Musorgskij non poté ascoltare Chovanšcina, un'opera alla quale lavorò dal 1872 fino al 1880, l'anno prima della morte: l'opera venne eseguita, infatti, in veste amatoriale e privata, con una compagnia di dilettanti, solo nel 1886, al Teatro Konovov di Mosca, nella versione di Rimskij-Korsakov, e dovette attendere fino al 1911 per essere ripresa pubblicamente al Teatro Imperiale, grazie all'interessamento del grande cantante Šaljapin, che interpretava la parte di Dosifej. L'opera, completata nella veste per canto e pianoforte (a eccezione dei finali del secondo e quinto atto), pur se con indicazioni riguardanti la strumentazione, venne orchestrata da Rimskij-Korsakov, e questa versione, pubblicata nel 1883, non solo contribuì alla sua diffusione, ma rappresenta un momento particolare nella storia dell'interpretazione dell'opera di Musorgskij, il quale aveva peraltro approvato l'orchestrazione di Rimskij-Korsakov delle Danze persiane, nel quarto atto. Ed è significativo anche ciò che egli afferma in una lettera a Stasov del 16 agosto 1876, a proposito del progettato quintetto conclusivo del secondo atto: l'avrebbe scritto a Pietroburgo, sotto la guida di Rimskij-Korsakov, a causa delle complesse esigenze tecniche, dovute alla presenza di un contralto, un tenore e tre bassi. Ma Rimskij-Korsakov ha avvolto Chovanšcina in una patina brillante, che rispondeva più alla sua sensibilità che alle intenzioni originali dello spartito, intervenendo anche con modifiche e tagli arbitrari. Spesso, tra l'altro, tendendo a 'cucire' e a smussare il carattere duro e arcaico di certe 'contiguità' armoniche che oggi riconosciamo come particolarmente originali ed efficaci, risolvendole secondo una logica astratta, che non tiene conto della particolare espressività di Musorgskij. La stessa cosa avviene per quanto riguarda altri aspetti formali, fraseologici e ritmici. Due sole sezioni sono state interamente orchestrate da Musorgskij: la 'Canzone di Marfa' e il 'Coro degli Strelzi' del terzo atto.
Nel 1913, Djagilev inserì Chovanšcina nella sua 'stagione russa' con alcune parti orchestrate da Stravinskij e Ravel e, ancora, Šaljapin nei panni di Dosifej. Nel 1931, Pavel Lamm, che curò l'edizione dell'opera omnia di Musorgskij, stampò lo spartito della Chovanšcina mantenendosi fedele all'originale; il 25 novembre 1960 andò in scena al Teatro Kirov di Leningrado l'orchestrazione-ricostruzione di Šostakovic, oggi considerata la più rispettosa delle intenzioni di Musorgskij, a eccezione dei finali del secondo e quinto atto completati con riprese di altri punti dell'opera (rispettivamente la 'Marcia dei Petrovski' che anticipa così la scena del perdono, alla fine del quarto atto, anziché l'accordo inquietante che sfuma nel pianissimo dello spartito, e 'L'alba sulla Moscova', ripresa dall'introduzione del primo atto). Stravinskij ha invece concepito il finale sulla scorta degli schizzi originali, inserendo un corale, un Largo il cui tema è costituito da un canto popolare russo indicato da Musorgskij, e associato a una rievocazione del motivo dell'introduzione al quinto atto.
