Messa in do minore per soli, coro e orchestra, K1 427 (K6 417a)


Musica: Wolfgang Amadeus Mozart (1756 - 1791)
  1. Kyrie - soprano e coro - Andante moderato (do minore)
  2. Gloria - coro - Allegro vivace (do maggiore)
    1. Laudamus te - soprano - Allegro aperto (fa maggiore)
    2. Gratias agimus - coro - Adagio (la minore)
    3. Domine Deus, Rex coelestis - soprano e contralto - Allegro moderato (re minore)
    4. Qui tollis peccata mundi - doppio coro - Largo (sol minore)
    5. Quoniam tu solus sanctus - soprano, contralto e tenore - Allegro (mi minore)
    6. Jesu Christe - coro - Adagio (do maggiore)
    7. Cum sancto Spiritu - coro - Allegro (do maggiore)
  3. Credo - coro - Allegro maestoso (do maggiore) schizzo
    1. Et incarnatus est - soprano - Andante (fa maggiore)
  4. Sanctus - doppio coro - Largo (do maggiore)
    1. Osanna - coro - Allegro comodo (do maggiore)
  5. Benedictus - soli - Allegro comodo (la minore)
    1. Osanna - doppio coro - Allegro comodo (do maggiore)
Organico: soprano, contralto, tenore, basso, doppio coro misto, flauto, 2 oboi, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, archi
Composizione: Vienna, 17 agosto 1782 - maggio 1783
Prima esecuzione: Salisburgo, Peterkirche, 25 agosto 1783
Edizione: Andrè, Offenbach 1840
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

I due massimi capolavori di Wolfgang Amadeus Mozart nell'ambito della musica sacra, la Messa in do minore K. 427 (K. 417 a) e il Requiem in re minore K. 626, rimasero entrambi incompiuti. Fu la morte a fermare per sempre la mano di Mozart mentre vergava il Lacrimosa del Requiem, mentre l'incompiutezza della Messa deve essere attribuita a cause meno tragiche. Mozart aveva infatti iniziato a comporla per una sua autonoma decisione, uscendo per una volta dal sistema della committenza che regolava la produzione musicale dell'epoca; ma i tempi non erano maturi perché un musicista potesse liberamente dedicare il suo tempo a una composizione priva d'una precisa destinazione e quindi la Messa in do minore fu messa da parte a favore di lavori più urgenti. Invece Mozart non lasciò mai a metà le musiche sacre connesse ai suoi impegni salisburghesi. Non dipendere per una volta da una precisa committenza permise però a Mozart di concepire liberamente questa Messa su una scala più ampia e complessa, mentre fino allora aveva dovuto ottemperare alle imposizioni del suo "padrone", il principe-arcivescovo di Salisburgo, che dalla musica sacra pretendeva semplicità e brevità.

La Messa in do minore non obbediva dunque a una committenza, ma fu concepita da Mozart come un'offerta votiva per il superamento delle difficoltà che si frapponevano al suo matrimonio e allo stesso tempo come un dono all'amata Konstanze. In una lettera inviata al padre da Vienna il 4 gennaio 1783, il ventisettenne Wolfgang rivela di aver fatto "una promessa nel [suo] cuore" e che "la migliore prova di questa promessa è la partitura d'una Messa che ancora aspetta d'essere completata". Da questa stessa lettera si deduce che fin dall'inizio Mozart pensava di far eseguire la sua Messa a Salisburgo. Effettivamente la prima volta che si recò da Vienna a Salisburgo dopo il suo matrimonio portò con sé la partitura e continuò a lavorarvi, ma il giorno previsto per l'esecuzione, il 26 ottobre 1783, la Messa era ancora incompiuta e probabilmente venne integrata con pezzi di altre messe di Mozart.

Il giorno dopo il compositore ripartì per Vienna e non avrebbe più visto la sua città natale, né avrebbe più portato a termine questa Messa, di cui aveva scritto per intero il Kyrie, il Gloria e il Sanctus-Benedictus, mentre il Credo era interrotto all'lncarnatus est e per di più era lacunoso nell'orchestrazione e l'Agnus Dei mancava totalmente. Due anni dopo, a Vienna, avrebbe riutilizzato il Kyrie e il Gloria nell'oratorio Davide penitente K. 469.

Nonostante l'incompiutezza, la Messa in do minore è la più vasta, complessa e impegnativa composizione sacra di Mozart. Come Bach nella Messa in si minore e Beethoven nella Missa solemnis, anche Mozart riprende qui gli stili della musica sacra delle epoche precedenti, quasi a voler ancorare saldamente la sua Messa alla tradizione. Attinge a Bach e Händel, da lui scoperti e studiati proprio in quegli anni, e anche agli italiani, come Caldara, Porpora e Pergolesi, scrivendo una "personale summa theologica del sacro in musica, i cui principi vengono desunti da una sterminata eredità artistica dagli orizzonti europei, sviluppata più in estensione geografica che in profondità storica, non rimontando oltre i limiti del XVIII secolo, il solo che il compositore ritenesse attingibile e spiritualmente frequentabile" (Giovanni Carli Ballola).

