOLO
Tu vuoi bene a tuo padre?
CONTARINA
Perché lo domandate?
ORSÈOLO
Sei devota a tuo padre?
CONTARINA
Voi sapete
che darei la mia vita per la vostra.
ORSÈOLO
Contarina! Figliola! Benedetta!

(Si riodono, ancor più forti e tumultuose, quelle grida da fuori. Contarina si stringe al petto di suo padre.)
IL SERVO
(rientrando)
L’han preso…
ORSÈOLO
(Alla vista del servo si volta di scatto, ché non si era accorto fosse rientrato.)
Chi ? Chi han preso?
IL SERVO
Un ladro, un borsaiolo.
(Va a riprendere la cappa di Orsèolo e aiuta il padrone a indossarla.)
L’han preso sulla porta della chiesa.
All’aspetto, pareva un levantino.
(Va a riprendere il doppiere acceso.)
ORSÈOLO
Andiamo… Va’, fa lume.

(Il servo si avvia, e Orsèolo e Contarina lo seguono. La Levantina esce dall’altra parte, asciugandosi gli occhi lacrimosi.)

La scena si chiude

INTERMEZZO

La scena si riapre.

Un tratto della Riva degli Schiavoni, vista dalla laguna. Notte stellata.
Un gruppo di gente, donne la più parte e qualche vecchio, a sinistra, in attesa degli uomini che passeranno per recarsi all’Arsenale, e di là partiranno per il Levante, per la guerra.
Qualche coppia di maschere passa in fondo.
UN CORO DI MASCHERE
(fuor della scena, a destra)
Gente, udite la canzone
che vi chiama alla baldoria!
A sollievo d’ogni male
ritornato è Carnevale.
Verrà, poi la contrizione
ora tregua a pianti e lai.
(S’ode, da sinistra, un rullo di tamburi, e un canto di guerra.)
UN CORO DI SOLDATI
Cipro, Candia, Morea, xe nostri regni,
e chi ne li vol tior se fazza avanti;
chi dar sangue no vol xe fioli indegni.
IL CORO DI POPOLO
Ascoltate, son loro… Benedetti!

(Entra una compagnia di maschere, da destra.)
(Vi sono Dottori, Arlecchini, Mattaccini, Turchi con la scimitarra e la pipa, il Bernardone con le grucce, i1 Tirolese con l’orso, Gentildonne, Gnaghe e altre ancora.)
(La mascherata ha un Capo che, presentandoli ai passanti, prima spinge avanti un Dottore dietro al quale si nasconde, per balzar fuori quando udrà il suo nome, uno Zanni sguaiato, e poi spinge avanti una Gentildonna dietro la quale sta una Gnaga che tiene in braccio un grosso gatto impagliato.)
IL CORO DELLE MASCHERE
Carnevale, ecco, s’avanza
con sue maschere sapienti,
che, parvenza oppure sostanza,
dicon tutte verità.
Sotto il manto del Dottore,
– Ehm, ehm, ehm, ehm, –
c’è uno Zanni sciocco e matto.
– Ah, ah, ah, ah ! –
Dove vedi una gran dama,
– Ih, ih, ih, ih, –
c’è una Gnaga col suo gatto.
– Miao, miao, miao, miao! –
Piangerete un altro giorno,
oggi è giorno di godere,
ché a sollievo d’ogni male
ritornato è Carnevale.
E potete, andando intorno,
dire a ognun quel che vi pare.
(Squilli di trombe e rullo di tamburi da sinistra.)
IL CORO DI POPOLO
Ecco le trombe. – Vengono, son qui…
CORO DI SOLDATI
La prima volta che su la galiazza
ai Turchi cani ghe darò la cazza,
tagiar voi de costori quattro teste
e qua portarle a rallegrar le feste.

(I soldati entrano da sinistra, incolonnati, e preceduti da trombetti e tamburini, e attraversano la scena da sinistra a destra.)
UNA VECCHIA
(additando a un’altra le maschere)
Questi va’ a festa, e loro va’ alla guerra.
UN’ALTRA VECCHIA
Non tutti nasce al mondo per soffrire.
ALTRE DONNE
– San Marco li accompagni, poverini.
– Sta ben, figliolo caro.
UNA RAGAZZA
(che finalmente vede passare tra i soldati il suo innamorato)
Adio, Paoletto!
Adio, tesoro mio! Gioia del cuor!
Adio, bellezza cara…
UN VECCHIO
Accoppateli tutti, i Turchi cani,
e poi tornate. Viva la Repubblica!

(Sbandate dai soldati coi quali si incontrano e tra i quali alcune passano, le maschere poco a poco escon dalla Piazza andando verso sinistra, verso San Marco. Rimangono in scena poche maschere che non riescono ad aprirsi un passaggio tra i soldati ed il Capo della Mascherata, che ha adocchiata una bella ragazza tra il Coro di Popolo e passo passo le si avvicina. Ormai i soldati sono passati tutti. La poca gente chi era venuta per vederli e salutarli s’allontana. Il giovane mascherato sta ora dietro alla ragazza che ha salutato il suo innamorato, e le sfiora una spalla con la destra.)
LA RAGAZZA
Giù le mani, compare…
IL GIOVANE MASCHERATO
Quei begli occhi
non son fatti per piangere.
LA RAGAZZA
A voi, che ve n’importa? Io voglio piangere
quanto mi pare e piace…
IL GIOVANE
Diventerete brutta.
LA RAGAZZA
Non a voi
ho da piacere.
IL GIOVANE
A San Tomà c’è festa.
UNA VOCE LONTANA
(da destra)
Adio bela Venezia, adio laguna,
adio bele putele veneziane…
LA RAGAZZA
Quei che han coraggio parton per la guerra.
IL GIOVANE
Verrà il mio turno. Intanto me la godo.
A San Tomà si balla… E siete giovane…
Occhio non vede, cuor non duole… Andiamo…
(Egli cinge con un braccio alla vita la ragazza, che si schermisce, ma già sorride.)
Che bella bocca! E ci scommetterei
che sa di gelsomino.
(I due giovani si allontanano verso sinistra.)

La scena si chiude

QUADRO II

La scena si riapre.

Festa da ballo in Ca’ Grimani. Una grande sala. In fondo, spalancata, la porta d’accesso. A destra tre finestroni che dànno su un canale. A sinistra tre usci a vetrate che dànno nelle altre sale, dove si danza: aperti sono il primo uscio, verso i1 proscenio, e l’ultimo, verso il fondo. Notte avanzata. Fervido movimento di invitati: gente riccamente vestita e adorna che entra, sosta a salutare gli amici, e passa nelle sale dove si danza e dalle quali viene, or sì or no, il suono di una orchestra.
IL CORO
– Buona sera. – Felice d’incontrarvi.
– Onore mio, messere. – In verità,
più ricca festa io mai non vidi.
UN GIOVANE
(a una dama)
Ed io
non mai vidi occhi belli come i vostri.
LA DAMA
Lusingatore !
IL GIOVANE
Avessi una speranza!
ALTRI GENTILUOMINI
– Casa Grimani ben sa farsi onore!
– Che belle creature! – Nel sorriso
delle sue donne specchiasi Venezia
e più risplende, sì che due bellezze
fanno un incanto solo.
– Bel madrigale! Bravo!

(Entra Soranzo. Alcuni lo incontrano sulla soglia della porta, e lo salutano.)
IL CORO
– Buona sera, Eccellenza.
SORANZO
Buona sera,
signori miei.
IL CORO
– Messer Grimani ha chiesto
di voi già molte volte. — E il Doge anch’esso.
SORANZO
È già venuto il Doge?
IL CORO
– È in quella sala.
(Sopraggiunge, da sinistra, il Grimani; e vede Soranzo, e va ad incontrarlo.)
GRIMANI
Buona sera, Soranzo.
SORANZO
Buona sera.
GRIMANI
Quale risposta?
SORANZO
Orsèolo mi segue.
GRIMANI
È un’imprudenza.
SORANZO
Peggio, è una follia.
Ma l’amor ch’egli porta al suo figliolo
gli fa dimenticar la dignità
del grado e i suoi doveri.
(Si avvia con Grimani verso le altre sale.)
Aiutatemi voi a far in modo
che insieme a lui non resti solo il Doge.
Troppo eloquente è Orsèolo;
e il Doge, lo sappiamo, è un uomo debole.

(Da poco è entrato un uomo mascherato e avvolto in un mantello di un viola cupo. Il quale si è fermato a guardare attorno, e si dirige ora verso il fondo. Alcune dame gli chiudono il passo: e una più ardita gli appoggia la mano sul braccio; e l’altre si mettono intorno a motteggiare e a ridere.)
UN CORETTO DI DAME
— Davver non si può dire
che Vostra Signoria qui si diverta.
– Che siete forestiero?
– Non rispondete ? – Il poverino è muto!
— Quando uno soffre di malinconia
dovrebbe stare a casa…
(Entrano Orsèolo e Contarina)
– Guarda! Orsèolo
con la figlia. – E una sfida ai maldicenti.
— Non è più maldicenza ! Ormai è certo
che a compiere il delitto fu Marino.
Forse egli non lo sa. – Non sa? Ma guardalo!

(L’uomo mascherato si è ritratto in fondo, presso le finestre. Incontro a Orsèolo sono andati alcuni gentiluomini anziani. Alcune dame sono corse incontro a Contarina.)
IL CORO
– Felice sera, Orsèolo.
ORSÈOLO
A voi tutti
buona sera, Signori.
(Con un gesto dà licenza a Contarina di allontanarsi da lui.)
UN VECCHIO SENATORE
Un fresco fiore
pare la vostra figlia. Ed ha la grazia
che avea sua madre.
ORSÈOLO
Grazie del ricordo.
IL SENATORE
E Marino?
ORSÈOLO
Non so…
Verrà, credo, più tardi…
IL SENATORE
N’ho piacere.
Talun diceva già fosse fuggito,
per sottrarsi all’arresto, in conseguenza
di quel ratto…
ORSÈOLO
Davvero? E voi che dite?
IL SENATORE
Io? Nulla. Ascolto e osservo.
ORSÈOLO
E più prudente.
ALCUNE DAME
– Contarina! Tesoro…
– Sei bella come il sole. – Andiamo al ballo.
– Ti facciamo da scorta.
(Si avviano con Contarina verso le sale a sinistra e vi entrano.)
IL CORO
– Orsèolo, badate, vi rapiscono
la figlia…
UNA VECCHIA DAMA
I rapimenti
di fanciulle non sono più puniti.
Non è vero, Eccellenza?
ORSÈOLO
All’età vostra
la cosa non dovrebbe riguardarvi.
LA VECCHIA DAMA
È giusto. Sol potrebbe riguardarmi
se fossi vostra moglie.
ORSÈOLO
Che volete
voi dire?
LA VECCHIA DAMA
Oh! Per i figli, ben s’intende!
E per il maschio più che per la figlia…
SORANZO
(or ora rientrato da sinistra)
Orsèolo, vi prego… Il Doge chiede
di voi. Siete persuaso
che meglio avreste fatto a non venire?
IL CORO
— Avete visto? Gli occhi egli volgeva
intorno come l’uom che teme agguati.
– E come s’è incurvato! Si direbbe
invecchiato in tre giorni di dieci anni.

(A piccoli gruppi, mormorando, signori e dame passano nelle sale a sinistra.)
ALCUNE DAME
– E certo, ormai è certo,
che a compier il delitto fu Marino!
Peccato! Era un sì bel ragazzo! – E fiero!