Musorgskij cominciò a pensare a Chovanšcina tra il giugno e il luglio 1872, poco prima di terminare Boris. In una lettera datata 16 e 22 giugno di quell'anno, accenna a Vladimir Stasov (critico musicale e d'arte, etnografo, archeologo, portavoce del 'Gruppo dei Cinque' e intimo collaboratore di Musorgskij) di volersi occupare della Madre Russia senza limitarsi a conoscere il popolo, ma affratellandosi con lui. Già in questa prima lettera si può riconoscere un atteggiamento sostanziale che Musorgskij non abbandonò mai nell'arco dei lunghi anni di lavoro che accompagnarono la stesura della Chovanšcina. Infatti, mentre per Stasov (al quale dedica l'opera ancora prima di cominciare a scriverla, in una lettera del 15 luglio) Chovànskij rappresenta la Vecchia Russia «cupa, fanatica, sonnolenta», e Golitzyn «lo spirito europeo», Musorgskij non si identificherà completamente con nessuno degli schieramenti. Il suo desiderio di avvicinarsi profondamente, fino a confondersi, con il popolo, lo spinge piuttosto, come molti populisti del suo tempo e come lo stesso Dostoevskij, a identificarsi con i suoi problemi e con le sue aspettative. Musorgskij non crede a nessuna tesi politica come completamente positiva o negativa; se mai, con il 'realismo' tutto originale della sua estetica, caratterizza psicologicamente gli individui. La musica di Musorgskij delinea una realtà complessa di sette e partiti all'interno dei quali possono coesistere grandezza d'animo e viltà. Per lui è fondamentale dare voce al popolo, e questo è possibile solo ascoltandone le esigenze, senza imporre soluzioni dall'alto o, peggio ancora, dall'esterno. Nella lettera citata, dice infatti: «Fino a quando il popolo non si renderà conto con i propri occhi di cosa si fa di lui e fino a che non dirà lui stesso che cosa vuole che si faccia di lui, saremo sempre allo stesso punto!». C'è un'altra illuminante missiva, del 13 luglio 1872, sempre a Stasov, dalla quale ricaviamo notizie sulle letture alle quali attinse per Chovanšcina. Qui Musorgskij conferma di essere attratto dagli aspetti visionari e da quelli grotteschi della tradizione russa, il tutto nel carattere assolutamente popolare che vuole imprimere all'opera: «Al vostro ritorno, saranno probabilmente già pronti i materiali per la nostra prossima opera. Ho fatto un fascicolo e l'ho chiamato Chovanšcina, dramma musicale popolare - materiali. Sul frontespizio ho segnato le fonti, nove, niente male: m'immergo nelle notizie e la testa è come una caldaia (...) Su un simile canovaccio si può lavorare molto: ci sono immagini, c'è senso mistico e anche l'aspetto caricaturale della storia è entusiasmante». Nel fascicolo sono enumerate le fonti, tutte di cronisti e memorialisti vissuti tra il XVII e il XVIII secolo. Il 7 agosto 1875 Musorgskij annuncia a Stasov che «il primo atto della nostra Chovanšcina è terminato». Il 14 ottobre, parla invece dell'idea che gli è venuta per la «lite dei principi a casa di Golitzyn», cioè per il secondo atto, che tra il 29 e il 30 dicembre gli comunica di avere finito. Il 27 e il 28 agosto 1880, gli scrive: «e Chovanšcina è già alla vigilia di essere compiuta: per l'orchestrazione - oh, dèi! - c'è ancora tempo!». Ciò che mancava era, come affermava lui stesso in due lettere di poco precedenti a questa, «un piccolo pezzettino nella scena finale dell'incendio».
I fatti storici nei quali Musorgskij si immerge con tanta passione, in stretto e continuo contatto con Stasov, si rifanno a un periodo cruciale della storia russa. Gli strelzi erano un corpo militare istituito già nella seconda metà del XVI secolo da Ivan il Terribile. Guardia dello zar e principale sostegno dell'esercito, acquistarono sempre più potere. Quando, dopo la morte dello zar Fëdor III, era stato posto sul trono il piccolo Pietro I, si ribellarono imponendo, accanto a lui, il fratello Ivan, entrambi sotto la reggenza della sorellastra Sofia Alekseevna. Nel periodo compreso tra il maggio e il settembre 1682 si verifica la rivolta degli strelzi, questa volta capeggiata da Ivan Chovànskij, capo dei Vecchi Credenti, in favore del figlio Andrej, domata dalla principessa Sofia che ne ordinò l'esecuzione capitale. Ma Musorgskij collega questi avvenimenti alla conquista del potere da parte di Pietro, che avvenne nel 1689 e che si concluse con l'esilio di Golicyn, l'esecuzione di Švaklovitij e l'imprigionamento di Sofia. In tutto questo si inseriscono le tensioni religiose, che vedono schierati su fronti contrapposti i fautori della riforma imposta dal patriarca Nikon, durante il regno dello zar Alessio Michjlovic (1645-76) e i tradizionalisti, i Vecchi Credenti, detti raskolniki, cioè scismatici. Quando Pietro il Grande, sconfitti gli strelzi, si rende indipendente dal fratello Ivan e dalla reggenza di Sofia, i Vecchi Credenti comprendono che sta per iniziare una politica di occidentalizzazione e a migliaia decidono di togliersi la vita. In questo contesto storico (1682-1689), si svolge Chovanšcina.