Subito il Kyrie rivela la compenetrazione dell'elemento oggettivo dello stile sacro con quello soggettivo dell'espressione individuale, quando la severa polifonia corale e la voce grave e maestosa dei tromboni vengono amalgamate nell'intima e sofferta tonalità di do minore, o quando il dolente cromatismo del motivo dei soprani e dei contralti viene sviluppato in rigoroso stile imitato. Al centro del Kyrie s'inserisce il luminoso solo per soprano del Christe, affettuoso omaggio alla moglie Konstanze, che cantò questa parte nella prima esecuzione della Messa.

Il Gloria si apre con una chiara reminiscenza dello stile di Händel, evidente nella stretta alternanza di possenti e gloriosi accordi e di dinamici ed esultanti passaggi contrappuntistici, con una citazione quasi letterale dell'Alleluja del Messiah. Tutto il Gloria è concepito su scala monumentale ed è diviso in otto numeri. Un'aria tripartita col "da capo" (Laudamus Te), un duetto per due soprani (Domine Deus) e un terzetto per due soprani e tenore (Quoniam tu solus sanctus) si alternano a due possenti episodi corali a cinque voci (Gratias agimus) e a doppio coro (Qui tollis). È suggellato dalla grandiosa fuga del Cum Sancto Spiritu, che fornisce una conclusione adeguatamente solenne, che però Mozart sottrae a ogni manierata magniloquenza con l'inserzione di elementi del moderno linguaggio sinfonico, apportatore di un'emozione più viva e drammatica.

L'incompiuto Credo consta di due sole parti, entrambe lacunose nell'orchestrazione, che può tuttavia essere completata senza problemi insormontabili. Il primo pezzo è un maestoso coro a cinque voci, fitto di riferimenti alla musica tardobarocca, a cominciare dall'ampia introduzione orchestrale, memore ancora una volta di Händel, in particolare delle sue Ouvertures.

L'Et incarnatus est è un altro solo offerto alla voce dell'amata Konstanze: una pagina nel cullante ritmo di siciliana, raccolta, tenera, delicata, che trasfigura il virtuosismo vocale in estatico lirismo, come nel lunghissimo vocalizzo della cadenza che unisce al soprano tre strumenti obbligati (flauto, oboe e fagotto). È stato più volte sottolineato lo stile italianeggiante di questo brano.

Dopo questa melodiosa aria Mozart ritorna alla grandiosità tiel doppio coro col Sanctus, questa volta senza reminiscenze barocche ma con sintetico e audace stile moderno, culminante nel possente "pieni sunt coeli et terra gloria tua", che sembra raffigurare musicalmente tutta la magnificenza divina. Qui s'innesta la fuga dell'Osanna, nel cui serrato contrappunto si scorge chiaramente Bach.

Il Benedictus è riservato alle quattro voci soliste ma non concede nulla a dolcezze melodiche d'ascendenza operistica e procede con un aspro e spigoloso contrappunto, mentre modulazioni tipicamente mozartiane a tonalità minori immergono il brano in un'atmosfera inquieta e ansiosa, prima della trionfale ripresa della fuga dell'Osanna.

Mauro Mariani

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il sacro e il profano nella musica religiosa è una questione infruttuosamente dibattuta dal tempo — si può dire — dei «travestimenti spirituali» del Rinascimento fino a tutto il Novecento: convenzioni, stilèmi, talvolta fumose sovrastrutture rendevano difficile l'analisi e una netta suddivisione fra i due generi. (La «Messa da Requiem» di Verdi, cui fu a lungo negato un significato sacro, costituisce forse l'esempio emblematico per eccellenza).

Nel caso di un compositore come Mozart che il problema religioso visse in stretta consonanza con la propria sfera estetica imbevuta — come dimostrano le sue opere — di «giusnaturalistica fiducia nell'età dell'oro» e, soprattutto nelle ultime composizioni, in perfetta sintonia con i dettami della massoneria, la ricerca non può prescindere dall'«iter» biografico e dalle dichiarazioni dello stesso musicista.

Nato in ambiente cattolico qual era quello salisburghese e da una famiglia sinceramente osservante, Mozart che pur da giovane dimostrava una genuina religiosità, veniva nondimeno rimproverato dal padre per una certa inadempienza ai suoi doveri di fedele. «Papà non deve preoccuparsi — scriveva il 25 ottobre 1777 — perché Dio mi è sempre dinanzi agli occhi». Ma Leopold niente affatto tranquillizzato: «Posso chiedere se Wolfgang non ha dimenticato la confessione? Iddio deve sempre venire prima di tutto!» (15 dicembre 1777). In realtà — e forse non si trattò solo di un prosaico calcolo economico — Mozart cercò una sistemazione come maestro di cappella in diverse sedi: presso Karl Theodor del Palatinato, Karl Eugen duca del Württemberg o la corte arcivescovile di Salisburgo. Va forse accettata la tesi di Srbik che sottolinea un solido rapporto di fedeltà all'idea del Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca, che si stava ormai dissolvendo.

