Concerto per pianoforte n. 27 in si bemolle maggiore, K 595

Musica: Wolfgang Amadeus Mozart (1756 - 1791)
  1. Allegro (si bemolle maggiore)
  2. Larghetto (mi bemolle maggiore)
  3. Allegro (si bemolle maggiore)
Organico: pianoforte, flauto, 2 oboi, 2 fagotti, 2 corni, archi
Composizione: Vienna, 5 Gennaio 1791
Prima esecuzione: Vienna, Jahnscher Saal, 4 Marzo 1791
Edizione: Artaria, Vienna 1791
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Quando l'impresario Johann Peter Salomon giunse a Vienna per trattare con Haydn il suo soggiorno inglese, contattò anche Mozart per fargli un'offerta alle stesse condizioni. Sembra però che Mozart non abbia dato alcun seguito a questa proposta, così come non aveva preso in considerazione la lettera che l'amministratore dell'Opera italiana a Londra, Robert Bray O'Reilly, gli aveva fatto recapitare nell'ottobre 1790. O'Reilly gli offriva di rimanere in Inghilterra per alcuni mesi, al massimo fino a giugno 1791, con l'obbligo di scrivere due opere teatrali per un cachet di 300 sterline, corrispondenti alla cospicua cifra di 3000 fiorini austriaci. Probabilmente Mozart non se la sentì di lasciare sola la moglie, all'epoca in condizioni incerte di salute. Era inoltre impegnato in "casa" su vari fronti: si era attivato, dopo la morte di Giuseppe II e l'elezione di Leopoldo I, per il mantenimento e magari il miglioramento delle proprie condizioni a corte; si era anche mosso perché il suo valore di compositore nell'ambito della musica sacra venisse riconosciuto a corte e presso le più importanti istituzioni religiose viennesi; il teatro musicale lo impegnava anche nel continente, con riprese dei suoi drammi giocosi e con nuove composizioni. In più c'era l'attività di interprete, alla quale Mozart destinava, non dimentichiamolo, parte delle sue energie creative, attività che lo impegnava in manifestazioni di variegata importanza.

Proprio in una di queste occasioni, il 4 marzo 1791, egli presentò il Concerto per pianoforte e orchestra K. 595, iniziato nel 1788, messo da parte e poi terminato nel gennaio del 1791, ultima sua composizione del genere. L'esecuzione avvenne nei locali (era forse un ristorante) di un certo signor Jahn, durante un'"accademia" (cioè un'esibizione musicale con più autori ed esecutori) a beneficio del clarinettista Joseph Bähr. Ecco un "avviso" dell'epoca che da notizia di quella serata: «II signor Bähr, compositore di corte presso sua maestà l'imperatore di Russia, venerdì prossimo 4 marzo avrà l'onore di esibirsi più volte al clarinetto nei locali del signor Jahn in una grande accademia musicale. Nel corso della stessa serata canterà la signora Lange e il maestro di cappella Mozart suonerà un concerto sul fortepiano». La disponibilità di un'orchestra ridotta per via del limitato spazio dei locali, la necessità di calibrare i tempi in base alle esigenze degli altri solisti, furono aspetti che, oltre agli ovvi bisogni espressivi, spinsero forse Mozart ad approntare un Concerto più contenuto per lunghezza ed organico rispetto alle precedenti produzioni per pianoforte e orchestra. Il Concerto K. 595 è infatti un ibrido tra un Concerto vero e proprio e una creazione cameristica. Possiede dunque la brillante fluidità dialogica del Concerto e la ricercatezza di certe scelte cameristiche. Di mediare fra questi aspetti si incarica una scrittura pianistica composta e scorrevole.

Il primo movimento, Allegro, ha natura enigmatica avvertibile già dall'inizio: sembra viaggiare su binari galanti e nello stesso tempo introduce reiterate interruzioni; porta in campo una magica leggerezza e al contempo una recondita complessità espressiva. Durante gli interventi solistici, l'accompagnamento orchestrale interviene in modo molto parco, dando quasi una sfumatura di mistero all'eloquio del pianoforte. La rapida oscillazione tra modo maggiore e modo minore conferisce alla musica un mobilissimo chiaroscuro. La scrittura contrappuntistica, sempre dosata con sapienza comunicativa, è un tratto notevole dello sviluppo (la parte centrale del brano nel quale si elaborano i temi precedentemente uditi) alla fine del quale ci parrà quasi di levitare per la morbidezza dell'effetto con cui torna il tema d'apertura del brano. Il trattamento generale del ritmo ha qualcosa di ipnotico per la regolarità delle scelte.

