Filiae Jerusalem, adjuro vos

Piccola cantata d'amore per soprano, coro femminile e orchestra

Musica: Ildebrando Pizzetti (1880 - 1968)
Testo: dal Canticum Canticorum

Organico: soprano, coro femminile, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagoti, 2 corni, timpani, 2 arpe, archi
Composizione: 1966
Prima esecuzione: Roma, Campidoglio, Sala degli Orazi e dei Curiazi, 27 ottobre 1966
Edizione: Ricordi, Milano, 1966
Guida all'ascolto (nota 1)

La cantata «Filiae Jerusalem, adjuro vos» (su versetti del «Canticum Canticorum») è stata composta da Ildebrando Pizzetti su invito dell'Accademia di S. Cecilia. Porta la dedica seguente: «Alla carissima Uliva da suo nonno Ildebrando». L'organico strumentale è il seguente: ottavino, due flauti, due oboi, due clarinetti, due fagotti, due corni, timpani, due arpe, archi.

Va subito rilevato, a proposito delle ragioni ispirative del brano, che anche qui il compositore si mantiene fedele ad una prospettiva che egli aveva adottato fin dal tempo della sua «opera prima», e cioè dal tempo dell'«Ave Maria» a tre voci miste composta nel 1897. Per cui sul significato della «Cantata» oggi programmata riesce facile ancora una volta il riferirsi alla disamina critica a suo tempo elaborata da Guido M. Gatti. «A prediligere l'espressione vocale, e più particolarmente polivocale - ha scritto Gatti - Pizzetti era mosso da necessità intime, che si sono rivelate via via più precise e imperiose, e dalla suggestione del cantar popolare a più voci, sì frequente nella terra emiliana. L'innato sentimento di una vita da viver religiosamente, nel significato più ampio della parola, di una comunità fra gli uomini da porre come ideale d'ogni attività, la sensazione di una natura non inanimata e indifferente alla creatura ma viva di mille luci fraterne, lo spingevano a dare una forma al suo sentimento che tutte quelle voci esprimesse, in una molteplicità scaturita da una sola essenza ».

Anche per quello che riguarda le caratteristiche stilistiche della «Piccola Cantata d'amore», converrà ritornare a parlare, con Guido M. Gatti, di «quella scioltezza e quella sicurezza nel muover le parti e nel dare a ognuna di esse un compito espressivo che tutti ammirano nell'opera corale del maestro». E ancora: la scrittura polifonico-corale di Pizzetti «non è mai sovraccarica e densa, ma leggera e trasparente... Non vi sono riempitivi o raddoppi e l'incremento della sonorità è ottenuto con finissimi accorgimenti dinamici più che per il sovrapporsi e il cumularsi delle voci. Si è che ognuna di queste melodie è essenzialmente vocale e il suo canto ottiene dalla voce il pieno rendimento. L'effetto acustico e l'equilibrio fonico sono conseguenza dell'espressività melodica: e non v'è nulla di meccanico, di preordinato nel sopravvenire e nell'inserirsi di ciascuna voce. I procedimenti scolastici dell'imitazione e del canone sono sentiti come necessità espressive e non come formule...».

Veniamo infine alla struttura formale del brano. La «Piccola Cantata d'amore» si apre con un «Sostenuto» ritmicamente scandito dal timpano: breve episodio che trapassa senza soluzione di continuità nel successivo «Moderatamente mosso» (e qui si inserisce la voce del soprano solista, caratterizzata da brevi vocalizzi o da appassionate aperture melodiche, come quella che figura alle parole «Si inveneritis dilectum meum»). Esaurito dalla voce solista il primo versetto, il coro introduce le parole «Qualis est dilectus tuus...» attraverso entrate non simultanee: in testa i primi contralti, poi i secondi contralti, quindi i primi soprani, da ultimo i soprani secondi (il tutto musicalmente realizzato in plastiche proposizioni melodiche e nell'ambito di quella scrittura polifonica «leggera e trasparente» di cui si è già detto).

Un nuovo episodio è segnato dal «Sostenuto» che inizia alle parole «Indica mihi...» cantate dal soprano solista. Qui la tensione agogica va gradualmente cedendo; s'intensifica, invece, la tensione lirica che - dopo il candido diatonismo e la purezza melodica dell'episodio che principia con le parole «jam enim hiems...» raggiunge una spiccata accensione emozionale alle parole del soprano solista «mane surgamus ad vineas...». La successiva entrata del coro («O pulcherrìma mulierum...») intensifica ancor più il discorso musicale; così come lo arricchiscono e lo dinamizzano le vocalizzate figurazioni corali che seguono il «Veni, dilecte mi...» del soprano solista. Altra distensione agogica spinta per converso al culmine dell'intensità drammatico-vocale è quella dell'episodio «Osculetur meo...», affidato al soprano solo e suggellato dalla fermezza - a voci parallelamente concordi - dell'«Alleluia» cantato dal coro. Qui il brano si avvia alla conclusione: con una estrosa «coloratura» vocalistica del soprano e con un progressivo estinguersi della sonorità saldamente ancorata alla luminosa prospettiva accordale della triade maggiore di «re».


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 30 ottobre 1966


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Ultimo aggiornamento 16 novembre 2016