La religiosità di Wolfgang piuttosto che nei termini di una rigida ortodossia deve essere inquadrata alla luce di un latente fatalismo, il quale giustificherà poi l'adesione al movimento dei massoni. Troviamo una significativa testimonianza di questo atteggiamento in occasione della morte della madre che lo aveva accompagnato a Parigi per un giro di concerti, e, proprio nella città francese, si era spenta. Il fedele amico di casa Mozart, l'abate Bullinger, viene messo al corrente della tragica scomparsa: «Vi devo dire che mia Madre, la mia cara Madre non è più! Iddio l'ha chiamata a sé. Voleva averla, è chiaro. E perciò mi rimetto alla Sua volontà».

Mozart scrisse musica religiosa durante tutta la sua vita: a 10 anni componeva un breve «Kyrie» (K. 33) e nel periodo della sua malattia lavorava alacremente al «Requiem» rimasto poi incompiuto. Escludendo le opere strumentali (Sonate da chiesa destinate al servizio liturgico) e quelle legate per il loro spirito alla massoneria, la produzione comprende 18 Messe, il Requiem, 8 Litanie o Vespri, 34 lavori di vario genere (Kyrie, Offertori, Antifone, Mottetti, Inni). Iniziò studiando sulle musiche sacre di Karl Georg Reutter, su quelle venate di tenero lirismo di Johann Adolf Hasse e tenendo presente i compositori di Salisburgo: Ernst Eberlin, Anton C. Adlgasser, il padre Leopold e Michael Haydn. L'influenza italiana nelle composizioni di questo primo periodo è palese soprattutto nella giustapposizione vocale di soli-tutti che rimanda ai modelli veneti oppure nelle arie di «coloratura» mutuate dall'opera napoletana. Successivamente (1769-1772) l'avvincente onda wertheriana e dello Sturm und Drang lo influenzò in modo determinante sospingendolo verso un'intensità espressiva più profonda e matura. Il «Crucifixus» della «Messa solenne in do minore» (K. 139), per esempio, composto nel solco della tradizione strumentale di Salisburgo, produce, con il cupo impasto timbrico di trombe con sordina e tromboni, un'immagine di impressionante dolore.

Nel 1772, di ritorno dal terzo viaggio in Italia, nel suo ruolo di Konzertmeister alla corte dell'arcivescovo Colloredo, dovette adattarsi alla volontà del sovrano. Più brevi e concisi i lavori sacri vedono ora l'alternarsi frequente di contrappunto e omofonia, mentre il fugato e l'imitazione vengono trattati con grande perfezione formale. (Val la pena di ricordare un'ipotesi azzardata da Geiringer che rileva un'intrusione dell'arcivescovo perfino nella scelta della tonalità: i due terzi delle Messe scritte per Salisburgo sono in do maggiore, la tonalità prediletta dal suo signore).

Il rapporto fra i due — com'è noto — fu molto burrascoso anche se la critica mette oggi in dubbio che la colpa sia tutta da imputarsi al burbero e accentratore arcivescovo. Fatto sta che Mozart il 9 maggio 1781 preparò i suoi bagagli e parti da Salisburgo alla volta di Vienna: «La mia pazienza è stata messa a dura prova per molto tempo — scrive al padre — e alla fine è scoppiata. Non ho più l'enorme sventura di essere al servizio salisburghese. Oggi è stato il giorno più felice della mia vita». A Vienna andò ad abitare nella casa della sua futura suocera e durante il periodo di fidanzamento con Costanza Weber viene comunemente registrato un maggior entusiasmo devozionale: i due futuri sposi andavano in Chiesa ascoltando insieme la messa e confessandosi. Ma Greither con pungente ironia sottolinea l'abilità di Cecilia Weber «nell'accoppiare l'attrazione erotica alla bigotteria» e un tentativo di Wolfgang di «tranquillizzare almeno dal punto di vista religioso quel rigido cattolico» di suo padre «che non voleva saperne dei Weber».

La «Messa in do minore» K. 427 nacque da un voto che il compositore aveva formulato nel caso in cui il suo fidanzamento con Costanza avesse avuto esito favorevole e avesse potuto condurla in sposa a Salisburgo. «La partitura della prima metà della Messa che ancora aspetta di essere completata è la miglior prova della promessa da me fatta» (lettera al padre, 4 gennaio 1783). Ma l'opera non fu in realtà mai terminata. Nell'agosto 1783 «Kyrie», «Gloria», «Sanctus» e «Benedictus» erano ultimati; del «Credo» invece solo la prima parte e l'abbozzo dell'«Et incarnatus est»; mancante l'intero «Agnus Dei».

