Quartetto per archi n. 10 in do maggiore, K 170


Musica: Wolfgang Amadeus Mozart (1756 - 1791)
  1. Andante (do maggiore)
  2. Minuetto (do maggiore)
  3. Un poco Adagio (sol maggiore)
  4. Rondò Allegro (do maggiore)
Organico: 2 violini, viola, violoncello
Composizione: Vienna, agosto 1773
Edizione: Artaria, Vienna, 1792
Guida all'ascolto (nota 1)

Il terzo dei quartetti, K 170, in do maggiore, inizia con un «Andante» in forma di variazioni, citazione dal primo movimento del terzo quartetto dell'op. 17 di Haydn. Tema, quattro variazioni e di nuovo il Thema, come indicato in partitura. Il motivo iniziale, breve, marcato, ripetuto nel previsto da capo, possiede un'eloquenza diretta, con quell'attacco forte del primo violino sul quale si innestano, ognuno con una diversa figurazione, gli altri compagni di viaggio, subito entrando in dialogo. Il frequente ricorso a pause di durata, più che manifestarsi come intuizione drammaturgica, più che preludere a un cambio di passo, crea un effetto retorico di sorpresa, facendo credere che l'esposizione finisca qui, mentre il percorso non è ancora concluso - come una gag, anch'essa mutuata da Haydn, che aveva capito bene come interpreti e pubblico gradissero questi improvvisi pizzicotti sonori, capaci di catturare l'attenzione anche del più distratto spettatore. E le pause indicate da Mozart tra battuta 15 e 16 servono a creare quell'asimmetria cui si è accennato.

Le quattro variazioni sono tutte di carattere: non sviluppano le potenzialità insite nel tema d'avvio, sono piuttosto degli ornamenti che ravvivano il percorso. Netto il protagonismo brillante nelle quartine del primo violino nella prima variazione; secondo, viola e violoncello guidano il cammino nella seconda, dapprima assieme, poi dividendosi e ricomponendosi, mentre il primo violino continua a starsene da solo lì in alto; nella terza prevale l'umorismo, nella raffigurazione del procedere dapprima esitante, poi più spavaldo nelle alzate di capo del primo violino, che nella quarta variazione Mozart rende buffo in quel suo voler svettare a ogni costo: lui tutto vanitoso in cielo, e gli altri che lo guardano da terra. Dopo questo divertissement costruito in quattro brevi capitoletti, riprende il tema dell'inizio, il ricorso alla pausa di sorpresa si accentua, le note ritornano a essere puntate, ben scandite, un efficace effetto di sforzando carica, il peso del suono prima della chiusa, che avviene proprio così come la si poteva attendere.

Per essere un minuetto, il secondo movimento possiede un andamento piuttosto ruvido, più icastico che aggraziato; il peso non è lieve, le figurazioni sono inquiete, non rispettose di un tempo e di un passo congrui a questa danza. Nel trio, con il cambio di tonalità da do maggiore a do minore, nasce una idea nuova, nel susseguirsi di vuoti e di pieni, con la sestina del primo violino all'avvio e la risposta interrogativa piano dei tre altri strumenti, che seguono percorsi diversi, non rassicuranti, accentuati dai frequenti cromatismi, lievemente destabilizzanti. Un passaggio tutt'altro che scontato, a differenza della chiusa del trio, molto rapida, che precede il ritorno del minuetto da capo.

Il canto del primo violino nel terzo movimento, «Un poco adagio» (il più ampio del quartetto), si innalza su un accompagnamento ostinato e piano, scandito dall'alternanza di pieno e di vuoto - una nota, una pausa, una nota, una pausa -, nella grazia perfetta di una sobria melodia mozartiana, che chiede soltanto di distendersi nel tempo dell'esecuzione e in quello interiore dell'ascolto. Forse per evitare il rischio (ma chi lo avverte?) della monotonia, stacca improvviso un ghiribizzo di semicrome del primo, al quale risponde, all'eufonica distanza di una terza, il secondo violino. Un'accelerazione, resa umbratile dai passaggi della viola, in un movimento che trova la ragion d'essere nella costanza del proprio andare, del proprio tempo sospeso. E la ritrova nelle battute finali, in un pianissimo che dissolve, semplicemente, sulla corona conclusiva, da tenere il più a lungo possibile. Ma le due ultime battute sono troppo poche e frettolose per poter ricreare il clima dell'inizio.

Il rondò fila via in un veloce allegro in tempo di 2/4, con quella frase discendente, tre volte ripetuta, netta come un motto, che subito entra nell'orecchio e nella memoria e fa venire voglia di canticchiarla: i compositori, allora, pensavano anche a questo, a scrivere un tema, una melodia che restassero bene impressi, come ancora si usa nelle canzoni. Il rondò si prestava benissimo alla scopo e la sua fortuna durerà a lungo, nella musica strumentale come in quella vocale:

[...] il rondò, pezzo originariamente basato sul periodico ritorno dello stesso tema, ogni volta più o meno variato, poi volto a designare semplicemente un pezzo d'esibizione virtuosistica, segnatamente quello affidato alla prima donna a conclusione dell'opera. Ma s'incontrano anche forme estremamente libere, capricciose, nelle quali anche senza mutare il tempo sono adoperati una mezza dozzina di temi diversi, disposti secondo un sistema di ritorni quanto mai fantasioso (esempio tipico la cavatina di Figaro nel Barbiere, «Largo al factotum»). (Fedele D'Amico)

Nel «Rondeaux» del K 170 la serie delle quattro riprese del motivo iniziale, collegate da brevi episodi di raccordo, inizia in un'alternanza dell'intensità del suono e dei valori di durata - più veloci, più misurati -, in un complice gioco di sguardi tra i quattro strumenti, mentre il primo violino è sempre pronto a imboccare la strada per conto suo, a precedere il gruppo, che lo riprende, per arrivare tutti assieme, sorridendo, alla conclusione.

Sandro Cappelletto


(1) Sandro Cappelletto, I quartetti per archi di Mozart. Il Saggiatore s.r.l., Milano 2016, pp. 83 - 85


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Ultimo aggiornamento 25 aprile 2016