La scrittura di Musorgskij è, anche nella Chovanšcina, guidata da una forte spinta a cogliere le affinità tra gesti evocativi e impulsi musicali. Da immagini e impressioni provenienti da differenti sfere sensoriali, sgorgano idee musicali. E il legame tra emozione e materiale armonico, tra melodia e contesto narrativo, giustifica la rudezza innovativa e la contiguità discorsiva della sua scrittura, che evita gli sviluppi e il divenire drammaturgico in senso tradizionale. Il brusco passaggio da una situazione timbrica all'altra, la fraseologia che non indugia in passaggi secondari o in colori intermedi, le funzioni armoniche sfruttate in senso espressivo senza seducenti accademismi. Questi aspetti dello stile musorgskiano nascono dal rapporto con un nucleo storico e umano reso fantasmatico: tale concentrato di stimoli visivi, letterari, tattili, si fa cuore narrativo di Chovanšcina. Ecco allora delinearsi personaggi di grande statura psicologica. Le melodie, nella loro plasticità, connotano caratteri sfaccettati come quelli di Marfa o Dosifej, ma disegnano anche l'inconsistenza vanesia di personaggi come Emma e Andrej Chovànskij (definiti «stupidi» da Musorgskij). Allo stesso modo, nel secondo atto, l'intreccio melodico e formale tende a mettere in luce «l'ignobile riunione presso Golitzyn, nella quale tutti strisciano dinanzi ai più potenti e solo Dosifej sembra avere una convinzione salda e precisa» (lettera del compositore a Stasov, 6 agosto 1873). L'interesse di Musorgskij per la complessità e la contraddittorietà dei caratteri umani e delle vicende storiche è scolpito musicalmente nell'atto terzo. A Marfa si contrappone infatti un altro personaggio che, pur appartenendo alla setta dei Vecchi Credenti, ne svela, come nel caso dello stesso Chovànskij, il lato negativo e corrotto (ancora, ecco le parole di Musorgskij, in una lettera del 6 settembre '73 a Stasov: «Marfa e Susanna, ossia una donna schietta, forte e innamorata e una vecchia zitella che ripone tutta la gioia della sua vita nella cattiveria con cui ricerca e perseguita il peccato d'adulterio - un contralto molto sensibile, ma nello stesso tempo appassionato, e un soprano secco e stridulo»). Durante gli anni di duro lavoro a Chovanšcina, che lo accompagnerà fino alla vigilia della morte, Musorgskij ricerca quella «melodia vitale, non classica», che vorrebbe chiamare «melodia razionalmente giustificata», di cui parla a Stasov in una famosa lettera del 25 dicembre 1876. Il legame profondo con le inflessioni e il senso del linguaggio parlato svelano, in ultima analisi, la ricerca di un fine etico ed estetico insieme; per questo, nella sua nota autobiografica Musorgskij ebbe significativamente a dichiarare che «l'arte è un mezzo di comunicazione con gli uomini, e non un fine».
Nato nel 1839 a Karewo, un borgo della Russia centrale, morto nel 1881 nell'ospedale militare di Pietrogrado, Mussorgski, notava ammirato Debussy, «non ebbe tempo da perdere per avere del genio e non ne perdette». A diciott'anni scrisse la sua prima romanza, «Dove sei piccola stella?». Alla vigilia della morte scrisse l'ultima, «La canzone della pulce». Tra le due stanno, in poco più di vent'anni, tre opere, una settantina di liriche, lo straordinario ciclo pianistico dei «Quadri di un'esposizione», svariati cori e pezzi orchestrali. Una produzione imponente soprattutto per un autore che, camminando con mezzo secolo d'anticipo sulla propria epoca, ebbe raramente la possibilità del confronto diretto col pubblico. Il «Boris», terminato nell'estate del 1870, dovette venir rifatto e attendere quattro anni per arrivare al palcoscenico. Da allora i dirigenti dei Teatri Imperiali, stimando che «un'opera radicale era sufficiente», gli chiusero le porte e contribuirono così al tragico disordine che impedì a Mussorgski di completare i suoi maggiori lavori.
Nel '70, comunque, Mussorgski era ancora pieno di entusiasmo e di speranze. Cosicché, appena posta la parola fine al «Boris», si pose alla ricerca di un nuovo successo. L'immancabile Vladimir Vassilievic Stassov — storico, ideologo di fiducia ed esigente amico — propose una storia di ambiente contadino («Bobyl»). Mussorgski l'accettò con entusiasmo, compose una scena di cartomanzia (di cui riparleremo) e poi l'abbandonò per il rifacimento del suo capolavoro. Due anni dopo, sistemato definitivamente il tragico Zar, il problema dell'opera nuova si ripresenta e, ancora una volta è Stassov a scovare una trama: quella della rivolta degli strieltzi negli anni della giovinezza del futuro Pietro il Grande.
