Quintetto per archi n. 3 in do maggiore, K. 515


Musica: Wolfgang Amadeus Mozart (1756 - 1791)
  1. Allegro (do maggiore)
  2. Minuetto e trio. Allegretto (do maggiore)
  3. Andante (fa maggiore)
  4. Allegro (do maggiore)
Organico: 2 violini, 2 viole, violoncello
Composizione: Vienna, 19 aprile 1787
Edizione: Artaria, Vienna 1789
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Sembra che Franz Joseph Haydn - personaggio fondamentale nella storia del quartetto per archi e autore, più in generale, di una sterminata produzione cameristica - a chi gli chiedeva perché non avesse mai scritto quintetti per archi rispondesse candidamente: «Nessuno me li ha mai chiesti». Questa semplice giustificazione, che alcuni portano ad esempio lampante del modus operandi del compositore di corte settecentesco, in realtà è valida fino a un certo punto. Neanche a Mozart - per quanto ne sappiamo - fu mai chiesto espressamente di scrivere quintetti, eppure compose cinque lavori originali del genere e adattò per questo particolare organico una sua Serenata per fiati.

In effetti al tempo di Haydn e Mozart anche il quintetto per archi era un genere nuovo che faticava non poco a ritagliarsi un suo spazio a fianco del quartetto, che invece proprio in quegli anni si andava imponendo come la forma principe della musica da camera. Al compositore in procinto di scrivere un quintetto si presentavano due alternative per integrare la formazione del quartetto: aggiungere una seconda viola o aggiungere un secondo violoncello. Tralasciando Myslivecek - i cui Quintetti, pubblicati a Parigi nel 1768, erano in realtà trascrizioni delle sue Sinfonie concertanti op. 2 - i primi autori a dedicarsi al quintetto per archi, al principio degli anni Settanta, furono Michael Haydn a Salisburgo e - sorpresa - Luigi Boccherini in Spagna. Boccherini, violoncellista, fra il 1771 e il 1795 compose ben 113 Quintetti con due violoncelli (e proprio uno di questi, il Quintetto in mi maggiore op. 13 n. 5, contiene il famigerato Minuetto), quindi, tra il 1797 e il 1802, scrisse i suoi soli 24 Quintetti con due viole. Invece Michael Haydn e poi Mozart preferirono decisamente la forma con due viole.

L'interesse di Mozart per questa singolare formazione cameristica era dovuto probabilmente proprio al rilievo assunto dal timbro della viola, strumento a lui particolarmente caro, e ai possibili giochi simmetrici tra le due coppie di violini e di viole, unite o contrapposte al violoncello. Proprio grazie a queste possibili simmetrie la scrittura a cinque parti gli si presentava assai più agevole e naturale di quella a quattro, nella quale per sua stessa ammissione - per quanto ci possa sembrare inimmaginabile l'idea di un Mozart "in difficoltà" nel comporre - riuscì a conquistare la piena maturità solo attraverso «una lunga e laboriosa fatica». Tuttavia i sette frammenti per quintetto d'archi a noi pervenuti, risalenti tutti al periodo 1787-1791, testimoniano la cura e lo studio dedicati da Mozart anche a questo genere.

A parte un isolato esordio giovanile - il Quintetto in si bemolle maggiore K. 174 composto a Salisburgo nel 1773 sotto l'influenza di Michael Haydn - il rapporto di Mozart con il quintetto d'archi si è consumato tutto proprio negli ultimi cinque anni della sua vita. La serie si apre con il Quintetto in do maggiore K. 515 e il Quintetto in sol minore K. 516, scritti nell'arco di poco più di un mese nell'aprile-maggio del 1787 (il fatto di comporre quasi simultaneamente due lavori dello stesso genere l'uno in tonalità maggiore, l'altro in minore è ricorrente nel Mozart della maturità: si pensi ai Concerti per pianoforte in re minore e do maggiore, K. 466 e K. 467, del febbraio-marzo 1785, a quelli in la maggiore e do minore, K. 488 e K. 491, del marzo 1786, e, soprattutto, alle due ultime Sinfonie, K. 550 e K. 551, nelle medesime tonalità dei Quintetti, sol minore e do maggiore, del luglio-agosto 1788). Servendosi di un denso stile contrappuntistico, di frequenti cromatismi e modulazioni ai toni lontani, di ricche strutture ritmiche, Mozart sperimenta tutte le possibili combinazioni dei cinque strumenti in gioco, dando vita a due opere di notevole ampiezza e complessità.

Caratteristiche che nel Quintetto K. 515 risultano evidenti non solo nelle dimensioni complessive del brano (si tratta del più lungo brano cameristico mozartiano in quattro movimenti), ma, nell'Allegro iniziale, nell'estensione irregolare del primo tema (cinque battute invece delle tradizionali quattro) che viene ripetuto tre volte, nelle modulazioni a cui viene sottoposto fino ad approdare al remoto do minore, e nella densa scrittura contrappuntistica. Anche se il manoscritto mozartiano prosegue con un Andante, l'edizione a stampa lo fa precedere da un Minuetto caratterizzato anch'esso da complesse strutture ritmiche (frasi di dieci battute) e da un notevole cromatismo, mentre l'Andante è incentrato su un intenso dialogo dal tono doloroso tra il violino e la viola. Il Quintetto si chiude con un ampio Allegro contrappuntistico, nella forma mista di rondò e forma-sonata tante volte utilizzata da Mozart nei movimenti conclusivi.