(La sala è quasi vuota. L’uomo dal mantello viola è entrato anche lui nelle altre sale. Dalla porta di destra entra un servo e chiede ad un suo compagno)
UN SERVO
Di’, tu, dov’è la figlia dell’Orsèolo?
C’è un uomo, giù, che chiede di parlarle.
UN ALTRO SERVO
(indicando uno degli usci aperti che dànno nelle altre sale)
Guarda, là in fondo…
IL PRIMO SERVO
Quale?
L’ALTRO SERVO
Quella col velo bianco sulle spalle.
(Il primo servo entra nelle sale a sinistra. Un giovane gentiluomo e una giovane dama, che erano andati in fondo, riattraversano la sala per tornare dove si danza.)
UN GENTILUOMO
Quei Fusinèr, infine, sono gente
volgare; e ancor può dirsi fortunata
la ragazza, se l’ha presa un dei nostri…
UNA DAMA
Lo invidiate?
IL GENTILUOMO
Per niente! Io solo invidio
vostro marito.
LA DAMA
Zitto, scostumato!

(Rientra Contarina, agitatissima, seguita da presso dal servo che è andato a cercarla, attraversa la scena, ed esce poi dalla porta in fondo. )
CONTARINA
E vuol parlare a me?
IL SERVO
Così m’ha detto.
E ch’è mandato dalla vostra balia.

(Vien riaperto anche l’uscio centrale, dei tre a sinistra, dal quale entra il Doge, che ha alla sua sinistra il Grimani e alla sua destra la moglie del Grimani stesso. Dai due usci laterali rientrano, acclamando al Doge, gentiluomini e gentildonne.)
IL CORO
– Evviva il Doge! Evviva!
IL DOGE
(Sorridendo quasi paterno, lievemente s’inchina a dame e gentiluomini.)
Ad ogni età ciò che l’età comporta
ai giovani le danze, ai vecchi il letto.
L’alba non è lontana, e il nuovo giorno
deve trovarci pronti al nostro ufficio.
GRIMANI
Vostra Serenità d’esempio è a tutti.
IL DOGE
(avvedendosi di quell’uomo mascherato dal mantello viola, che, gettato il mantello, appare ora vestito a gramaglie, e che si è posto davanti alla porta d’ingresso, dando alla porta le spalle)
Chi è costui che ha tanta mala grazia
d’ostentar le gramaglie dove il Doge
consente la letizia?
L’UOMO IN GRAMAGLIE (RINIERI )
Consentirebbe il Doge la letizia,
sapesse egli d’avere intorno a sé,
in coloro che a lui sorridon lieti,
gli occultatori o i complici d’infamie?
IL CORO
– Buffone! – Saltimbanco! – È un pazzo! – Fuori!
– Mettetelo alla porta. Fuori!
IL DOGE
No!
Deve restare e deve render conto
dell’ingiurie profferte. Avanti! Dite.
RINIERI
Serenissimo Doge! Or son due giorni,
nell’acque di Venezia, una fanciulla
venia rapita a forza; rapitore
un nobil veneziano.
IL DOGE
Signori, è vergo?
ALCUNI DEL CORO
– È vero?
RINIERI
Lo vedete?
Nessuno qui stupisce.
IL DOGE
Solo il Doge
doveva non sapere?
RINIERI
Da un cittadino membro del Consiglio
denunciato il delitto per due volte,
e nominato il capo dei colpevoli,
denunzia e accuse son cadute invano.
Perché quel reo lo stesso nome porta
di tale che in Venezia è ancor potente,
i magistrati voglion dargli il tempo
di sottrarsi all’arresto con la fuga.

(Orsèolo, che è rimasto fino ad ora presso uno degli usci della sala da ballo a sinistra, guardato da Soranzo, fa l’atto di lanciarsi contro il denunciatore. Ma Soranzo lo ferma a tempo, e lo trascina seco, a forza, dentro la sala.)
IL DOGE
Il nome di costui! E il vostro nome,
se siete un uom d’onore!
IL CORO
– È un pazzo! – Fuori!
– Sia arrestato! – Sia mandato ai Pozzi!
RINIERI
È la paura, che or vi fa gridare?
Ma venni per dir tutto, e parlerò.
(Trae da sotto il giubbetto un foglio piegato e lo mostra al Doge.)
Serenissimo Doge! In questo foglio
son per la terza volta ripetute
la denunzia e l’accusa ch’io v’ho detto.
Ad ogni conseguenza preparato,
i1 fratello l’ha scritto della misera
che fu rapita e offesa, e forse uccisa
(Si toglie la maschera.)
Rinieri Fusinèr.
Ed egli a voi l’affida.
IL CORO
– Ai Magistrati
dev’esser consegnato…
IL DOGE
(confuso, irresoluto)
Ai Magistrati…
RINIERI
(mordente)
E allora qui lo getto, ai vostri piedi
per provare se il Doge, raccogliendolo,
voglia inchinarsi all’alta maestà
della Giustizia; o s’egli, calpestandolo,
voglia significar che in questa terra,
sopra le leggi e sopra la Giustizia,
imperano l’arbitrio e la violenza.

(E getta il foglio per terra, nello spazio tra lui e il Doge, intorno al quale si sono stretti tutti i signori. Il Doge avanza di un passo come volesse raccogliere il piego.)
IL CORO
– No! No! Principe, no, non v’umiliate!
– Ma fatelo arrestare e imprigionare.
– Egli ha oltraggiato il Doge. – Alle colonne!
– Ha ingiuriato il Consiglio e i Magistrati.
– Alle colonne! Fatelo impiccare.
– Ma prima qui, davanti a tutti, chieda
perdono dell’offese e le ritratti.
ALCUNI VECCHI
– Non siate sì spietati!
È un uomo che il dolore ha reso pazzo.
ALCUNI PIÙ VIOLENTI
– E raccatti quel foglio! Raccattate
quel foglio…
RINIERI
Non a me spetta raccoglierlo,
nè lo riprenderò, ne andasse pure
della mia vita.
Principe, Signori,
se v’ho ingiuriato, e voi mi punirete
senza lamento accetterò il castigo.
Ma prima, prima datemi quel segno
che ho chiesto, di giustizia.
Raccogliete quel foglio…
IL CORO
– Basta! Fate
chiamare il Missier Grande. – Si, ma prima
chieda costui perdono, inginocchiato.
– E questo foglio…

(Alcuni, dandovi contro col piede, fan balzare il foglio per cacciarlo oltre la soglia della porta. Rinieri arretra, inorridito, verso destra. )
RINIERI
Ah, no! Codesto no!
Badate a voi!
IL CORO
(alcuni più violenti, traendo le spade dal fodero, e ponendosi a ridosso della porta d’uscita)
– Di qui
vivo non uscirai, se tu non abbia
chiesto perdono inginocchiato a tutti.
LE DONNE
– Vergine benedetta, ora s’ammazzano!
ALCUNI VECCHI
– Ringuainate l’armi! E vergognatevi!
RINIERI
(che ha tratto egli pure la spada dal fodero)
Ormai tagliato è il ponte!
Quel che avverrà l’avrete voi voluto.
Per Dio non v’accostate, o corre sangue!
Doge, e voi pur vestitevi a gramaglie,
chè Venezia precipita a rovina
per colpa di chi avrebbe a custodirla.
IL CORO
– A morte, a morte!
– Ai Pozzi, ai Pozzi!
RINIERI
Indietro!
L’ombra del reo che, complici voi tutti,
ha potuto fuggire – egli, un Orsèolo! –
quell’ombra vi sovrasta. È grande, e pesa;
vi soffoca, e vi schiaccia. E insieme a quella
vengono incontro a voi in dense schiere,
e da presso – guardàtele – vi stringono,
l’ombre di quei che là, nei Mari caldi,
per Venezia a lor cara, anche se ingrata,
soffrono guerra e morte, mentre qui
la nobiltà tradisce leggi e Patria…
IL CORO
– Maledizione!
RINIERI
(Apre con la sinistra, senza che la mano destra lasci o abbassi la spada, la finestra che ha dietro e che dà sul canale.)
Indietro! Dio protegga
Venezia e la sua gloria. In quanto a voi,
guardàtevi! Ogni colpa ha il suo castigo.
(E si getta di sotto.)

(Quei giovani che già s’eran posti, con la spada in pugno, a ridosso della porta, per impedire che Rinieri di là potesse salvarsi, e che poi, quanto più l’invettiva di Rinieri cresceva di forza, s’eran avvicinati a lui, come cani intorno a una fiera, si rivolgono ora tumultuosamente verso la porta, per correre di là all’inseguimento dell’offensore.)
IL CORO
– A noi!, A noi!
IL DOGE
(tendendo le braccia)
Fermatevi!
Fermatevi! Non voglio altri delitti.
Anche se l’uccideste, rimarrebbe
lo squillo della sua voce nell’aria.
Già l’alba? Ahimè, che nasce un triste giorno!
Tempo già fu che ad ogni cittadino
di questa terra vanto era supremo
potersi proclamare un veneziano.
Veneziano: e bastava a tutti. E il nobile
non dispregiava il popolo; e i1 plebeo
rispettava ed amava i più potenti.
Tempo già fu! La gloria di Venezia
splendeva come un sole…
(S’avvia, lentamente e penosamente, per uscire. A un tratto si ferma, si volta indietro, e grida, con voce piena di pianto ma solenne e maestosa:)
O giovani, la Patria
ha bisogno di tutti i suoi figlioli!
È la Madre di tutti…

(La voce gli si rompe in gola per la commozione. Qualcuno si accosta a lui come per sorreggerlo. Egli respinge il gesto, dolcemente. E accompagnato dai Grimani si riavvia verso la porta, ed esce. Gentiluomini e gentildonne lo seguono, in silenzio. Si odono, da fuori, le voci dei servi che chiamano per le gondole: e le voci dei gondolieri che rispondono ripetendo il nome della casata.)
VOCI DI SERVI E DI GONDOLIERI
– Ca’ Gritti. — Ca’ Dolfin. – Ca’ Gradenigo.
– Ca’ Loredan. – Ca’ Dandolo…

(Una campana, da una chiesa vicina, e poi altre più lontane, chiamano alla prima Messa. Qualche vecchio si segna.)
UN GENTILUOMO
Il Doge è veramente
un uomo di gran cuore…
UN VECCHIO SENATORE
Gran virtù!
Ma per essere Doge essa non basta.
(Si odono squilli di trombe, lontani.)
ALCUNI GIOVANI
Udite… – È l’adunata all’Arsenale.
– Maledizione ai Turchi e a chi li aiuta.