Il lavoro fu eseguito a Salisburgo il 26 ottobre nella cappella di S. Pietro: Costanza cantò alcuni a solo per soprano mentre Mozart avrebbe completato le parti lacunose della Messa con brani desunti da altre sue opere. (Nel 1901 Aloys Schmitt si impegnò — anche se percorrendo una strada filologicamente poco attendibile — a offrire una versione completa utilizzando alcuni pezzi tratti da lavori sacri dello stesso Mozart). Il compositore dal canto suo fece confluire nel 1785 parti della Messa nella cantata «Davidde penitente» (K. 469) commissionatagli dalla Società dei musicisti per un concerto di beneficienza; la traduzione in italiano era stata affidata a quell'abile librettista e uomo di teatro che era Lorenzo da Ponte.

Per la sua complessa e monumentale architettura quest'opera è uno degli esempi più convincenti di polifonia barocca che si rifà nella sua struttura portante ai modelli di Bach e di Haendel, da Mozart studiati dietro consiglio di Van Swieten. Il «Gratias» a cinque voci in la minore, contraddistinto dal maestoso rilievo del coro è suddiviso in sette parti indipendenti; la quarta sezione («Qui tollis») nella tonalità di sol minore, è costruita su un doppio coro a otto voci che suggerisce a Hermann Abert l'immagine di una «immensa processione di penitenti congiunti in profonda disperazione intorno alla Croce e poi dileguantisi in lontananza».

Il fiorito virtuosismo vocale degli a solo del soprano nel «Kyrie», nel «Laudamus te» e nell'aria dell'«Et incarnatus est», oppure il delicato duetto per due soprani del «Domine Deus», sono invece il frutto di quel prodigioso processo di assimilazione-rimeditazione del patrimonio linguistico italiano. Il ricco organico - dal quale sono esclusi i soli clarinetti, non reperibili a Salisburgo - evidenzia al massimo tutte le potenzialità timbriche con un interessante uso di trombe e tromboni («Kyrie» e «Sanctus») trattati in modo indipendente dal consueto sostegno vocale.

Effetti di grandioso rilievo drammatico sono riscontrabili in ogni pagina della partitura; segnaliamo in particolare il concertato dei due soprani nel «Gratias», l'incisiva alternanza piano-forte nel «Qui tollis», la fuga del «Cum sancto spiritu» che chiude con le quattro voci all'unisono, la doppia fuga del «Sanctus» da cui Mozart soppresse il contralto per creare un maggior contrasto attraverso la netta giustapposizione del registro acuto e basso.

Otto Jahn, uno dei più noti storiografi mozartiani dell'Ottocento, che pur non dimostra di apprezzare granché questa Messa, riserva all'«Et incarnatus est» una particolare attenzione. In effetti questa parte, che si apre dopo il cromatismo discendente del «Credo» — secondo un tipico ideogramma pre-barocco e barocco, alle parole «Descendit de coelis» — merita un posto a sé. Inaccettata dai puristi per il suo carattere profano questa «scena pastorale» è una vera e propria «aria» per soprano con archi, flauto, oboe e fagotto obbligati. Il cullante ritmo di 6/8, la finezza espressiva delle ventidue battute di cadenza nella sottile trama di abbellimenti, sembrano quasi la conferma del sentire religioso di Mozart. Nient'affatto ascetico o dogmatico, questo è permeato, invece, di un amore ingenuo per l'umanità, vista nella prospettiva massonica come depositaria di un messaggio di fratellanza e solidarietà. Molti studiosi riscontrano a questo proposito come nel pensiero di Mozart non vi sìa alcuna dicotomia fra massoneria e religione ma anzi una simbiotica e perfetta fusione: nell'anno della sua morte il compositore scriveva il massonico «Flauto magico» e metteva contemporaneamente in musica il testo liturgico del «Requiem». «Il Cattolicesimo e la Frammassoneria erano due sfere concentriche; ma la massoneria — l'anelito alla purificazione morale, il lavoro per il bene dell'umanità, l'intima conoscenza della morte — era la più alta, la più ampia, fra le due » (A. Einstein).

Fiamma Nicolodi

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Incompleta, non finita, lasciata in sospeso con i gesti titanici di una michelangiolesca "Pietà": il carattere grandioso della Missa K 427 in do minore ("K 417a", secondo l'ultima catalogazione) procede di pari passo con il suo ergersi non compiuta. Monumentale nell'invenzione contrappuntistica, stupendamente barocca, corale e severa, appare tuttavia insieme squarciata da Arie di conturbante sensualità e virtuosismo.