I fatti si svolgono tra il 1682 e il 1689 quando, dopo la morte senza figli dello zar Fiodor, due famiglie si contesero ferocemente il trono. Dapprima la corona venne attribuita al novenne Piotr, ma gli strieltzi, capeggiati dal principe Ivan Kovanski e sobillati dalla principessa Sofia, si rivoltarono e, dopo aver associato a Piotr il fratello semideficiente Ivan, posero ambedue i ragazzi sotto la tutela di questa donna ambiziosa e forte. In questo compromesso restava a Kovanski un ampio campo di azione a favore del proprio figlio Andrej. La contesa si risolse coll'ammazzamento dei due Kovanski. Più tardi, mentre Piotr si trovava all'estero, gli strieltzi si ribellarono nuovamente; ma Piotr non era più un fanciullo: tornò fulmineamente e li sterminò dopo aver relegata Sofia in un monastero. Nell'opera questa complicata storia dinastica viene concentrata: la ribellione è una sola e i Kovanski cadono sotto i colpi di Pietro. In compenso la contesa si infittisce colla comparsa dell'elemento religioso, accomunando gli strieltzi colla comparsa dell'elemento religioso, accomunando gli strieltzi alla setta dei Vecchi Credenti, ostili alla riforma della Chiesa ortodossa e convinti che Pietro, educato all'estero, fosse né più né meno che l'Anticristo. Il dramma si condensa così attorno a tre personaggi emblematici. Il mondo dei boiardi prepotenti e retrogradi è rappresentato da Ivan Kovanski: «Questo vecchio — nota Stassov — talvolta gentile e placido, talvolta fiero, selvaggio e spietato, orgoglioso dei suoi antenati e del suo illimitato potere, pronto a sollevare una tempesta per un'inezia nel proprio harem, irascibile, poco intelligente, convinto di avere intorno soltanto schiavi, è l'autentica immagine del proprietario terriero dei vecchi tempi». Al polo opposto sta il principe Golitzin, amante della zarevna Sofia, ammiratore dell'occidente e della nuova cultura, ma intrigante, superstizioso e succube delle forze oscure che sostengono l'imperatrice reggente. Tra i due, Diositeo, il capo dei Vecchi Credenti, appare come il fanatico difensore della tradizione popolare, legato al passato e quindi destinato al martirio.
Dramma politico, quindi, come nel Boris, reso ancor più evidente dalla mancanza di un personaggio centrale che polarizzi l'azione. Il grande zar dominatore, Pietro, non appare mai in scena; l'annunciano alla fine le trombe dei petrovzi, i soldati del suo reggimento giunti in tempo per assistere al rogo collettivo dei Credenti. In sua assenza, lo scontro si svolge tutto tra coloro che sono destinati alla sconfitta — Kovanski, Galitzin, Diositeo — e che guidano il popolo alla rovina. Colossale disputa sulla ragion di stato, la «Kovanscina» è un dramma senza vincitori: aspetta la sua conclusione in quella «Rivolta di Pugaciov» che avrebbe dovuto completare la trilogia storica mussorgskia na e che non andò oltre il titolo.
Questa impostazione non ebbe poco peso nel futuro della «Kovanscina». Concepita come un enorme affresco, essa è la negazione della convenzione melodrammatica. Gli scontri operistici tra buono e cattivo, amante e traditore, son faccende che richiedono un inizio, un centro tragico e una conclusione. La «Kovanscina» procede invece come le vite dei santi dipinte dagli artisti medioevali in cui ogni episodio sta nel suo riquadro e si aggiunge al precedente secondo uno sviluppo che ha come unico limite la dimensione della parete della chiesa. Un'immensa ballata, insomma, in cui le strofe si aggiungono alle strofe e i fatti ai fatti, tra un pullulare di personaggi che appaiono, scompaiono, in attesa del loro momento drammatico.
Per un musicista come Mussorgski, convinto della inutilità di lavorare per l'esecuzione e teso a rinnovare il proprio linguaggio fuori dalla convenzione, questo costituiva una continua tentazione di rinvio, di aggiunte, di perfezionamenti. Mentre il «Boris» era stato compiuto di getto in un anno e poi rielaborato in altri due, la «Kovancina» riempie ben nove anni a partire dal 22 giugno 1872 quando Mussorgski spedisce a Stassov quattro righe esultanti: «Vi prego di registrare questa epistola col numero d'ordine 1, perché altre ne seguiranno successivamente, con diversi sapori e lieviti, ma tutte sull'argomento degli strieltzi. Sia questo in memoria del nostro nuovo lavoro, del nostro ardito lavoro».