(Quasi tutti gli invitati sono ormai usciti. Qualche servo attraversa la sala: qualche altro si ferma a spegnere le candele. Dalla sinistra vengono lentamente Soranzo ed Orsèolo, ai quali si uniranno poi i Grimani, di ritorno dall’aver accompagnato il Doge.)
SORANZO
Abdicare l’ufficio or non potete.
Sarebbe come un confessarvi complice
di vostro figlio. Ed anche se lo foste,
– oh, dico sol per dire -, ora il dovere
sarebbe di negarlo. Anche il mentire
può essere un dovere, ove si tratti
di salvare il prestigio dello Stato.
ORSÈOLO
(rivolgendosi a un servo che attraversa la sala verso sinistra)
Fate avvertir Madonna Contarina
Orsèolo che suo padre l’aspetta…
SORANZO
Vedremo oggi, in Consiglio, se convenga
bandire il Fusinèr, o imprigionarlo.
ORSÈOLO
(violento)
Impiccarlo, costui!
SORANZO
(calmo)
Se converrà,
si farà pur codesto…
IL SERVO
(tornato da sinistra, riavvicinandosi a Orsèolo)
Eccellenza, le sale sono vuote.
ORSÈOLO
Cercate ancora… Andate…
(Improvvisamente egli è preso da una tremenda angoscia che lo rende convulso e balbettante.)
Chiamatela per nome… Contarina…
Che suo padre l’aspetta.
(Si sforza di gridare il nome della sua figliola, ma la voce quasi non gli esce dalla gola.)
Contarina…

(Soranzo e i due Grimani, or ora rientrati, gli si fanno intorno per calmarlo. Lanciato dal basso, dal canale, attraverso la finestra che Rinieri aprì, viene a cadere in mezzo alla sala un piccolo ma pesante involto bianco. E al tonfo che esso fa cadendo, risponde da fuori una stridula sghignazzata del lanciatore. Orsèolo e Soranzo e i Grimani si voltano, e alcuni servi, che stavano passando, si fermano stupiti. Un solo istante di sospensione, e subito Orsèolo ha l’intuizione di ciò che è avvenuto. Vorrebbe correre, non può muoversi, urta come una belva ferita. Finalmente si slancia, corre, si china sull’involto e lo afferra. Nelle mani gli si svolge il velo che Contarina portava in testa, e cade in terra la pietra che vi era stata messa dentro per appesantirlo e lanciarlo.)
ORSÈOLO
Figliola mia! Figliola! Contarina!

(E con le mani convulse si reca alle labbra il velo e lo bacia. Soranzo e i Grimani, sgomenti e commossi di pietà, gli si appressano.)
ORSÈOLO
No, no, nessuno, no… Voglio esser solo…
Io solo…
La mia gondola! La gondola!

(Tenendo stretto al petto il velo, il vecchio va barcollando verso la porta. Soranzo e i Grimani non osano più accostarglisi, ma lo seguono a distanza. I servi stanno immobili, sbigottiti. Dai finestroni entra la luce rosata dell’aurora.)

La scena si chiude.

ATTO SECONDO

In un’isoletta dell’estuario. La scena è per due terzi occupata, a sinistra, dal casolare di un pescatore, del quale si vede l’interno: e per l’altra parte da un tratto di spiaggia, oltre il quale, a forse cento passi, è la laguna. Il casolare è stato costruito al riparo di una macchia di pioppi e cipressi bassi, cresciuti stenti e curvi per la forza contraria del vento: il resto della spiaggia è sparso di radi cespugli e giunchi. Dell’interno del casolare si vede una delle sue due stanze: uno stanzone basso e scuro. A destra, annerito dal fumo, un camino dove stanno malamente bruciando poche legne umide; in fondo, nel mezzo della parete, la porta, chiusa, e nella stessa parete una finestra a inferriata; a sinistra, una scaletta di pochi scalini che conduce a un uscio, pure chiuso, per il quale si entra nell’altra stanza. Appese alle travi, che sostengono un tetto di paglia impastata con fango, reti e nasse e altri strumenti per la pesca. Nel mezzo dello stanzone, una rozza tavola, e su di essa un boccale di terra e due bicchieri, e un grosso pane con infissovi un coltello, e una lucerna a olio, accesa. È il tardo pomeriggio di una giornata d’aprile, ma ventosa e fredda come di pieno inverno. Due uomini sono nello stanzone: uno, Alvise Fusinèr, giovane ma che ha l’aspetto di uomo fatto, sta seduto su una bassa scranna di legno davanti al camino, le spalle alla tavola; l’altro, Delfino Fusinèr, sta seduto su la tavola: la luce tremula della lucerna e il rossore della brace o della fiamma gli illuminano or più or meno il viso di adolescente.
DELFINO
Se non venisse?
ALVISE
(senza voltarsi, ma rimanendo anzi a testa china, come intento al fuoco che di quando in quando egli va rattizzando)
Ancora? Da stamani
già me l’avrai ridetto dieci volte.
Ti pare ch’egli sia d’un altro sangue
del tuo, del mio, di quel di sua sorella?
DELFINO
Diverso, forse, è i1 cuore, or che si tratta
di quella ch’è là dentro.
ALVISE
O non avrebbe
voluto averla in moglie?
Se gli piace e n’ha voglia, ora può préndersela.
Razza di superbiosi tutti quanti!
Il vecchio e quel suo figlio maledetto,
e Contarina anch’essa.
Soffia, schianta,
vento della malora!

(Una pausa, durante la quale non s’ode che il rombo del mare grosso e il sibilare del vento tra gli alberi.)
DELFINO
Brutto tempo
per chi sta navigando…
ALVISE
E mala sorte
per quei che han roba in mare.
DELFINO
Se non venisse?…
ALVISE
(iroso)
Smetti !
Se non verrà, faremo noi il resto.
DELFINO
Alvise…
ALVISE
E poi ?… Che sei forse pentito ?
Prendi la penna, e scrivi
un bel lamento in versi.
Io no, non son pentito, io che nel libro
della memoria ho scritto ogni mio debito,
ma anche il nostro avere! E con gli Orsèolo
debiti no, ma i crediti son molti.
Quando Orsèolo fece alzar quel muro
di pietre aguzze a taglio
fra il suo giardino e il nostro,
perché i suoi figli, i nobili suoi figli,
non si trovasser più con noi, figlioli
d’un mercante di legne, ero un ragazzo.
Fossi stato mio padre,
avrei accatastato cento some
di legne sotto il portico
della villa dei Salici,
e ci avrei messo fuoco. Ero un ragazzo.
Ma quell’umiliazione mi rimase
qui dentro in gola, e mi s’è fatta tòssico.
E un altro conto aperto fu dal vecchio
a quell’ultima Messa di Natale
che sertiron gli Orsèolo alla Mira.
Per esser stata salva dalle fiamme
la sua figliola, il Nobilomo offerse
un cuore d’oro alla Madonna. Giusto!
Ma neppur si degnò varcar la soglia
di casa nostra, sol per dire un «grazie»
a chi l’avea salvata.
E vendette la villa a un forestiero.
Tre conti, tre, fra Orsèolo e noialtri!
Il giorno di pagarli è alfin venuto.
DELFINO
E sia… Ma che ne ha colpa Contarina?
ALVISE
Oh, dico, come parli? Ma neanche
tu l’avessi tenuta su le braccia,
come Rinieri! E quale colpa aveva
Cecilia, perché avesser a rapirla?
Se Rinieri; in Consiglio, avea scoperto
di lor signori vizi e malefatte,
sopra di lui dovevan vendicarsi.
Del resto, ognuno fa
ciò che gli pare meglio.
Rinieri fa discorsi.- tu, canzoni;
da mercante ch’io sono, io fo negozi.
Costei, nelle mie mani, è preziosa
valuta da baratto: Contarina
per Cecilia. E così come Cecilia
ci sarà resa – intendi? tale e quale
renderò Contarina.
DELFINO
E dopo ?
ALVISE
So,
lo so quel che vuoi dire.
Ma non m’importa. Io gioco volentieri
anche la vita.

(Si bussa alla porta. I due fratelli balzano in piedi, e stanno un momento in ascolto. Si bussa nuovamente. Delfino va per aprire.)
LA VOCE DEL PESCATORE LUCA
Aprite…
DELFINO
Chi è là?
LA VOCE DI LUCA
Son Luca. Aprite.

(Delfino apre – la porta si apre verso l’interno – appena quel tanto da lasciar passare l’uomo che bussava.)
ALVISE
(a Delfino)
Chiudi.
(Facendo forza contro il vento, Delfino richiude.)
ALVISE
(rivolgendosi a Luca)
Verrà ?
LUCA
Mi segue. La sua barca
è in vista: e vola, come avesse il vento
in poppa.
ALVISE
Gli parlasti?
LUCA
Si.
ALVISE
Che disse?
LUCA
Nulla. Sapeva già.
ALVISE
Da chi?
LUCA
Sapeva.
DELFINO
E di Cecilia?
ALVISE
(troncando la domanda del fratello)
Il vecchio, ha denunciato
il ratto?
LUCA
Non si sa. Però, si dice
ch’egli abbia sguinzagliato i suol segugi
in cerca della figlia.
DELFINO
E di Cecilia
nessun indizio?
LUCA
Forse. Il nome no
ma un tal della Giudecca, un ortolano,
dicea stamani in piazza d’una giovane
trovata, or son tre notti, su la riva
a San Giovanni in Bràgora, svenuta;
e che sarebbe stata accolta, dice,
dalle Carmelitane ….
DELFINO
Alvise, è lei!
Bisogna andare a prenderla ….
ALVISE
Più tardi si vedrà.
rivolgendosi di nuovo a Luca
Come entrerà Rinieri, te ne andrai.
LUCA
I figli di Zuane Fusinèr
– Dio l’abbia in gloria – sono i miei padroni,
come fu lui.

(Qualcuno ha spinto la porta, da fuori, per entrare. E certo Rinieri. Preso da subitaneo timore, Delfino arretra verso il camino, e si appoggia all’angolo della tavola. Alvise apre, e Rinieri entra impetuosamente. Luca esce e chiude.)
RINIERI
Dov’è?
ALVISE
T’attendevamo.
RINIERI
Contarina, dov’è?
ALVISE
Là dentro, chiusa
in quella stanza.
RINIERI
Che le avete fatto?
ALVISE
T’attendevamo, ho detto. Or se ne parla.
RINIERI
Voglio vederla, sùbito.
ALVISE
S’intende,
la vedrai. Ma dal modo come tratti,
parmi sarebbe meglio c’intendessimo
prima fra noi.
RINIERI
C’intenderemo dopo.
ALVISE
Meglio prima.
RINIERI
La chiave di quell’uscio,
e non parole.
ALVISE
E s’io te la negassi?
DELFINO
(timoroso)
Alvise.
RINIERI
(a Delfino)
In quanto a te, per non avere
ancor vent’anni, già prometti bene!
(ad Alvise)
Dammi la chiave, e uscite.
ALVISE
Io mi domando
se quello che ci parla é veramente
nostro fratel Rinieri, e se Rinieri
ha in petto un cuore d’uomo, oppur ...
RINIERI
Rinieri
sa lui quel ch’è da fare. A me la chiave.
(Alvise getta la chiave sui tavolo, e Rinieri la prende.)
E nessuno osi entrare s’io non chiami.
ALVISE
Bada però che sto di fuori. E bada
che nessuno uscirà ch’io pur non voglia.

(Passando, a testa bassa, davanti a Rinieri, Delfino esce per primo. Alvise prende di sul tavolo il suo mantello, ed esce indietreggiando e tenendo gli occhi fissi sul fratello maggiore, con espressione di sdegno e di corruccio, ma più ancora di stupore. Rimasto solo, Rinieri chiude la porta. E va per aprire l’uscio della stanza ove Contarina è stata rinchiusa. Ma fatti due tre passi si arresta, quasi sopraffatto dai sentimenti che nel suo cuore contrastano e combattono. Finalmente si decide. Apre l’uscio e si trae da parte, venendo a trovarsi, a destra di chi esca dall’uscio, nell’angolo più buio dello stanzone.)
CONTARINA
No, non entrate! No, per carità!