Mozart non la terminò. Pur considerandola tra le partiture più care. Pur investendola di significati. Pur consegnando qui tra i pentagrammi messaggi nascosti, privati, amorosi e familiari, del tutto al di là della stretta funzione liturgica. Rimase anomala, nel ricco catalogo delle Messe, per la gioia dei musicologi che da subito la vollero completare, fornendone una serie di diverse edizioni a stampa. Non mostrava alcuna parentela con le sedici sorelle che l'avevano preceduta. A lei veniva consegnato il ruolo di essere l'ultima, la più solenne e sperimentale, abbacinante per dimensioni e profondità. Impossibile dire se fosse stata allora pensata proprio per essere ascoltata così, come un torso affacciato sull'abisso di pagine lasciate bianche.

Mozart la scrive tra i ventisei e i ventisette anni, a Vienna, nel primissimo periodo di libertà e indipendenza dalle regole e da tutto il resto, che gli erano state fino ad allora dettate dalla natia Salisburgo. Sarebbe morto a ben otto anni di distanza, dalla prima e unica esecuzione, avvenuta il 26 ottobre 1783, a Salisburgo. E se si pensa a quanto creò in quel lasso fecondo di tempo, fino al 1791, con i capolavori assoluti della storia del teatro (dalla trilogia su libretto di Da Ponte, Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte, alla Clemenza di Tito e allo Zauberflöte) riesce difficile spiegare perché non l'abbia terminata. E perché da qui in avanti abbia smesso di comporre Messe. Una porta chiusa, per sempre. Chiuso il confronto con una forma nobile, altamente rispettata e che aveva frequentato assiduamente. Che gli aveva offerto visibilità e prestigio: dodicenne aveva composto la prima, con la luminosità tutta speciale della "Weisenhausmesse" (Messa per la consacrazione della chiesa di un orfanotrofio, a Vienna) e da lì non si era più fermato. Le chiese di Salisburgo, in particolare le volte barocche dei benedettini di San Pietro, avevano ospitato con cadenza costante i capolavori delle sue Messe "brevis" o delle Messe solenni, una per tutte la Krönungsmesse, la Messa dell'Incoronazione.

Pur nella assiduità, queste sedici partiture non rappresentavano una semplice risposta a una committenza, non erano un esercizio di routine. Ciascuna possedeva infatti una personalità, dipanava radici di scuole diverse, dai viennesi agli italiani; ciascuna soprattutto palesava quella caratteristica che sarebbe stata poi tipica del teatro di Mozart, dove parola e musica diventavano tutt'uno.

Le Messe, con il loro latino obbligato e immancabilmente ripetuto, erano state un esercizio speciale in questo senso, una ricerca di variazioni emotive su un testo dato. Dove la fredda lingua antica si scopriva ricca di risonanze, eloquente, carica di affetti e di inedite potenzialità espressive. Il rito diventava un laboratorio di drammaturgia. Il sacro si offriva come umanissima scena teatrale. Pur racchiuse nel recinto degli anni salisburghesi, fino al 1780, le Messe costituivano un capitolo che Mozart non avrebbe dimenticato: non a caso utilizzerà i temi di due "Agnus Dei" salisburghesi per restituire un carattere sacrificale alle due Arie della Contessa nelle Nozze di Figaro, con "Porgi amor" presa dalla Missa solemnis K 337 e "Dove sono i bei momenti" dalla "Messa dell'Incoronazione".

Forte di questo illustre passato, perché Mozart non scrive più Messe negli anni viennesi? Banalmente si potrebbe rispondere: perché nessuno gliene chiedeva. Ma appunto, perché? Il trasferimento del compositore nella capitale dell'Impero coincide con la messa in atto da parte di Giuseppe II di una serie di riforme che riguardano anche i rapporti Stato/Chiesa, ad esempio l'abolizione di certe pratiche antiche come le decime, le percentuali di raccolto che i contadini erano obbligati a versare al clero, oppure la semplificazione dei fastosi riti connessi alle funzioni chiesastiche, come processioni o fastose sepolture. Nel 1781 l'imperatore proclamava un editto di tolleranza verso i protestanti, gli ebrei e gli ortodossi, e sforbiciava un cospicuo numero di festività religiose, quelle che avevano punteggiato il vivere quotidiano di tutte le classi sociali. Attese e amate, ricche di sfarzo sonoro, avevano anche provveduto a rendere un po' meno faticoso il quotidiano dei musicisti, compositori ed esecutori.

In questo improvviso depauperarsi del tessuto religioso (invise a tutti, nella cattolicissima Vienna, le riforme "dell'imperatore sacrestano" sarebbero state abolite alla di lui morte, nel 1790) Mozart comunque inizia a scrivere una Messa. Una grande Messa. Non ha committenti, se non sé stesso. Ne dà notizia al padre in una lettera, assai criptica e più multiforme rispetto ad altre, datata Vienna, 4 gennaio 1783. Dai primi di agosto dell'anno precedente è sposato con Costanze Weber. Nessuno della famiglia di lui ha partecipato al matrimonio, nella Cattedrale di Santo Stefano. È noto quanto fosse stato disapprovato. Ma è proprio da allora che Mozart desidera ritornare a Salisburgo, presentare la moglie, farla conoscere alla sorella Nannerl. Teme tuttavia di incappare in un arresto: l'8 giugno 1781 era stata la data fatidica del calcio nel sedere inflittogli da parte del conte Arco, gran maestro delle cucine presso la corte dell'arcivescovo di Colloredo, perché il compositore non rispettava i tempi e le consegne nei suoi spostamenti al di fuori di Salisburgo. Il rapporto di sudditanza non era però stato sancito da alcuna liberatoria. Il musicista lo sapeva. Era ancora un dipendente che non si era più presentato al lavoro. L'arresto una realistica possibilità.