Poi ancora, un mese dopo, l'esaltata dedica a Stassov dell'opera non ancora scritta e di tutto il periodo della vita in cui essa andrà formandosi. Sul tavolo di Mussorgski si accumula il «materiale»: fonti, memorie, antiche croniche. Cose utili e inutili. In un manoscritto dei Vecchi Credenti intitolato «L'attacco del demonio contro la razza umana» scopre l'origine di Pietro-Anticristo: la cronaca narra come il diavolo Teut sia stato inviato con un reggimento dei suoi pari tra i Germani per spargervi la disobbedienza e la corruzione col vino, la bestemmia e le danze. I discepoli del maledetto insegnamento, cioè i tedeschi figli del diavolo, vengono chiamati Teutoni. Tra loro Lucifero scelse una donna incinta, la baciò sull'ombelico ed essa partorì l'Anticristo (cioè lo zar Pietro educato in Germania), mentre il sole periva e una terribile tempesta sconvolgeva Mosca.
Queste ricerche prendono un anno. Finalmente nel luglio del '73, Mussorgski comincia a metter la musica sotto le parole e, caratteristicamente, parte dalla scena conclusiva, quella in cui il giovine principe Andrej Kovanski viene trascinato al rogo da Marfa, la profetessa dei Vecchi Credenti oltreché sua ex amante.
Cominciata dalla fine, la stesura dell'opera procede a strappi, tra esplosioni di furore creativo, lunghe interruzioni, ripensamenti e riprese sino al momento della squallida morte in ospedale. Nell'agosto del 1875 Mussorgski annuncia di aver terminato il primo atto, a dicembre il secondo, nel maggio del '76 il terzo; all'inizio di agosto la possibile conclusione in una lettera alla cara amica Ludmilla Ivanovna: «Oh se volessero darmi vacanza, come galopperebbe la mia penna sul foglio di musica. Il tempo incalza. Quasi tutto è composto. Devo solo mettere in carta, mettere in carta. Ma l'ufficio [il ministero della foreste dove lavorava come impiegato] me lo impedisce». Tre anni dopo, il 22 agosto 1879, la festosa comunicazione a Stassov: «La nostra «Kovanscina» è finita. Manca solo un piccolo pezzo nella scena finale in cui gli scismatici si danno la morte nel fuoco».
In effetti, quando dopo la morte del musicista le sue carte passarono nelle mani di Rimski Korsakov, questi scoprì che le ultime battute erano ancora in bianco, ma che, in compenso, l'opera aveva preso dimensioni enormi, sebbene Mussorgski, sentendo approssimarsi la morte, avesse provveduto a sfrondare e ad abolire in modo drastico. Quanto all'orchestrazione, salvo alcuni passi preparati per esecuzioni in concerto, mancava totalmente. Lo stato del manoscritto testimoniava quale fosse il modo di comporre di Mussorgski; non già una stanchezza della sua fantasia visto che — nel medesimo periodo — egli aveva completato due atti della «Fiera di Sorocinski» prima di abbandonarla, i «Quadri di un'Esposizione», una trentina di liriche e altri lavori minori. Lo stesso colossale torso della «Kovanscina» è una riprova del continuo progresso di Mussorgski alla ricerca di «nuove vie».