(Nessuno le risponde, nessuno entra. Correndo, Contarina esce dalla camera, vestita di bianco, come alla festa in Ca’ Grimani, ma con uno scialle nero, frusto e stinto, sulle spalle. Si ferma, che è quasi nel mezzo della stanza, e guarda intorno. Non vede, nell’ombra dietro a lei, Rinieri Respira faticosamente, quasi gemendo, per il terrore e la speranza che insieme la agitano. Raccoglie le sue forze e corre sino alla porta, e la scuote per aprirla. A un movimento di Rinieri, si volta di scatto, vede, là in fondo nell’ombra più scura, un uomo. Quasi vergognandosi del terrore prima dimostrato, si irrigidisce e si impone la calma.)
CONTARINA
Chi c’è là in fondo? Alvise, siete voi?
Rispondetemi dunque!
Che finalmente io sappia
che si vuole da me, perché son qui,
e quando si vorrà lasciarmi libera.
Uditemi s'io vi chiedo solamente
di ricondurmi a casa;
e vi prometto in cambio
perdono e impunità.
Perché. badate,
voi giocate la vita sol per perderla!
Perché sono una Orsèolo, e mio padre
é l’uomo più potente di Venezia.
Apritemi la porta, io voglio uscire!
Non prego più, comando.

INIERI
Gridare qui non serve! Né momento
quest’è di dar comandi. E il vostro nome
superbo non ha qui più suono ed eco
d’uno stormir di fronde o del belato
d’un agnellino.

(Contarina ha udito le parole dure e sprezzanti di Rinieri stando appoggiata con la schiena alla porta. Brancicando con le mani dietro la schiena fa ancora un tentativo per aprire.)
RINIERI
È chiusa!
Perché devo parlarvi, devo. E poi …
E poi, quel che dev’essere sarà.
CONTARINA
Rinieri …. No! … Rinieri ….
Allora gli altri, i vostri due fratelli ….
Quest’è dunque un’infamia
comandata da voi….
(Rinieri avanza di un passo verso Contarina.)
No. non movetevi ….
RINIERI
Contarina ….
CONTARINA
(Corre sino al tavolo, strappa dal grosso pane il coltello che v’era conficcato, e lo impugna e lo alza minacciosa.)
Se fate ancora un passo
incontro a me, m’uccido.
Ora comprendo.
Quando a quei due chiedevo
ragion del rapimento
«lo saprete più tardi», mi dicevano.
Or comprendo. Sentivano vergogna
di voi ancora più che di sé stessi.
Ed io che vi credevo un onest’uomo
Il Nobiluom Rinieri Fusinèr!
(Ride, di un amaro riso, che vuol essere superbo e sprezzante.)
Ha ragione mio padre: non si compra,
la nobiltà; s’acquista con il sangue.
Ed io che dello scherno
con cui mio padre accolse un vostro messo
ebbi quasi dolore!
Mio padre, egli sapeva
quel che si nascondeva sotto l’abito
del gentiluomo. Ed ora anch’io lo so.
E d’esser stata un tempo, da bambina,
l’ignara e confidente vostra amica
e compagna di giochi or mi vergogno,
ed ho quasi ribrezzo che le vostre
mani m’abbian toccata ….
RINIERI
(in un involontario, ma incontenibile slancio di dolore appassionato)
Su le braccia,
su le mie braccia un giorno vi portai!
CONTARINA
Voluto avesse Iddio che in quella notte
fossi morta bruciata tra le fiamme,
più tosto che da voi ne fossi tratta,
serbata a questo oltraggio. Ma il mio padre
si chiama Marco Orsèolo,
potente quanto il Doge, e mio fratello ….
RINIERI
No, quello no, lui no, non nominatelo!
CONTARINA
Lo so che voi l’odiate. E anch’egli v’odia.
Tanto odia voi quant’ama sua sorella.
V’ucciderà. Marino ucciderà
Rinieri ….

(Lo sforzo, troppo superiore alla sua natura e troppo contrario al suo segreto affetto, l’ha fiaccata. Si sente venir meno, e non può più frenare il pianto.)
RINIERI
Udite….
CONTARINA
No, non vi movete,
o m’uccido. Ma che v’avevo fatto
di male, perché aveste a ripagarmi
così? Poteste dunque voi pensare
di conquistar con frode e violenza
il cuor di Contarina
O Santa Vergine,
Vergine dei miracoli, aiutatemi
No, no, non, vi movete. No, vi supplico.
Per amore di Dio … Pietà, pietà ….

(Si accascia sui ginocchi, davanti al tavolo, appoggiate sul tavolo le braccia, e sulle braccia la testa e piange: un pianto, più che di donna, quasi di bambina.)
RINIERI
Guardandovi e ascoltandovi, ecco, ho visto
e udito il fiero sdegno, e le sferzanti
rampogne, e l’inumano strazio e affanno,
e il pianto supplichevol di Cecilia
mia sorella, davanti a quell’infame
ladro di donne ch’è Marino Orsèolo,
vostro fratello.

(Egli non ha finito di pronunciare il nome di Orsèolo, che Contarina scatta in piedi, e, puntando le mani sul tavolo, gli occhi slargati dall’orrore, grida)
CONTARINA
No, no, non é vero!
Voi mentite, mentite!
RINIERI
Or son due notti,
tra Murano e Venezia, a tradimento,
strappata a due fedeli vecchi servi
che avrebber dato il sangue per salvarla,
Cecilia mia sorella fu rapita
da Marino e da tre suoi degni sozi…
Quel che fu poi di lei, ancor non so.
Ma di lui, di Marino, tutti sanno.
Compiuta la prodezza, egli fuggi
complice della fuga
il venerando vostro padre…
CONTARINA
No…
Non ditemi più altro…
(tremante)
E allora voi…
Perché m’avete fatto portar qui?
Che si vuole da me?
(Vacilla, sta per cadere. Rinieri fa l’atto di slanciarsi, per sostenerla.)
No, no, no, no…
RINIERI
Non venni per offendervi.
Venni – e ringrazio Dio che non fu tardi –
per liberarvi, ancor ch’io più non possa
annullare l’offesa a voi recata
dai miei fratelli, ingiusta, sì, ma umana.

(Contarina si è lentamente scostata dal tavolo, e si trova vicino al camino, presso la scranna, su la quale si abbandona, affranta.)
RINIERI
Tra poco quella porta s’aprirà
davanti a voi, e ne uscirete libera;
tornerete alla casa onde strisciarono
incontro a me e ai miei l’odio e il delitto.
Vi tornerete, qual ne usciste, pura.
Vi chiedo in cambio solo una parola
una parola umana di pietà
per quest’uomo ch’è l’uom più sventurato
fra quanti mai vedeste. E non chiedo altro
tenue mercede a un dono senza pari.
Tenue mercede, sì: perché di tutti
il più profondamente e atrocemente
colpito qui son io! Perché l’Orsèolo
che in mia sorella offese ed oltraggiò
il mio sangue e il mio nome, ha pure ucciso
la speranza che m’era luce e ardore.
Perché son io. Rinieri, io, io, lo stesso
che per trarvi, una notte dalle fiamme
su le braccia vi prese e vi portò
io che il tepore so del vostro corpo,
e il profumo di quei capelli d’oro,
e il desio che d’allora mi distrugge.
Ed io, io quel medesimo d’allora,
or v’ho dinanzi a me, voi sola inerme
di fronte a me d’umano strazio armato
e d’un crudo, inumano, e pure sacro
diritto di vendetta. E potrei stringervi
fra le mie braccia ancora;
e su codesta dolce bocca premere
queste riarse labbra appassionate;
prendervi, farvi mia, sentirvi mia,
mia, mia…

(Involontariamente Rinieri si è avvicinato alla fanciulla, tendendo nell’ardore del suo affannoso desiderio, verso di lei le braccia. Ma in lei, che durante le ultime parole della invocazione disperata ha alzato la testa a guardare, con occhi pieni di amore e insieme di terrore; in lei egli vede ora una sì struggente implorazione di pietà, che, quasi vergognandosi di aver troppo ceduto al suo trasporto, egli indietreggia e tace, per dire poi le altre parole che voleva dire con voce non meno commossa ma più grave.)

Or se di qui
uscirete non tocca, immacolata
come quando qui entraste, non virtù
sdegnosa e altera avrà fatto a voi scudo,
ne il pianto, ne le supplici preghiere,
ne la pura beltà, ne lo splendore
de’ vostri occhi di cielo; ma soltanto
v’avrà salvata il disperato amore
d’un uom che, soffocando nel suo petto
l’appassionato ardore ond’ei viveva,
vi chiede, ultimo dono per la torbida
sua sera, una parola di pietà.
CONTARINA
Che dovrei dirvi, povero Rinieri?
Non le parole, solo i fatti contano!

(Silenzio. Il rombo del mare e il vento che ulula e sibila tra gli alberi e gli sterpi. Ed essa guarda davanti a sé e rivede ciò che era e non sarà più, e vede la presente rovina e la disperata desolazione della vita che le avanza. Sottovoce, parla a sì stessa.)

Le strade erano due, ma non diverse.
Potea dall’una il pellegrin guardare
al suo compagno, che il fatal viaggio
compia su l’altra: e lui con muto augurio
seguitando, se stesso confortava.
Che la segreta timida speranza
di ritrovarsi alfine a un punto solo
bastava a entrambi, cui vietato udirsi,
ma dato era d’intendersi per gli occhi.
Le strade erano due, ma non diverse.
Ha tremato la terra, tutt’intorno
s’è aperto il suolo in baratri profondi.
Non v’è più strada, non v’è più sentiero.
Nessun risponde. Il mondo è nero e muto.
La pellegrina, misera, smarrita,
cade a ginocchi, e implora: O Dio Signore,
libera me da questo orrore! Manda,
a liberarmi, l’Angel della Morte.
Voi non dovete più pensare a me,
Rinieri, se non sia per compatirmi,
e se un dì lo possiate, e Dio v’aiuti,
per perdonare…. a tutti.
(Si alza, stanca, affranta)
Ed ora… Addio.
RINIERI
Aspettate. Color che qui vi trassero,
essi stessi dovranno ricondurvi.
(Si avvia per andare a riaprire la porta. Contarina ha un moto di timore.)
Non temete di nulla. Iddio vi guarda.
Nessuno potrà più farvi alcun male.

(Va alla porta e l’apre. Entrano subito i due fratelli: e sembra siano spinti dentro dal vento che si è nuovamente levato forte e ululante. Delfino, passando a testa china davanti a Rinieri, va a porsi presso l’uscio della camera ove Contarina fu rinchiusa; Alvise richiude la porta e vi si appoggia con le spalle.)
RINIERI
Non vuol scemare il vento?
(Nessuno dei due risponde)
Or voi, con Luca,
calerete la barca grande in acqua,
e a Venezia addurrete, anzi che annotti,
Madonna Contarina.
DELFINO
Se tu pensi…
ALVISE
(a Delfino)
Non tocca a te rispondere per primo.
Rimànti fermo e zitto. Or tocca a me.
RINIERI
(con voce più ferma ed autorevole)
Ad uomini d’onore quali furono
insino a ieri i miei fratelli, affido
la vita e insiem l’onore
di Contarina Orsèolo.
ALVISE
Hai finito?
E la vita e l’onor di tua sorella,
a chi li affiderai?
RINIERI
Soltanto Dio
esserne or può custode e difensore.
Ma per chiedere a Lui ciò ch’ Ei sol può,
degni dobbiam noi farci del Suo aiuto!
ALVISE
Lo so, che sei maestro di parole.
Ma non serve, con me, far bei discorsi.
Cosi come il fratel di Contarina
ci portò via Cecilia, io volli avere
costei in mio potere. E qual Cecilia
ci sarà resa, io tale renderò
l’ostaggio prezioso.
Ascolta ancora.
Giovedì notte, a San Giovanni in Bràgora,
svenuta su la riva, fu trovata
una donna ferita.
Pietosamente accolta dalle monache
Carmelitane, è là, da quella notte,
delirante, se pur non è già morta.
Se, com’ io credo, ell’è nostra sorella,
cui Dio teneva in sua santa custodia,
vo’ che contro di me costei non abbia
nessun altro custode o protettore.
RINIERI
Tu ragioni da bruto!
ALVISE
E tu parlasti
da vigliacco…
RINIERI
Per Dio
ALVISE
Sì, da vigliacco.
RINIERI
Riapri quella porta.
ALVISE
No.
RINIERI
Riaprila!
ALVISE
Vieni ad aprirla tu, se sei da tanto.
RINIERI
E sia !