Niente carcere per Mozart, all'arrivo a Salisburgo. Le alte sfere scelgono di ignorarlo. Tuttavia è proprio questa Messa ad assumere una funzione simbolica di lasciapassare: è una composizione alta, rappresenta il legame con i fili interrotti, può riassestare il profilo del giovane ribelle. Mozart in verità non scrive per convenienza, ma perché tutto in quello momento sembra andare a confluire lì: il desiderio di ritornare a casa (e sarebbe stato per l'ultima volta), un voto espresso per la guarigione di Costanze (forse ammalata all'inizio della prima gravidanza?) e soprattutto quell'innamoramento che gli è preso per le fughe di Händel e di Bach, per lo stile antico che ormai lo appassiona follemente, da quando ogni domenica frequenta e suona ai concerti privati a casa del barone van Swieten, che gli permette l'accesso alla mitica biblioteca, uno scrigno di tesori.

"Come prova della sincerità della mia promessa - scrive al padre, che evidentemente gli rimproverava qualche impegno disatteso - può servire la partitura di una messa composta a metà, che attende ancora di essere portata a termine." Dal diario di Nannerl, compilato come una semplice elencazione di fatti, privo di alcun commento, verremo poi a sapere che i due giovani sposi, freschi genitori, dopo aver lasciato il piccolo Raimund Leopold nato da un mese a una balia (morirà, a metà agosto) raggiungono Salisburgo. Da fine luglio a fine ottobre, la sorella di Mozart annota gli avvenimenti quotidiani: una quantità incredibile di Messe, seguite come al solito di primo mattino, visite ai musicisti di stanza a Salisburgo, passeggiate, bagni, gelati. Il 23 ottobre si tiene una prova della Messa, il 26, domenica, compare la notizia: "Alla funzione in San Pietro è stata eseguita la messa di mio fratello. Erano presenti tutti i musicisti della corte."

La sera pioveva. Quella sarebbe stata l'unica presentazione in pubblico della Messa in do minore. Anche allora avvenne in forma incompiuta, probabilmente integrata con parti di altre Messe. Mozart dirigeva, Costanze cantò la parte solistica del soprano nel "Christe eleison: una melodia di pura grazia, identica a quella di un "Solfeggio K 393" scritto amorosamente per lei, come facevano i maestri di canto per gli allievi, nei Conservatori napoletani. Ma una espressa dedica si sente anche nell'"Et incarnatus est", il numero sul quale il "Credo" si interrompe: con l'andamento pastorale in 6/8, la tinta morbida di fa maggiore, ricordava in tutto le scene da presepe, nelle Cantate, omaggio qui alla sua recente maternità.

Ma accanto alle dediche esplicite a Costanze, la nuova condizione di musicista libero permetteva al compositore di mettere in partitura solo quanto gli interessava: così al "Kyrie" seguiva un gigantesco "Gloria", distribuito in sette parti di inusitata grandezza, contrastanti e complesse; poi, dopo il "Credo" appena schizzato, fermo alla melodia soave del mistero dell'incarnazione, seguivano "Sanctus" e "Benedictus", con corollario dei rispettivi "Osanna". Mentre curiosamente, questa volta degli amati "Agnus Dei" non compariva traccia. Proprio perché incompleta, la partitura consegnava la Messa più complessa, astratta, la più ardita negli esperimenti combinatori. A Salisburgo Mozart era arrivato portando i fascicoli da completare, i pentagrammi da orchestrare; a Vienna sarebbe tornato con il capolavoro non concluso. Segno che per lui andava bene così? Due anni dopo, nel marzo del 1785, alla richiesta di una pagina sacra dalla Società dei Concerti, per una serata di beneficienza in favore delle vedove dei musicisti, la Messa in do minore sarebbe rinata, con una incredibile mutazione: identica la musica di "Kyrie" e "Gloria", ma sopra plasmando le parole tradotte in italiano di Salmi biblici, dal Primo Libro di Samuele. Aderenza perfetta, perfetta 'parodia', la Messa diventava definitivamente la Cantata "Davide penitente K 469". Per il compositore, il capitolo era chiuso.