Dopo l'esperimento del «Matrimonio», dopo la riuscita del «Boris», Mussorgski cerca ancora un nuovo tipo di canto «plasmando il recitativo in modo da trasformarlo in melodia». Nello stesso tempo egli persegue, attraverso ritmi originali, atmosfere sonore, preziosi orientalismi, la più ampia caratterizzazione dei personaggi e degli ambienti. Riaffiora qui il senso di quella struttura da «vita dei santi» cui accennavamo prima. Ogni quadro ha un suo segno, una sua caratteristica compiuta in sé e, in esso, il personaggio viene pienamente caratterizzato di volta in volta. Passano davanti allo spettatore lo scrivano e il boiardo Sciakoviti nel nido selvaggio degli strieltzi, l'appassionata Marfa — capostipite, per dirla con Mila, di tutte le donne indiavolate dell'opera russa sino alla Caterina Ismailova di Sciostakovic e alla Renata di Prokofief —, Diositeo e i vecchi credenti avvolti in modi liturgici, il vecchio Kovanski col suo parlare da uomo grasso e materiale gorgogliante nel fondo delle vìscere, l'ambiguo Galitzin che si fa predire il futuro da una maga (e qui, salvo errore, ritorna la musica composta da Mussorgski per la scena della cartomanzia nell'abbandonato «Bobyl»). Tutti poi li ritroviamo nell'inimitabile episodio della contesa dei potenti in cui — come nel verdiano «Don Carlos» quando si scontrano Filippo e Inquisitore — predominano i fatti politici. Dall'oriente dell'harem di Kovanski, non meno colorato del campo polovese del «Principe Igor», passiamo nei sobborghi moscoviti dove infuriano gli strieltzi e le loro donne e, alla fine, ci arrestiamo esterrefatti davanti al prodigioso effetto teatrale del sacrificio di Andrei, convinto dalla ex amante a lasciarsi ardere sul rogo per il bene dell'anima sua e della antica fede. Scena questa che non si può ricordare meglio che con le parole stesse di Mussorgski: «Posso dire una cosa sola, ed è che tutti coloro a cui ho mostrato il "requiem dell'amore» avevano gli occhi fuori della testa, tanto la faccenda è straordinaria. I gesuiti [quelli del Boris] non sono niente in confronto! È la pena capitale pronunciata da una donna innamorata abbandonata dall'amante e insieme l'esecuzione della sentenza. La bestialità di Andrej, che preferisce una giovane tedesca la cui bestialità è pari alla sua, si rivela da sola. Tuttavia Marfa non disprezza Andrej. Ha pietà di lui e di se stessa. Gli gira intorno a passi lenti, tenendo fra le mani un cero e, rivestita del sudario, canta l'Alleluia... Questo "requiem dell'amore" piace a tutti, e piace anche a me».
La straordinaria struttura dell'opera è tanto robusta da sopravvivere anche alla revisione. Come abbiamo ricordato, alla morte dell'autore il manoscritto fu affidato a Rimski Korsakov, l'unico musicista amico di Mussorgski che possedesse a un tempo scienza e metodicità. Naturalmente Rimski possedeva anche una visione propria del teatro musicale e si sforzò di trasformare la «Kovanscina» in un'opera secondo le buone regole. A questo scopo sfrondò con energia la sterminata foresta mussorgskiana abolendo oltre mille battute, sopprimendo il personaggio del pastore tedesco e intere scene: ne uscì impoverita la parte popolare del primo atto e la contesa dei potenti nel secondo. In più Rimski completò il finale mancante (secondo le indicazioni dell'autore che aveva lasciato un appunto per il coro finale e le trombe dei petrofzi) e orchestrò il tutto da capo a fondo rilevando — come farà poi per la revisione del «Boris» — il colore, ammantando l'opera in una veste smagliante di sonorità. In questa forma l'opera venne presentata privatamente da una compagnia di dilettanti a Pietroburgo nel 1886, poi a Kiev nel '92 e in un teatro minore di Mosca nel '97. Sulle scene imperiali della capitale arrivò solo nel 1911, tanto era forte il pregiudizio contro Mussorgski. Due anni dopo Diaghilev rivelò l'opera a Parigi e all'Europa in una edizione orchestrata da Ravel e Stravinski per le parti omesse da Rimski.
Cominciò sin da allora quella polemica sull'operato di Rimski Korsakov che dura tuttora. Naturalmente la situazione della «Kovanscina» è ben diversa da quella del «Boris»: quest'ultimo venne completato in modo definitivo dall'autore stesso e si può tornare all'originale quando si vuole. La «Kovanscina», invece, ha bisogno di un orchestratore e di un revisore per comparire in scena e chiunque provveda a mettervi mano vi aggiungerà del suo. Il tanto discusso Rimski operò secondo i criteri del suo tempo e, va detto, impegnando a favore dell'amico tutta la sua eccezionale abilità strumentale; se la sua «Kovanscina» ha un difetto è quello di una eccessiva ricchezza e sontuosità. Se Rimski peccò fu per eccesso: chi conosce il «Boris» originale (che proprio il Maggio Fiorentino presentò nel 1940) può rendersi conto del significato drammatico dell'orchestra mussorgskiana, più scura e tragicamente spoglia; ad essa, in anni recenti, ha tentato con notevole successo, di avvicinarsi Sciostakovic con una sua revisione adottata sovente nei paesi slavi. Il problema come tanti altri provocati dalla prematura morte di Mussorgski è aperto.
Rubens Tedeschi