(Si avventa contro Alvise, e lo abbranca per un braccio. L’altro si divincola, e corre al tavolo e afferra il coltello depostovi da Contarina. Sul focolare, dietro le spalle di Rinieri, un fascio di sarmenti ha preso fuoco, improvvisamente. Nella luce di quella fiamma Delfino vede – e forse c’è veramente – la mamma, un’ombra più lucente della vampa.)
DELFINO
No, no! Rinieri… Alvise, guarda…
Alvise, guarda là… La mamma… Alvise…
CONTARINA
Rinieri, Alvise, no… Siete fratelli!
RINIERI
Quel che ha diritto, qui, di comandare,
son io, Rinieri. A voi spetta obbedirmi.
Ma se pazzo tu sei, pur contro te
difenderò costei…
ALVISE
(a Contarina)
Nostra sorella
non ebbe, per difenderla, il suo amante…
RINIERI
(tentando liberarsi da Delfino, che gli si è avvinghiato alle spalle)
Ringoia quell’ingiuria, o ch’io ti stronco!
CONTARINA
Se voi credete a ciò che avete detto,
colpite me, soltanto me. Colpitemi…

(Qualcuno ha bussato alla porta. Picchi forti e spessi. I quattro hanno udito, e ognuno di essi rimane sospeso. Rinieri ha la subitanea intuizione di un pericolo grave: si volta, sta in ascolto. Alvise ha il tempo, in quei pochi istanti di sospensione e di oscuro stupore, di sentire l’orrore del suo atto.)
ALVISE
(ponendo una mano sulla testa di Delfino che non può soffocare il pianto, ma piange singhiozzando come un bambino)
Non piangere, Delfino…
DELFINO
Ha voluto tornare per salvarci,
povera mamma…
ALVISE
Ora è passato… Guarda…
(E getta il coltello sul focolare. Si riodono ancora più forti, i colpi alla porta.)
LA VOCE DI LUCA
Messer Rinieri, aprite, aprite presto…
(Rinieri apre, e Luca entra richiudendo la porta.)
LUCA
Sono in vista due barche, ad otto remi.
Foste spiato, certo… E vi seguirono.
RINIERI
Lazaro e Nicolò?
LUCA
Han ritirato
la vostra barca in secco, ben nascosta
fra i giunchi. Siamo pronti ad ogni cosa.
RINIERI
Corri, presto, raggiungi i tuoi compagni.
(Luca sta per andare. Rinieri lo prende per un braccio e aggiunge: )
Per trattenere Orsèolo ed i suoi
per pochi istanti, non per altro, intendi?
(Contarina ode pronunciare il nome di suo padre, e sussulta.)
RINIERI
(mentre Luca sta per uscire)
Che nessuno di voi faccia uso d’armi!

(Luca scompare correndo. La porta rimane aperta. Il vento s’è fatto più forte. Di tanto in tanto lampeggia. È quasi il crepuscolo.)
RINIERI
(Si accosta a Contarina e la prende amorevolmente per un braccio.)
Contarina, vi prego, rientrate
in quella stanza.
CONTARINA
No,
non voglio.
RINIERI
Non per noi;
per voi soltanto.
CONTARINA
No, voglio restare.
Non temete per me. Devo restare.

(Ormai sarebbe troppo tardi per qualsiasi tentativo di fuga. Si odono già le voci alte e concitate dei famigli di Orsèolo e le voci dei tre barcaioli di Ca’ Fusinèr, che invano tentano loro opporsi.)
LE VOCI DEI FAMIGLI DI ORSÈOLO
Là in fondo: il casolare è quello…
LE VOCI DI LUCA E LAZARO E NICOLÒ
Indietro!
LA VOCE DI ORSÈOLO
Voglio passare. In nome della legge!
LA VOCE DI LUCA
Non vi conosco. Voi non siete il Doge.
Nè siete il Missier Grande.
LA VOCE DI ORSÈOLO
Sono il Capo
del Consiglio dei Dieci: Marco Orsèolo!
Fate largo, lasciatemi passare…
CONTARINA
Vergine Santa, assistici ed aiutaci!

(Appare sulla soglia della porta il vecchio Orsèolo, a capo scoperto, i bianchi capelli scompigliati dal vento. Guarda dentro, e nella scarsa luce dello stanzone vede, là presso il camino, la sua figliuola. Si volge indietro e grida:)
ORSÈOLO
E qui, è qui! Chiamate gli altri quattro.
CONTARINA
No, padre, no… Voi solo… Io devo dirvi…

(Come il vecchio s’è scostato dalla porta per chiamare la sua gente, Luca e gli altri due barcaioli di Ca’ Fusinèr hanno prontamente occupato il vano rimasto libero, e contendono l’accesso ai due famigli di Ca’ Orsèolo che hanno accompagnato il padrone precedendo gli altri.)
ORSÈOLO
Contarina! Figliola mia! Tuo padre
è qui, per liberarti e vendicarti.
Quei tre banditi avran degno castigo!
Alle colonne! A morte tutt’e tre!
CONTARINA
No, padre, no…
Lasciatelo passare!

(Luca e gli altri due si fanno da parte, e lasciano libero il passaggio a Orsèolo, che riappare sulla soglia, ora tutto nero sullo sfondo livido del cielo tempestoso, ora illuminato dalla luce del lampi. Contarina corre a lui, ed egli le apre le braccia e la stringe al suo petto. Contarina chiude la porta. I tre fratelli non muovono un passo, come impietrati.)
CONTARINA
Uditemi… Nessuno deve offendere
costoro. Rimandate quella gente!
ORSÈOLO
Dio protegge color che ne son degni!
E di tutti il più forte è ancora Orsèolo!
CONTARINA
Nessun di loro m’ha fatto del male…
ORSÈOLO
La tortura e la morte a tutt’e tre!
CONTARINA
Padre, in nome di Dio, non aggiungete
nuove colpe a quell’altra che sapete.
Ricordatevi, padre, di Marino…
ORSÈOLO
Anche in nome di lui, vo’ che costoro
sian torturati e condannati…
CONTARINA
Ah no
Per la memoria santa di mia madre,
vi giuro che se voi fate arrestare
costoro…
ORSÈOLO
Alle colonne!
CONTARINA
Davanti a tutti e a voi io grido, grido,
che Contarina Orsèolo è venuta
da se…
ORSÈOLO
Che vuoi tu dire?
CONTARINA
Grido a tutti
che son venuta io stessa, qui, da lui,
per lui, Rinieri, io stessa, io, io, perchè
gli voglio bene, io stessa, perchè l’amo! …

(Come percosso da una mazzata sul capo, Orsèolo vacilla, annaspa, e cade sui ginocchi. Contarina corre a lui. Egli tende un braccio, terribile, ad allontanarla.)
ORSÈOLO
No, no! Va’ via, va’ via! Voglio piuttosto
morire solo! Io solo, solo, solo!

(Risollevatosi a stento, barcollando, e brancicando la porta con le mani tremanti, ha trovato il paletto e apre. Una folata di vento furioso irrompe nella stanza. Il vecchio esce, senza più voltarsi indietro. Rumore indistinto di voci, fuori, che si fa via via più debole e lontano. E poi, nel silenzio, soltanto il sibilare del vento e il mugghiare delle onde. Alvise s’è avvicinato a Contarina e si toglie il berretto.)
ALVISE
Vi prego, perdonate. Io non son altro
che un pover uomo rozzo ed ignorante.
CONTARINA
Vorrei esser condotta… Ohimè !… Vorrei…
Alle Carmelitane…

(Rompe in pianto, e si abbatte piangendo sul tavolo, la testa sulle braccia distese.)

La scena si chiude.

ATTO TERZO

QUADRO I

Nel convento delle Carmelitane. Una grande sala nuda, una specie di loggia a volta, chiusa da tre lati, e dal quarto aperta verso un porticato quadrato che chiude un giardino. Due panche addossate alle pareti laterali e due seggioloni nel mezzo della sala. Un crocifisso nel mezzo della parete a destra, sopra una bassa porticina chiusa.
È una mattina di maggio. Il giardino è tutto fiorito di rose e gigli. Una monaca entra, dal porticato, seguita da Rinieri. Gli fa cenno di accomodarsi su uno dei seggioloni, china lievemente il capo, si allontana. Rinieri rimane in piedi, in attesa. Alcune monache passano in fondo, sotto il porticato.
Entra la Madre Superiora.
LA MADRE SUPERIORA
Sia benedetto il nome di Gesù.
RINIERI
Sia benedetto. Voi sapete…
LA MADRE SUPERIORA
So.
Monsignore mi disse.
Il Signore esaudito ha le preghiere
di colei ch’or è l’anno ci lasciò.
Egli, che quella pia salvò dall’onta,
conceder volle al tristo che l’offese
d’espiare la grave colpa. Or sono
entrambi in pace, forse.
Ma pace, certo, invocan tra i lor prossimi
che sono in terra, un contro l’altro armati.
RINIERI
Per me, ben posso assicurarvi, Madre,
che nel mio cuore ogni rancore è spento.
Così ne fosse sgombro
il duro cuor d’Orsèolo!
LA MADRE SUPERIORA
Lasciate
giudicare a chi può!
RINIERI
Sa, Contarina,
della morte di suo fratello?
LA SUPERIORA
Sa.
Sa che da valoroso offrì la vita
per la gloria di Dio e per l’onore
della sua patria contro gl’Infedeli.
RINIERI
Anche sa del decreto del Senato?
LA SUPERIORA
Le fu accennato. Il più saprà da voi.
RINIERI
Ma ch’io sarei venuto per parlarle,
le fu detto?
LA SUPERIORA
Perciò poteste entrare.
RINIERI
E che diss’ella, udendo il nome mio?
(La Madre abbassa gli occhi, non risponde.)
Perdonatemi, Madre.
LA SUPERIORA
Eccola, è lei.