Non per noi. Quando infatti l'editore Johann Anton André rilevò i manoscritti mozartiani, nella prima stampa della Messa, nel 1840 comparvero integrazioni scoperte "in un monastero in Baviera" (dette "copia Fischer"): perfette per giustificare una pubblicazione eseguibile della Messa, all'interno della liturgia della Chiesa cattolica. Quarantanni dopo, nel 1882, per la pionieristica "Mozart Gesamtausgabe", il musicologo bachiano Philipp Spitta seguendo le tracce di André, riprese la Messa collocandola all'interno di questa encomiabile integrale, offrendole così una chance di uscire allo scoperto. Ma la partitura rimase pressoché sconosciuta. Bisognerà attendere il 1901, quando Alois Schmitt, compositore e direttore d'orchestra di Dresda, la eseguì per prima volta in pubblico, integrando i numeri mancanti con estratti presi da composizioni precedenti di Mozart e reinventando così una versione completa, pubblicata da Breitkopf & Härtel. Fu questo testo a garantire la sopravvivenza esecutiva, fin quasi ai nostri giorni, del capolavoro dimenticato. In clima di "Mozart renaissance", con l'avvicinarsi del Bicentenario della nascita del compositore, le scelte di Schmitt, pur storicamente giustificate, risultavano inaccettabili. Ecco dunque nel 1956 il devoto H. C. Robbins Landon, studioso di Boston, fondamentale per la divulgazione mozartiana, approntare per l'editore Eulenburg una rinnovata edizione, ricostruita tornando indietro alle fonti, alla ricerca di un "Urtext", o testo originale, il più possibile veritiero.

Tolte le parti aggiunte, le 'particelle' (linea di canto e basso numerato) lasciate in stato embrionale da Mozart vennero completate il più filologicamente possibile. La Messa, così riproposta, non riempiva in toto la scansione liturgica, ma usciva come prezioso oggetto da concerto.

La musicologia non si è fermata qui, perché il sasso lanciato da Robbins Landon ha poi creato molteplici onde. Prima con le tre diverse edizioni, nate quasi contemporaneamente, a distanza di una trentina d'anni, firmate rispettivamente dal compositore Helmut Eder per Bärenreiter (la più nota e usata, pubblicata all'interno della nuova integrale, la Neue Mozart Ausgabe), da Richard Maunder per Oxford University Press e da Franz Beyer per Amadeus Verlag. Tutte hanno il vantaggio di riferirsi agli autografi, che ai tempi di Robbins Landon non erano disponibili, ancora per le eredità nefaste della Seconda guerra mondiale. Nel nostro tempo la lista dei 'completatori' oscilla tra le due scuole di pensiero, ossia tra quegli studiosi che ritengono necessaria l'integrazione delle parti mancanti (Philip Wilby, Novello, 2004, Robert Levin, Carus-Verlag, 2005) e quelli che invece optano per la restituzione di quanto rimasto nel manoscritto (Clemens Kemme, Breitkopf & Härtel, 2018, Ulrich Leisinger, Bärenreiter, 2019). C'è anche chi, come Robert Xavier Rodriguez, ha aggiunto persino il mai esistito "Agnus Dei".

Discutibili, controversi, accesi in dissertazioni senza fine, musicisti e studiosi contemporanei attestano comunque concordi un fatto incontestabile: la negletta e incompiuta, è la Messa più intrigante e moderna di Mozart. Con buona probabilità oggi la più eseguita. Subito seduttrice, già nell'attacco tanto misterioso del "Kyrie", in do minore, denso nella scrittura contrappuntistica, ma pronto a sciogliersi nella luminosità del "Christe", supplichevole e ricco di colorature nelle richieste di pietà, per ritornare poi alla austerità petrosa del "Kyrie" iniziale.

Le implorazioni deflagrano nella gioia esplosiva dellAllegro vivace, in do maggiore, del "Gloria", che molte filiazioni da Händel palesa, nella costruzione di una architettura aperta e spaziata, disegnata dalle voci del coro. Richiede il soprano solista la lode di "Laudamus te", fiorita di ampi vocalizzi e virtuosismo; l'Adagio in la minore di "Gratias agimus" riporta a un clima dolente, di scabra maestosità. Pagina davvero grandiosa, il "Gloria" accosta ancora i pannelli molto caratterizzati e diversi di "Domine Deus" (Allegro moderato, in re minore) per due soprani, accompagnati dai soli archi, "Qui tollis" (Largo, in sol minore) per doppio coro a quattro parti, scolpito e descrittivo nella policoralità antica, al quale segue per contrasto il "Quoniam" [Allegro, in mi minore) tribolato, diviso tra due soprani e tenore, a illustrare visivamente il contenuto del testo. Un lento Adagio, in do maggiore, ricrea un mondo sonoro anticato per la settima e ultima stazione: "Desu Christe" è un'invocazione di sei battute, che introduce la autentica fortezza dello spirito e del pensiero musicale del finale, "Cum Sancto Spirito": momento dove l'esercizio di scrittura fugata si fa più sopraffino, per culminare nel pacificato "Amen".

