Si sa che Mozart scrisse un Concerto per oboe e orchestra per l'oboista Giuseppe Ferlendis che fece parte dell'orchestra di Salisburgo dal 1° aprile 1777 al 31 luglio 1778, dopo di che andò nel 1795 con Haydn a Londra e morì probabilmente a Lisbona nel 1802. Si ritiene che Mozart abbia composto il Concerto per oboe e orchestra tra il 1° aprile e il 27 settembre 1777, secondo quanto si ricava da una lettera inviata dal musicista al padre in data 15 ottobre 1777. Il 3 dicembre dello stesso anno Mozart scrisse da Mannheim al padre, dicendo: «Ho presentato all'oboista Friedrich Ramm il mio Concerto per oboe e orchestra». Il 14 dicembre successivo, con un'altra lettera al padre, annuncia: «Ramm ha suonato per la quinta volta il mio Concerto per oboe scritto per Ferlendis. È stato un grande successo; quest'opera è il cavallo di battaglia di Ramm». Durante la permanenza a Mannheim Mozart conobbe in casa di J. B. Wendling un olandese molto ricco, chiamato De Jean, il quale gli chiese di comporre per lui, dietro pagamento di 200 fiorini, tre concerti facili e qualche quartetto con flauto. Mozart si mise subito al lavoro e terminò il 25 dicembre dello stesso anno i Quartetti con flauto in re maggiore K. 285, K.285a e b e K. 313. Il 14 febbraio Mozart annuncia di aver composto due concerti e tre quartetti, ma De Jean gli consegna 96 fiorini al posto dei 200 promessi e parte per Parigi. Il motivo di questo taglio sulla cifra pattuita sembra dovuto al fatto che il secondo dei due Concerti per flauto e orchestra non era altro che una trascrizione del Concerto per oboe e orchestra composto in precedenza per Ferlendis. Mozart torna a parlare del Concerto per oboe in una lettera invata al padre il 15 febbraio 1783: «Ti prego di spedirmi il volume con il Concerto per oboe scritto per Ramm e Ferlendis. Ne ho bisogno per l'oboista Anton Mayer». Mozart ricevette il materiale il 29 marzo, ma da allora non si seppe più nulla della partitura originale di questo Concerto. Fu Bernhard Paumgartner, fedele e appassionato studioso e divulgatore dell'opera mozartiana, a ritrovare nel 1920 al Mozarteum di Salisburgo un pacco di parti per orchestra, su cui c'era scritto in calce: "Concerto in do per oboe principale e due violini, due oboi, due corni, viola e basso del signor W. A. Mozart". La prima preoccupazione fu di controllare se si trattasse di una trascrizione o della versione originale: Paumgartner, dopo attenti confronti di natura tecnica, tenendo conto anche dell'edizione completa delle opere di Mozart curata con l'aiuto di Brahms nel 1883, decise che il Concerto in do maggiore per oboe e orchestra, oggi in prima esecuzione nei concerti dell'Accademia, era lo stesso composto dal musicista a Salisburgo per Ferlendis nell'estate del 1777.
Il Concerto,
della durata di 19 minuti, ha una freschezza e una spigliatezza
melodica di gusto mozartiano e l'oboe solista vi svolge un ruolo di
straordinaria eleganza sonora, nel rispetto delle regole della musica
di intrattenimento, non mancando di primeggiare in cadenze brillanti e
piacevoli, secondo quel classicismo inimitabile che appartiene
interamente allo stile del compositore di Salisburgo. L'Allegro iniziale,
in perfetta aderenza alla forma tipica del concerto per strumento
solista e orchestra, ha un carattere gaio e frizzante. Ad una breve
introduzione orchestrale, nella quale si presentano i due temi
sviluppati poi nel corso del brano, segue l'entrata dell'oboe solista,
ponendo in evidenza la linea melodica tra figurazioni arpeggiate,
scale, trilli e staccati. L'oboe propone eleganti armonie su leggere
punteggiature dell'orchestra, che conclude il tempo con spumeggianti
arpeggi in do maggiore, dopo la cadenza del solista. Ancora l'orchestra
apre l'Adagio non troppo
del secondo tempo e presenta il tema su un unisono. L'oboe con frasi
estremamente melodiche domina questo movimento ed espone una nuova
cadenza, prima della conclusione affidata alla sola orchestra. L'Allegretto finale
è un rondò di indubbio effetto musicale; la linea
del discorso dell'oboe è assecondata dall'orchestra, che ne
sottolinea il tono scherzoso, riprendendo spesso, con procedimenti a
canone, alcune cellule melodiche. In questo terzo tempo si avverte in
modo più spiccato il gioco contrappuntistico, confluente in
una chiusa gaia e spensierata, nella più serena fiducia nel
potere trasfigurante dell'arte dei suoni.