(In fondo, sotto il porticato, appare Contarina; vestita di una veste nera, quasi monacale, che dà risalto al candore perlato del volto e delle mani. La Madre Superiora si avvia ad incontrarla: le porge la mano, che la fanciulla devotamente bacia, le addita Rinieri, e si allontana e scompare. Contarina entra, e si ferma a pochi passi da Rinieri, entrambi in piedi. Un lungo silenzio.)
CONTARINA
Gli avete perdonato?
RINIERI
Avrei potuto,
io, presentarmi a voi con odio in cuore?
Se la colpa di lui fu grave, ei seppe
nobilmente espiarla.
CONTARINA
È dunque vero,
che da tutti ignorato l’esser suo,
duramente servì per tutto un anno
com’uom di ciurma?
RINIERI
È vero. Il proprio nome
sol palesò quand’era per morire.
Ucciso da una palla il Loredàn,
e allor che, sbigottiti, i combattenti
stavan già per arrendersi, Marino
avea preso il comando della nave
e vòlto la battaglia in favor nostro.
Quando, stroncato in mezzo dallo scoppio
d’una bombarda, l’albero maestro
piombò sopra di lui, gli squarciò il petto,
e lo stese morente sovra il ponte,
la vittoria splendévagli negli occhi
e gli cantava intorno inni di gloria.
Disse allora il suo nome, e poi spirò.
Morte degna dei nome ch’ei portava.
CONTARINA
Grazie, Rinieri.
RINIERI
Ho ancor da dirvi d’altro.
Ier mattina, mandate dalla Suda,
son pervenute al Doge due reliquie
di Marino: la spada ed il berretto.
Per decreto dei Dieci e del Senato
saranno esse recate entr’oggi a Orsèolo
da dieci cittadini, uno dei quali,
quel che di propria mano dovrà porgerle
al vecchio padre, ha nome Fusinèr.
Non è, potete credermi, ch’ io tema
l’ira di vostro padre.
Ma vorrei — perciò chiesi di parlarvi –
vorrei che a quel mio atto consentisse
prima d’ogni altro il cuor di Contarina.
Viàtico, il suo consenso, a un altro viaggio
ché domani per Candia io salperò.
Il mio posto ora è là, dove Venezia
difende il proprio onore, e quella gloria
che già fulgida un dì, va declinando
tra fosche e dense nubi al suo tramonto.
CONTARINA
Disperate anche voi?
RINIERI
Non lo vorrei!
Ma la gloria è dei puri. E i Veneziani,
ahimè, non son più tali.
Non perciò risparmiar vorrò la vita.
Se è scritto che si spenga la Repubblica,
forse novella un’era sorgerà
di più profondo amore e di giustizia
tra gli uomini. Io, per me, non altro chiedo
che di lasciare esempio d’obbedienza
al dovere. Se pur di me ricordo
resterà vivo in qualche cuor gentile.
(A testa bassa, silenziosamente, Contarina piange.)
Contarina, piangete? Perdonatemi.
No, no, non perdonatemi.
Perché quel che v’ho detto ancor direi,
pur di veder codesti occhi di cielo
pianger per me, tosi, pianger d’amore!
Contarina, mio cuore, anima mia!
Se nel tremore delle vostre labbra
aleggia, per uscirne, una parola
che da tant’anni invoco e aspetto e spero,
oh, siate a lei e a me pietosa: ditela!
CONTARINA
Cessate, ve ne supplico,
di tormentarmi. O non sentite dunque
ch’ogni vostra parola mi ferisce?
E ch’entrambi facciamo gran peccato,
voi che così parlate, io che v’ascolto?
Meglio sarebbe stato il non tornare,
meglio lasciarmi creder che scordata
m’aveste; ancora più, che m’odiavate;
più tosto che distruggere d’un tratto
la pace in cui vivevo.
RINIERI
No, no, non posso credere
che voi viveste in pace s’io vivevo
in aspra guerra contro il mondo intero,
perché tutto era avverso a quell’amore
che al vivere m’è più che l’aria e il sole.
Qual’ è il vostro peccato, il mio, il nostro?
Ingiusta siete, e ingrata. Ingiusta, sì
perché tutto che in me v’ha di più puro
dall’amore procede ch’io vi porto.
E ingiusta siete, si: ché solo amore
poté più del desio in quella sera
che v’ebbi alla mercé del mio volere.
Ma se in quest’anno tanto il vostro cuore
da me s’è allontanato ch’io per voi
non son più che un viandante senza volto,
ditelo. E se altra volta, in quella sera
tremenda, voi mentiste i1 sentimento
che agli accenti pareami sì verace,
ditelo: che mentiste, e che voi pure,
superba ed implacabile e inumana
tal quale vostro padre, voi m’odiate!

(Colpita nel più profondo del cuore, Contarina non ha più la forza di reggersi: vacilla, sta per cadere. Rinieri corre per sostenerla, ed essa si abbandona sul suo braccio, singhiozzando perdutamente.)
RINIERI
No, Contarina! Io, sono ingiusto e ingrato!
Non piangete così… No, Contarina.
CONTARINA
(frenato il pianto, con triste dolcezza:)
L’aver trafitto io stessa il cuor d’Orsèolo,
e un anno di rimorso e amaro pianto,
non bastavano dunque a farti certo
che Contarina ti vuol bene, t’ama?

(Silenzio. La pienezza dell’emozione impedisce ai due giovani, per qualche momento, di parlare.
Rinieri accarezza lievemente la fanciulla sui capelli.)
RINIERI
Oh, quanta pace, in questo asil romito!
Se la vita finisse, ora, così….
Come ti batte il cuore, anima mia!
Odi il ronzio delle api: pare un canto.
Le rose e i gigli e il sole le fanno ebbre.
Venezia e Contarina.- dolci nomi.
Ma per me Contarina, e in esso é il mondo.
il mio cielo e il mio mare e la mia terra,
e il mio amore davanti a Dio….
(Tremante di appassionato desiderio, avvicina la sua bocca a quella dell’amata.)
Vuoi? Vuoi?
CONTARINA
Miseri noi, Rinieri, entrambi miseri.
“Voi non dovete più pensare a me”,
ti dissi in quella sera, là, nell’isola.
Non lo potemmo, e non fu, mal volere.
Ma là dove il tuo nome sarà solo
Rinieri, e il mio soltanto Contarina,
e nulla più, soltanto là potrà
fiorire il nostro amore.
RINIERI
Io vo’ umiliarmi
ai piedi di tuo padre.
CONTARINA
Iddio t’assista.
RINIERI
Disperare non voglio.
CONTARINA
Iddio t’assista.
(Si scioglie dall’amoroso abbraccio, si scosta di un passo.)
Addio, Rinieri.
RINIERI
Non t’allontanare.
Rimani lì, così, fissi i tuoi occhi
nei miei. Così: mio cuore! anima mia!

(Con dolce violenza Rinieri ha fatto fermare Contarina presso il seggiolone così da poter mirare gli occhi di lei mentre indietreggiando verso il portico egli si allontana e scompare.)

La scena si chiude.

INTERMEZZO

La scena si riapre.

Un tratto della Riva degli Schiavoni, vista dalla laguna. Mattina serena e radiosa; luce piena.
Tutto il popolo è sulle rive e le piazze per vedere il passaggio della Processione che al seguito del Doge e del Patriarca, incontrati e accolti allo sbarco il Capitan da Mar e gli altri Comandanti del naviglio da guerra, si recherà alla Salute a cantare un Te Deum di ringraziamento e di esultanza per le recenti vittorie contro i Turchi.
Nell’attesa, gruppi di uomini si son qua e là formati che giuocano ai dadi. Una giovane donna, seduta per terra, che ha in grembo un bambino di sei o sette anni e intorno un gruppo di dieci o dodici bambini, dai sette ai nove anni, racconta:
UNA GIOVANE MADRE
E tutto qui d’intorno non c’er’altro
che acqua, acqua soltanto. E allora vennero
i primi Veneziani antichi, e dissero
Su questo, ch’è il più bel mare del mondo,
faremo una città.
E fecero Venezia, con le chiese,
e i palazzi,….
I BAMBINI
…e le rive, – e i ponti,…
LA GIOVANE MADRE
….e tutto.
E allora ognuno disse che Venezia
era di tutte la città piú bella….
I GIOCATORI
Due. – Quattro. – Doppio sei; partita vinta!
– Ma lascia almen vedere. – E allunga gli occhi,
o metti un par d’occhiali — Un’altra. – Toni.
smettila. – O tu, che sei
suo padre o il suo tutore? La fortuna
è di chi la rincorre e sa pigliarla.
– Toni, sta in guardia! – Bada ai fatti tuoi.
– Se c’è chi vuol scommettere
per Toni o per il Rosso, io tengo banco.

(Udendo l’alterco dei giocatori, la giovane madre ha interrotto il suo racconto e si è voltata ad ascoltare. Alcuni dei bambini le si stringono più vicini, quasi intimoriti s altri la guardano attendendo che ella prosegua.)

(Or che i giocatori si son chetati, fa un gesto tra la disapprovazione e l’indulgenza, e si volge nuovamente ai bambini.)
I BAMBINI
– Ancora, Cate…. – Ancora….
LA GIOVANE MADRE
Ognuno dunque vide che Venezia
era di tutte la città più bella.
E allora venne voglia ai forestieri
di prèndersela loro.
Vennero giù dai monti della neve
i barbari feroci, e d’oltre mare
i levantini ladri.
E tutti gli anni c’erano battaglie.
Ma i veneziani dissero: Venezia
è per le nostre donne e i nostri figli.
e contro i Veneziani non c’è barba
di foresto che mai potrà spuntarla.
Venezia grande e bella è tutta nostra.
I BAMBINI
Anco nostra?
LA GIOVANE MADRE
Anco vostra, benedetti.
IL BAMBINO CHE LA GIOVANE MADRE HA IN GREMBO
Anco mia?
LA GIOVANE MADRE
(sorridendo e stringendosi al petto il suo piccolo)
Anco tua, stellina d’oro.
I GIOCATORI
Ah, ladro! – O che ti piglia? – Ho visto, ho visto.,..
– Smetti o ti rompo il muso. — È vero, è vero,
ha tratto fuor di tasca un altro dado…
– Tu bada ai fatti tuoi, vecchio balordo!
— Rendimi il mio denaro…
ALCUNI VECCHI
Figli, udite!
Udite le campane.
(Si odono infatti chiari e solenni i rintocchi di una grande campana lontana.)
IL POPOLO
È il segno, è il segno!
LE DONNE
O Cate, vien, vien qui con quei ragazzi.
– O Barbara, Lucia, venite avanti.
I VECCHI
Il Patriarca uscito è di San Marco
e incontra il Doge in Piazza.
UN GRUPPO DI GIOVANI
Ecco il cannone.
La galèa capitana entrata è in porto,
e il Capitan da Mar or scende a terra.
TUTTI
– Viva San Marco!

(Per ben vedere il passaggio della Processione del vittoriosi, ognuno or cerca di prendere un buon posto, spingendo i vicini da parte, o indietro verso l’acqua.)
IL POPOLO
Indietro, voi, indietro
trovatevi altro posto.
– Le strade e i ponti e i rii sono di tutti.
– Qui siam padroni noi, noi Castellani.
– Padrone del tuo letto, se n’hai uno.
– Ahi, ahi, mi sfondi il fianco! – Screanzato!
– Chètati, gazza… — Indietro. – Non strillare.
(Due giovani, con uno spintone gagliardo, fan ruzzolare per terra uno di quelli che litigavano con le donne.)
– O villano malnato, va’ in malora.
(Il caduto subito si risolleva e chiama a raccolta i suoi compagni.)
– O Nicolotti, a noi!
E abbasso i prepotenti. Ai pugni, ai pugni
I Castellani all’acqua!
I NICOLOTTI
«Se nasse un Nicolotto, nasse un Dio!»
I CASTELLANI
Un tanghero, un villano….
I NICOLOTTI
….« nasse un Dio!»
LE DONNE
(beffeggiando i Nicolotti)
Tangheri! – Vagabondi! – Castragatti!
I NICOLOTTI
«Se nasse un Castellan, nasse un bandio.»
«Se nasse un Nicolotto, nasse un conte….»
I CASTELLANI
«Se nasse un Castellan, nasse un castèlo.»
I NICOLOTTI
«Se nasse un Castellan, l’è un pianta forche.»
(S’odono lontani squilli di trombe)
UN GRUPPO DI VECCHI
Son qui, son qui, son qui,…. Viva San Marco!
Vengono i vittoriosi! Giù, in ginocchio!
Tutti slam figli d’una stessa madre.
Viva Venezia! Viva la Repubblica!