Al polittico immaginifico del "Gloria" seguono le due quinte del "Credo", che si fronteggiano come battenti di un grande portale, in netto contrasto: da una parte il do maggiore dei versetti iniziali del "Symbolum Nicenum", ritmicamente robusti, ostinati, dall'altra la dolcezza sopranile dell'Incarnazione, che culmina nella gemma di teatro sacro "Et homo factus est". A Mozart non interessa andare oltre. Quindi passa al coro del "Sanctus", un capolavoro di scrittura polifonica, pronto a sbocciare nella fuga ricercata e complessa dell'"Osanna", dalla cornice sbalzatissima. Riproposto ancora dopo il "Benedictus", festeggia con una giubilatoria, pacificante conclusione.

Carla Moreni

Testo delle parti vocali

KYRIE
CORO E SOPRANO
Kyrie, eleison.
Christe, eleison.
Kyrie, eleison.
Signore, pietà.
Cristo, pietà.
Signore, pietà.
GLORIA
CORO
Gloria in excelsis Deo et in terra pax
hominibus bonae voluntatis.
Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace
in terra agli uomini di buona volontà.
SOPRANO
Laudamus te, benedicimus te,
adoramus te, glorificamus te.
Noi ti lodiamo, ti benediciamo,
ti adoriamo, ti glorifichiamo.
CORO
Gratias agimus tibi propter magnam
gloriam tuam.
Ti rendiamo grazie
per la tua gloria immensa.
SOPRANO I e II
Domine Deus, Rex coelestis,
Pater Omnipotens, Domine,
Fili Unigenite, Jesu Christe,
Domine Deus, Agnus Dei,
Filius Patris.
Signore Dio, Re del cielo,
Dio Padre onnipotente,
Signore, Figlio unigenito, Gesù Cristo,
Signore Dio, Agnello di Dio,
Figlio del Padre.
CORO
Qui tollis peccata mundi,
miserere nobis, suscipe
deprecationem nostram.
Qui sedes ad dexteram Patris,
miserere nobis.
Tu che togli i peccati del mondo,
abbi pietà di noi,
accogli la nostra supplica.
Tu che siedi alla destra del Padre,
abbi pietà di noi.
SOPRANO I e II, TENORE
Quoniam Tu solus Sanctus, Tu solus
Dominus, Tu solus Altissimus.
Perché tu solo il Santo,
tu solo il Signore, tu solo l'Altissimo.
CORO
Jesu Christe, cum Sancto Spiritu
in gloria Dei Patris. Amen.
Gesù Cristo, con lo Spirito Santo
nella gloria di Dio Padre. Amen.
CREDO
(ricostruzione Helmut Eder)
CORO
Credo in unum Deum,
Patrem Omnipotentem,
factorem coeli et terrae,
visibilium omnium et invisibilium.
Et in unum Dominum, Jesum Christum,
Filium Dei, Unigenitum, et ex Patre natum
ante omnia saecula.
Deum de Deo, lumen de lumine,
Deum verum de Deo vero,
genitum, non factum
consubstantialem Patri,
per quem omnia facta sunt,
qui propter nos homines
et propter nostram salutem
descendit de coelis.
Credo in un solo Dio,
Padre onnipotente,
creatore del cielo e della terra,
di tutte le cose visibili e invisibili.
Credo in un solo Signore, Gesù Cristo,
unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre
prima di tutti i secoli.
Dio da Dio, Luce da Luce,
Dio vero da Dio vero,
generato, non creato;
della stessa sostanza del Padre;
per mezzo di lui tutte le cose
sono state create.
Per noi uomini e per la nostra
salvezza discese dal cielo.
SOPRANO
Et incarnatus est de Spiritu Sancto
ex Maria Virgine, et homo factus est.
E per opera dello Spirito Santo
si è incarnato nel seno della Vergine
Maria e si è fatto uomo.
SANCTUS
(ricostruzione Helmut Eder)
CORO
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus
Deus, Sabaoth.
Pieni sunt coeli et terra
gloria tua.
Osanna in excelsis.
Santo, Santo, Santo il Signore Dio
dell'universo.
I cieli e la terra sono pieni
della tua gloria.
Osanna nell'alto dei cieli.
BENEDICTUS
SOPRANO I e II, TENORE, BASSO
Benedictus qui venit
in nomine Domini.
Benedetto colui che viene
nel nome del Signore.
DOPPIO CORO
(ricostruzione Helmut Eder)
Osanna in excelsis. Osanna nell'alto dei cieli.

(1) Testo tratto dal programma di sala del concerto dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 5 marzo 2011
(2) Testo tratto dal programma di sala del concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Basilica di San Lorenzo, 6 giugno 1973
(3) Testo tratto dal programma di sala del concerto dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 23 febbraio 2023


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Ultimo aggiornamento 2 marzo 2023