Per quanto ci è dato sapere, né il Quintetto in do maggiore né il suo gemello in sol minore, che noi oggi consideriamo tra i massimi capolavori in campo cameristico, furono scritti su commissione. Nell'aprile del 1787, mentre lavorava al Don Giovanni, Mozart si trovò in gravi difficoltà economiche e per trarsi d'impaccio decise di mettere momentaneamente da parte l'opera per scrivere rapidamente «un paio di cose da pubblicare». Il fatto che la sua scelta sia caduta sull'insolito genere del quintetto per archi (piuttosto che su quelli, assai più graditi ai dilettanti - e quindi vendibili - della sonata e delle variazioni per pianoforte o per violino e pianoforte) e che il livello di complessità tecnica e artistica dei due straordinari Quintetti che ne nacquero trascenda completamente le possibilità e le aspettative del più volenteroso dei dilettanti fornisce un'ulteriore conferma dell'incapacità di Mozart di adeguarsi alle richieste di quella che Boccherini chiamava la «speculazione mercantile». Un'incapacità che negli ultimi anni della sua vita produsse un tragico scollamento tra lui e il pubblico, che non riusciva a perdonargli - per dirla con il corrispondente viennese del «Cramers Magazin der Musik» di Amburgo - la sua «spiccata tendenza per il difficile e l'insolito». Tanto è vero che, pur essendo offerti in sottoscrizione a 4 ducati «corretti e ben scritti» per quasi due anni nel negozio dell'amico Michael Puchberg, i due Quintetti K. 515 e K. 516 non furono acquistati da nessuno.

Mozart però sembrò non dare troppa importanza a questo insuccesso e poco dopo riprese la più atipica e sconvolgente delle sue Serenate per fiati - quella in do minore K. 388/384a - e la trascrisse per quintetto d'archi, dando vita al Quintetto in do minore K. 406/516b. Quindi concluse la serie dei suoi Quintetti con il Quintetto in re maggiore K. 593, del 1790, e il Quintetto in mi bemolle maggiore K. 614, del 1791. Ma la perseveranza di Mozart nel cercare di promuovere il quintetto per archi non fu ripagata: se il K. 515 e il K. 516 restarono invenduti nel negozio di Puchberg, il K. 406/516b, il K. 593 e il K. 614 - come pure il giovanile K. 174 - furono pubblicati solo dopo la sua morte. Evidentemente Haydn aveva ragione: nessuno, nella Vienna di quel periodo, chiedeva quintetti per archi. L'unico che sembrava non saperlo era Mozart.

Carlo Cavalletti

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il capitolo dei grandi Quintetti mozartiani s'apre infine tra l'aprile e il maggio del 1787 con due capolavori profondamente affini, nella loro diversità di struttura e di temperie affettiva: li accomuna il prodigioso fiotto d'ispirazione da cui paiono essere sgorgati in uno stato di grazia artistico e di pienezza espressiva eccezionale per lo stesso Mozart - ed è tutto detto - e non altrimenti paragonabile se non a quello che guidò la mano del compositore nella creazione del coevo Don Giovanni. La totalità dell'humanitas mozartiana si identifica, quindi, nei due volti dell'unica divinità che ha nome fato. Neppur l'ombra della certezza volontaristica beethoveniana, nell'ampia, quasi gestuale affermazione tonale che apre il primo dei due Quintetti gemelli, quello in do maggiore K. 515; di già ogni sicurezza viene smentita nell'immediata e imprevedibile riproposta in do minore del tema, che progressivamente sprofonda in un remoto re bemolle maggiore per riemergere, poco dopo, in re maggiore, aprendo la strada alla seconda idea, sinuosa e scorrevole, la cui forza d'espansione melodica risiede più nel respiro e nel movimento che nella configurazione intervallare. Primo e secondo tema si suddividono la responsabilità dello sviluppo, e la ripresa ha termine con un'imponente ed elaborata coda in forma e con caratteri di «stretto»: non c'era motivo alcuno perché tali cose, tradizionalmente riservate all'aulico Quartetto secondo l'alto esempio Haydn, fossero escluse al Quintetto. Il quale, di tutto suo, conserva in Mozart la caratteristica degli elementi concertanti. Se, infatti, primo violino e violoncello erano stati i protagonisti del dialogo tematico nel primo tempo, primo violino e prima viola - dopo l'intermezzo costituito da un Minuetto intriso di ambigua mestizia - intrecciano le loro voci nell'Andante aperto alle più soavi lusinghe consolatorie. La letizia liberatrice effusa dai gruppetti e dalle volate belcantistiche dei due strumenti in amoroso colloquio non passerà inascoltata al Beethoven degli ultimi Quartetti, il quale donerà afflato trascendentale al tutto umano di Mozart. Ambiguità e mistero stringono da ogni lato le gioie illusorie del Finale, pullulante di mirabili melodie la cui quasi provocatoria innocenza è vanificata dalla profondità degli orizzonti elaborativi che dischiudono immediatamente dietro di sé: come avverrà per la «Jupiter», la neutra superficie del do maggiore mozartiano non promette facili certezze, ma cela grandiose incognite.

Giovanni Carli Ballola


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 24 novembre 1994
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Nazionale di santa Cecilia,
Roma, Sala Accademica di via dei Greci, 6 novembre 1973


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Ultimo aggiornamento 20 febbraio 2014