(Tutti hanno udito gli squilli. La contesa è subito finita. Eran parole. Ed ecco che un Nicolotto, preso da un improvviso slancio di fraterno affetto, va verso il gruppo avversario e tende le braccia: e uno del Castellani risponde alla sua intenzione e lo abbraccia; e un altro, e un altro ancora fanno il medesimo; e tutti si inginocchiano, e una dolce commozione invade e consola gli animi.)
TUTTO IL POPOLO
O Venezia, Regina del Mare,
benedetta nel segno di Cristo,
leva in alto la fronte splendente
coronata d’alloro e di rose.
O possente, o gloriosa, o immortale!
(Risquillano più vicine le trombe, e appaiono sventolanti nel sole i vessilli della Serenissima. La Processione sopraggiunge. Tutto il popolo balza in piedi gridando:)
Alleluia! Alleluia! Alleluia!

La scena si chiude

QUADRO II

La scena si riapre.

Una grande maestosa sala nel palazzo di Marco Orsèolo. Un’ora avanti il mezzogiorno. Dalle finestre aperte, che guardano un grande canale e altri palazzi e giardini sull’opposta riva, entra chiaro e caldo il sole di maggio.
Due servi, un uomo e la balia levantina, stanno spolverando i mobili, sorvegliati da un altro servo – Zorzi – vecchio e curvo. Da sinistra appare Orsèolo, vestito dalla veste senatoria, con tutte le insegne del suo grado e delle sue dignità. Viene trascinando miseramente le gambe, sostenuto per le braccia da due servi. E due altri servi seguono portando un ampio seggiolone. Orsèolo non è ancora nel mezzo della sala, là dove è un grande tavolo di marmo, che da un altro uscio a sinistra entrano un uomo e un ragazzo, ciascuno con un fascio di rose e gigli su le braccia.
ORSÈOLO
(indicando col braccio tremante il tavolo)
Mettete qui. Li avete colti tutti ?
IL SERVO CHE È ENTRATO COI FIORI
Tutti, Eccellenza, sì.
ORSÈOLO
L’alloro?
IL SERVO
Alloro?
S’ha da tagliarne?
ORSÈOLO
(quasi iroso)
Tutto! Arbusti e siepe.

(I due servi che portavano il seggiolone l’hanno deposto presso il tavolo, a sinistra, e quelli che sostenevano Orsèolo aiutano lui a sedervisi.)
ORSÈOLO
Ormai, per chi s’avrebbero a far crescere?
Zorzi e la balia, qui.
(Il vecchio e la balia gli si avvicinano.)
Sopra la tavola,
spargeteli. Un guanciale, un letto.
Povero
Zorzi, sei vecchio e stanco.
Anche per correre
dietro alla morte è d’uopo essere giovani.
Da vecchi s’è costretti ad aspettarla.
E di nuovo con voce quasi irosa
Tutto l’alloro, tutto.
(Zorzi va ed esce, per dove già sono usciti il primo servo e il ragazzo.)
Alloro e fiori
per lui, ch’era il più giovane e il più prode
degli Orsèolo
UN SERVO
(or ora entrato da destra)
Il Nobiluom Michele
Soranzo chiede a Vostra Signoria
se può entrare.
ORSÈOLO
(con ironia amara)
Se può?
Anche a lui più non servono, le gambe?
Venga.

(Il servo va, per introdurre subito Soranzo.)
SORANZO
Salute, amico.
ORSÈOLO
Buon di.
SORANZO
Gran giorno, questo, per gli Orséolo.
ORSÈOLO
Si, per i morti.
SORANZO
Il Doge ha decretato
che mentre saran qui, per consegnarvi
quelle sacre reliquie, i cittadini
designati dai Dieci….
ORSÈOLO
(ombroso e ironico)
I cittadini?
Chi con essi?
SORANZO
… il corteo processionale
che andrà in San Marco per il gran Te Deum
sosti davanti a casa vostra: a rendere
onore di Marino alla memoria,
per tre volte i vessilli di Venezia
s’inchineranno.
ORSÈOLO
(Commosso)
Un nobil cuore ha il Doge!
SORANZO
Così s’inchini ognuno in suo pensiero
al giovinetto eroe, e ad esser degno
del sacrificio ch’egli di sé stesso
pel comun bene offerse alla Repubblica,
sgombri ognuno il suo cuore d’ogni mala
passione e d’ogni ingiusto
risentimento.
ORSÈOLO
È proprio un bel sermone.
E lo pensaste, voi, per me?
SORANZO
Orsèolo!
Da più d’un anno, chiusa in un convento,
una fanciulla v’è, del vostro sangue,
che anèla rivedervi, essere ancora,
come fu sempre, al fianco di suo padre,
per confortarlo, o piangere con lui.
Non vorrete, in un giorno come questo,
riaprirle le braccia?
ORSÈOLO
Concertaste
la cosa tutti insieme? Voi, mia figlia,
la Signoria, quegli altri…. Io vo’ sperare
di conoscere, un giorno, il vostro patto.
Allor comprenderò (se l’egra mente
d’un vecchio sia da tanto) come mai
non s’istruì il processo di Marino,
né fu tratto in giudizio quel bastardo
che m’offese: ne pur d’una risposta
degnò il Senato quella mia denuncia,
d’aver fatto fuggire, io, io, mio figlio.
SORANZO
Il Senato occultò quella denuncia,
per l’onor vostro.
ORSÈOLO
Per l’onor d’Orséolo?
Bastavo io a difenderlo! E a difendere
contro i provocatori anche mio figlio.
Un veneziano, lui, d’antica tempra.
Non come quei che scendono oggi a patti
con la gente volgare, alla Repubblica
infesta più dei turchi.
SORANZO
Non volete
dunque vederla? Non l’amate più?
Vi s’è fatto di pietra, dunque, il cuore?
ORSÈOLO
Che ne sai tu, di questo vecchio cuore?
Ferite già ve n’erano, anche prima.
Ma bastava un sorriso dei miei figli
a lenire ogni duolo.
SORANZO
La faccio entrate?
ORSÈOLO
Entrare?
Dov’è? Dietro quell’uscio?
Non vi stimavo tanto astuto.
SORANZO
Orsèolo!
ORSÈOLO
Non v’offendete!… Io son vecchio, e malato…

(Soranzo esce. Rimasto solo, Orsèolo si prova, impegnandovi tutta la sua forza, a sollevarsi e rizzarsi in piedi. Irrigidendo le braccia, attanagliate le mani al seggiolone, riesce a sollevare tutto il busto: ma come tenta appoggiarsi sui piedi, le gambe paralizzate gli si piegano, ed egli ricade d’un colpo seduto. Dà in un gemito cupo e reclina la testa avvilito.)
(Ed ecco, introdotta da Soranzo, entra Contarina insieme con la Levantina a lei abbracciata. Soranzo pone una mano su una spalla della fanciulla e le fa segno di andare dal padre. La balia, timorosa, vorrebbe trattenerla o non lasciarla sola.)
LA LEVANTINA
Ho paura, figliola.

(Soranzo la separa dalla fanciulla e le fa cenno di uscire. Ed essa esce, a ritroso: ed egli la segue, e richiude L’uscio.
Contarina sta un momento oppressa da un’angoscia che le mozza il respiro. Fa due, tre passi, ad ogni passo arrestandosi come esausta. Alfine l’affetto e la pietà le dànno anima e forza. E si slancia, ed è davanti al vecchio, e s’inginocchia, singhiozzando, la testa sulle ginocchia di lui. Orsèolo non s’è mosso. Ode il pianto della sua creatura, ma non stacca le mani dai braccioli dei seggiolone. Finalmente alza un poco la testa, e mentre il pianto della fanciulla va facendosi più sommesso, egli figge lo sguardo davanti a sè, negli aspetti di perdute felicità che il suo intimo strazio gli fa rievocare.)
ORSÈOLO
Un vecchio padre
altro non era, altro esser non chiedeva.
Perduta la sua donna, ormai la vita,
quel dono di speranze
che ad ogni nuovo sol si rinnovella,
la vita era per lui tutta nei figli.
Vedea la sua fierezza, egli, nel maschio,
verde virgulto d’un’annosa quercia
e vedea rifiorir nella fanciulla
la grazia della sposa inobliata.
Da fiero sdegno un folle error funesto
e perseguito il giovane conosce
l’infamia, ed il forzato esilio. E muore.
Muor gloriosamente, sì, ma, solo,
Forse la man di lui si tese a chiedere
nell’ora estrema un bacio, una carezza,
una parola. È solo. E muore.
E l’altra,
quella che avea negli occhi il ciel sereno
e nel suon della voce un canto d’angeli
l’altra, la più soave creatura
che mai fosse apparita in su la terra,
la sopra tutte amata, Contarina,
con solo una parola, da quei labbri
scagliata già sì casti e sì pietosi,
ha tradito il suo padre e l’ha stroncato
O tutti voi, viandanti che passate,
fermatevi e mirate a quale estremo
l’onta e il dolor ridotto han Marco Orsèolo!
Di forza e di fierezza egli era esempio
ai più forti e più fieri….
Un vecchio infermo….
CONTARINA
Padre, a mani giunte,
come si pregan Dio e la Madonna,
io v’imploro! Così non fate strazio
del vostro e del mio cuore. Io son tornata
per esser qual già fui, la vostra figlia
devota, e per non più lasciarvi. Padre,
o padre mio, guardatemi….
ORSÈOLO
Ho paura
di guardarti! Ho paura, di sapere:
Ma voglio! Devo! Or tu distruggi dunque
la caligine densa avvelenata
in cui da un anno il tuo padre respira.
Nella notte e nel giorno che mia figlia
trascorse là, nel covo dei banditi,
che fu di lei?
CONTARINA
Ma che intendete dire?
ORSÈOLO
Perché quei tre bastardi rinunciarono
a perseguir Marino, e me suo complice,
Parla... Quel Fusinèr che, te perdendo,
tu salvasti in quel dì da certa morte
– non piangere – s’arroga or di proteggere
gli Orsèolo? Per qual compenso?
CONTARINA
(levandosi in piedi e scostandosi da suo padre con un moto di fierissimo sdegno e insieme di dolore)
Padre!
E insino ad oggi voi poteste vivere
nutrendo in cuore un tal sospetto orrendo?
Né mai sentiste – sì, non mai sentiste –
che prima sarei morta,
che mi sarei più tosto uccisa?
ORSÈOLO
Dio,
ti ringrazio! Si, si,
hai ragione, Figliola. E tu perdonami.
Che sei degna di me, sei una Orsèolo!
In quella sera dunque tu mentisti,
non è vero?
CONTARINA
Mentii, sì, per salvarvi
da un peccato mortale.
ORSÈOLO
Essi t’avevano
rapita a tradimento, non è vero?
CONTARINA
Si, rapita.
ORSÈOLO
E minacciata?
CONTARINA
Sì.
ORSÈOLO
Figliola cara!
Ma or t’ho ritrovata!
Ed or tu sarai meco, entrambi a chiedere
che sia tratto in giudizio quel Rinieri
Fusinèr e i suoi due degni fratelli.
Perché tu sarai meco a perseguirlo
sin che sia condannato, non è vero?
CONTARINA
Padre….
ORSÈOLO
Perché costui, causa e strumento
d’ogni nostra sventura, anche tu l’odii,
non è vero? Anche tu….
CONTARINA
Padre….
ORSÈOLO
….tu l’odii….
CONTARINA
Padre, no, padre, no, non l’odio, l’amo!
ORSÈOLO
Contarina….
CONTARINA
Sì, l’amo, da morirne!
ORSÈOLO
Signore Iddio, ridammi un’ora sola
della mia forza….
CONTARINA
O padre….
ORSÈOLO
(abbrancando per le spalle Contarina che ancora si è buttata in ginocchio davanti a lui)
Alza quel volto!
Alza quel volto, e guardami negli occhi.
Qual è la verità? Quando hai mentito?
In quella sera o dianzi?
respingendola
Va’, va’ via!
Vittima, t’avrei pianto e vendicata.
Traditrice e ribelle qual tu sei…

(Un servo spalanca, dall’esterno, una delle porte a destra, e annuncia l’Ambascieria del Doge e del Senato che reca a Orsèolo le reliquie del figlio.)
UN SERVO
L’Ambascieria del Doge e del Senato.

(Il vecchio alza la testa, si irrigidisce: Contarina si accascia inginocchiata ai piedi di lui, da un lato. Introdotti da alcuni servi entrano i cittadini dell’Ambasceria – quattro Senatori, tre borghesi, tre popolani della quale è a capo Soranzo. Dietro a Soranzo viene (uno dei quattro Senatori) Rinieri Fusinèr, che regge un cuscino scarlatto sul quale posano la spada nuda e il berretto di Marino. Dall’altra parte della sala entrano, silenziosi e mesti, tutti i servi di Ca’ Orsèolo, che si fermano, rispettosamente, a qualche passo dal seggiolone ove il vecchio sta.)
ORSÈOLO
Perdonate, signori. Io non mi posso
alzare, ad ossequiarvi. Perdonate.
SORANZO
Il Doge ed il Senato, ad onorare
quel giovinetto Orsèolo che al serto
di nostre glorie aggiunse una splendente
vittoria e il puro fior del proprio sangue,
decretavan che al padre di quel prode
si recasser da dieci cittadini
d’ogni nascita e classe e dignità
le reliquie di lui: la spada invitta
e il berretto dal suo sangue arrossato.
Tutta Venezia è qui, dinanzi a voi,
che in vostro figlio un proprio figlio onora.
Con egual cuore accogliere vogliate
il reverente omaggio di noi tutti.

(A un cenno di Soranzo, Rinieri, tenendo all’altezza del proprio petto il cuscino scarlatto con sopra le reliquie, avanza verso Orsèolo. Questi lo guarda, lo riconosce, sussulta.)
ORSÈOLO
Non da costui…. Soranzo, no…. Da voi….
Prendete voi le cose sacre.
Ho detto
da voi!

(Dalle mani di Rinieri, che glie lo porge e si trae indietro chinando la testa, Soranzo prende il cuscino e lo tende verso il vecchio.)
ORSÈOLO
Ecco. Così….
(Ed ora egli punta le mani sui braccioli del seggiolone, riesce a sollevarsi, e per prodigio si rizza. È in piedi. E così ritto grandeggia su tutti, con la maestà del suo aspetto, con la forza del suo sguardo, con i segni del suo dolore augusto. Prende con le due mani la spada, per l’impugnatura e la punta, e pare che i suoi occhi non vedano più altro che quella lama nuda: e nella luce di essa l’ombra presente del figlio perduto.)
Marino… Sì… Ti vedo… Sì, figliolo.
Vienmi più presso, figlio. Avrei dovuto
abbracciarti, lo so… Ma non pensavo
che non saresti più, mai più tornato.
(Ed avvicina la spada alle labbra,)
Ecco, su la tua spada: per l’esilio
e la bacia, una volta,
e per la gesta eroica,
(un’altra volta)
e per la morte.
(una volta ancora)
E sii tu benedetto e ringraziato,
chè la gloria onde il cielo oggi fiammeggia
è luce del tuo sangue,
del nostro sangue, nostro, degli Orsèolo.
E se non so nascondere il mio strazio,
perdonami. Eri l’ultimo, ed in te
vedea tuo padre splendere il futuro.
Ora egli sa che chiusi gli occhi al mondo
tutto di noi sarà silenzio e oblìo.
CONTARINA
Signore Iddio, che il babbo possa in pace
finire la sua vita!
Signore Iddio, Madonna benedetta,
fatemi voi la grazia!
Ch’egli possa sgombrar la mente e il cuore
d’ogni sospetto impuro,
d’ogni rancore ingiusto.
V’offro quel bene ch’è soltanto mio,
v’offro l’amor di lui che m’ama ed amo,
v’offro il tormento che sarammi il vivere
ad ogni ora invocando invan la morte.
ORSÈOLO
E poi… E poi… A te non fan più velo
terrene illusioni e umani inganni.
Per essere là dove Iddio ti volle
tu sai, tu sai…
Qual é la verità?
Qual é il dovere? Parlami.
Un segno, dammi un segno. O figlio! Figlio!

(Durante l’ardente e via via più disperata invocazione un progrediente tremito ha invaso il vecchio in tutte le membra. Vacilia, barcolla. Per sostenersi tende le braccia, e puntando la spada in terra vi si appoggia con tutto il peso del corpo. E la spada si spezza. Un grido erompe da ogni petto, di raccapriccio e d’orrore. Il vecchio cade su un ginocchio. Contarina, Soranzo, la Levantina e qualche servo e alcuni dell’Ambascieria corrono a lui per dargli aiuto.)
SORANZO, LA LEVANTINA, IL CORO
– È il segno della pace e del perdono!
– Il Signore esaudito ha le preghiere
di Marino. – Per sua intercessione,
la spada s’è spezzata. – Pace, pace

(Anche Rinieri, spinto da un senso di profonda pietà, si slancia per aiutare Orsèolo a rialzarsi, e forse per dirgli una parola d’amore. Ma il vecchio, piegato sul ginocchio ma non placato, lo investe con straziante violenza.)
ORSÈOLO
E non ti basta ancora?
Non sei ancora sazio?
Che vuoi tu dunque ancora dagli Orsèolo?

(E Rinieri, un’altra volta ingiustamente offeso, reagisce duro e crudele.)
RINIERI
O implacabile vecchio, ma chi fu
la prima, sola causa della vostra
e mia rovina?
CONTARINA
(atterrita e supplichevole)
No, Rinieri, no

(Soranzo, alcuni dell’Ambascieria, alcuni servi, hanno rialzato Orsèolo, e lo rimettono sul seggiolone, a sinistra del tavolo, senza che egli più reagisca né con parole, né con atti. Nell’improvviso silenzio s’incomincia a udire i1 canto sacro del Coro Processionale che, al sèguito del Doge e della Signoria, è avviato verso San Marco.)
IL CORO PROCESSIONALE
Sancta Maria, ora pro nobis.
Sancta Dei Genitrix, ora pro nobis.
Sancta Virgo Virginum, ora pro nobis.
Sancte Michael, ora pro nobis.
Sancte Gabriel, ora pro nobis.
Sancte Raphael, ora pro nobis.

(Rinieri sente la irrimediabile crudeltà delle parole dette, si scosta, si copre gli occhi con le mani, indietreggia, e come obbedendo a una improvvisa decisione, si volge verso la porta per uscire. Un vecchio popolano dell’ambasceria lo prende per un braccio e lo ferma.)
RINIERI
Non dovevo parlare!
UN VECCHIO POPOLANO
Figlio caro,
non è più colpa vostra. E nemmen sua.
Ogni principio ha il proprio compimento.
E una stella che cadde, anch’essa deve
cadere, sino a spegnersi nel mare.
IL CORO PROCESSIONALE
Omnes sancti Angeli et Archangeli, orate pro nobis.
Omnes sancti beatorum Spiritum ordines, orate pro nobis.

(A poco a poco Orsèolo riprende coscienza, di sé e delle persone e delle cose. Ode il canto, e il suo volto pare rasserenarsi. Entrano quel servo e quel ragazzo che già recaron fiori, con bracciate di rame d’alloro che vanno a deporre sul tavolo.)
ORSÈOLO
La Signoria, il Doge, la Repubblica…
Or può venir la morte.
IL CORO PROCESSIONALE
Sancte Johannes Baptista, ora pro nobis.
Sancte Joseph, ora pro nobis.
Omnes santi Patriarcbae et Prophetae, orate pro…
(Il canto del Coro Processionale, che s’è fatto sempre più forte, a un tratto cessa. E nel silenzio una voce per tre volte squilla)
UNA VOCE
Gloria a Marino Orsèolo !

(E per tre volte il Coro ripete ” Gloria,,. E ogni volta, dalle finestre aperte là in fondo sul canale, s’intravvedono le bandiere della Repubblica inchinarsi e risollevarsi sventolando al sole. Orsèolo si stringe al petto i1 moncone della spada, che egli ha sempre tenuto in pugno. E il Coro Processionale riprende il canto, lentamente allontanandosi.)
IL CORO PROCESSIONALE
Sancte Petre, ora pro nobis.
Sancte Paule, ora pro nobis.
Sancte Thoma, ora pro nobis.
Sancte Simon, ora pro nobis.

(Soranzo, che sta a fianco del vecchio, a destra, insieme con alcuni dei Messi del Senato, vede lui reclinare il capo: le violente passioni, l’ultimo sforzo e l’ultima emozione lo hanno ridotto all’estremo. Fa un cenno a Contarina, ed essa si avvicina e s’inginocchia davanti al tavolo, alla sinistra di Orsèolo, ma senza toccarlo e senza che egli di lei si sia avveduto. Rinieri sta in piedi a destra del tavolo, sul quale, tra i fiori e le rame d’alloro, poggia il cuscino col berretto di Marino.)
SORANZO
Orsèolo,
mio vecchio amico… Udiste? È la Repubblica
che onora vostro figlio, e in lui voi stesso.
Non v’indurrà quest’ora sì solenne
a un atto di perdono e di bontà?
Guardate quella misera…
E l’altro. Di voi degni entrambi, Orsèolo.
ORSÈOLO
Come par meglio a voi, Signori… Come
più vi convenga. Io sono troppo vecchio.
Di grazia, miei signori, non vorreste
chiudere le finestre? Annotta, e ho freddo.

(Il vecchio Zorzi e un altro servo vanno a chiudere le finestre dalle quali entrava il chiaro sole meridiano. Più fievole e lontano giunge il canto del Coro.)
IL CORO PROCESSIONALE
Sancte Luca, ora pro nobis.
Sancte Marce, ora pro nobis.
SORANZO
(a un Senatore dell’ Ambascieria)
Ormai non vede più.
ORSÈOLO
Ecco, così… Silenzio…
Il suo berretto.

(Soranzo prende di sul cuscino il berretto e lo mette nelle mani d’Orsèolo. Egli se lo pone in grembo, poi tende il braccio sinistro verso il tavolo, brancicando con la mano tra i fiori che i suoi occhi più non vedono. Contarina comprende l’intenzione di lui. Gli pone tra le mani una manciata di gigli. Ricevendoli egli sente il tepore della mano pietosa e la stringe. E con l’altra mano cerca la testa della figliola.)
ORSÈOLO
Contarina! Figliola! Cara, cara…
CONTARINA
Perdonatemi, padre.
ORSÈOLO
Perdonare…
Abbiam tutti bisogno di perdono.
(Ad ogni colpa il suo castigo. E’ giusto.)
Signore Iddio… Venezia…
Oh, lasciatemi solo,.. solo… solo!

(Due o tre signori si avvicinano a Rinieri, al quale anche Soranzo fa cenno di allontanarsi con gli altri dell’Ambascieria, che stanno uscendo silenziosi. Egli s’incammina verso la porta, ed esce. Contarina lo segue con lo sguardo sin che è scomparso.)
CONTARINA
(con appena un soffio di voce)
Là dove i1 nome tuo sarà soltanto
Rinieri, e il mio soltanto Contarina…

(Si volta, vede suo padre ormai cereo e già lontano. Sommessamente, quasi temesse di destarlo, lo chiama: Babbo, babbo… E sulle ginocchia di lui china la testa piangendo. I servi s’inginocchiano.)

FINE

(1) Orsèolo, G. Ricordi & Co., Milano, 1935


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Ultimo aggiornamento 13 ottobre 2022