Ipnotico è anche il secondo tempo, Larghetto, che si caratterizza per il morbido fascino melodico della Romanza, affidata dapprima al pianoforte e poi all'orchestra: è la citazione di una melodia tratta dall'opera La fedeltà premiata di Haydn. Tutto sembra estremamente semplice eppure inafferrabile. Sono poche note ma non desideriamo di più.

Parole valide anche per il finale, Allegro, nell'esordio del quale Mozart utilizza una melodia tratta da un Lied che stava scrivendo in quei giorni, Sehnsucht nach dem Frühling (Nostalgia di primavera, K. 596). Ed è in effetti un vago senso di nostalgia, come una rimembranza di primigenia felicità, che il movimento, e tutto il concerto, sembra evocare. Sconfinamenti nel modo minore, brioso andamento ritmico, tratti di elaborazione contrappuntistica, inaspettata suggestione timbrica; la speranza è che il Concerto non concluda mai.

Di quel 1791 Mozart vide poi la primavera e l'estate che seguì; l'ultima della sua vita: morì il 5 dicembre di quello stesso anno. Le sue stagioni erano finite; quelle della sua musica, per nostra grande fortuna, erano appena iniziate.

Simone Ciolfi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

È l'ultimo Concerto di Mozart ed uno dei più fortunati dell'intera sua produzione. Una composizione che, sebbene annotata sul catalogo delle composizioni che Mozart stesso redigeva, il 5 gennaio 1791, risale probabilmente agli ultimi anni Ottanta. Il ritardo dell'annotazione sul proprio catalogo è spiegabile con la stesura completa della composizione realizzata solo in vista dell'esecuzione del 4 marzo di quell'anno nel corso di un'accademia tenuta dal clarinettista Josef Beer. Analogamente a quanto succede per altre composizioni dell'ultimo anno di vita anche il Concerto in Si bemolle presenta quelle caratteristiche stilistiche, come l'attenuarsi dei contrasti, l'estrema fluidità delle idee, la padronanza dell'uso delle più complesse tecniche compositive, che hanno fatto parlare più di un critico di un "tardo stile" cui la prematura scomparsa del compositore non ha concesso ulteriori esiti. D'altro canto il carattere introspettivo della composizione, che presenta un'orchestra senza trombe né timpani, l'elaborato dialogo tra solista ed orchestra, che si intrecciano in un fittissimo gioco di motivi e di modulazioni, pongono questo Concerto in una posizione isolata rispetto al grosso della sua produzione concertistica. Nel primo movimento l'abbondanza di idee tematiche che si svolgono senza apparenti contrasti e con grande naturalezza non scardina la calcolata strutturazione in forma-sonata. Pur nella varietà del materiale utilizzato, Mozart riesce infatti nell'intento di conferire al movimento una grande unitarietà, uno scopo perseguito senza alcuno sforzo apparente, anzi tramite una notevole eleganza e fluidità del discorso musicale. L'esposizione, affidata al tutti orchestrale, viene ripresa e sviluppata dal solista, solo lunghi accordi tenuti dei fiati indicano che ci si sta avviando verso la sua conclusione e verso l'inizio dello sviluppo. Questo inizia nella tonalità di si minore, lontanissima dal si bemolle maggiore di impianto, tonalità che viene raggiunta in modo del tutto naturale. Il discorso prosegue con dialoghi sempre più serrati tra il solista e l'orchestra, anche con elaborazioni contrappuntistiche di elementi tematici. Il secondo movimento, organizzato in forma di Lied con una sezione centrale contrastante, inizia con l'esposizione del tema principale affidata al pianoforte senza alcun accompagnamento in un momento di assoluta magia. Chiude la composizione un finale, introdotto dal solista, in forma di rondò il cui tema principale, di una semplicità e bellezza disarmante, è stato utilizzato da Mozart anche per il Lied Komm, lieber Mai.

Andrea Rossi Espagnet

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Con il Concerto per pianoforte K. 595, dai primi anni del soggiorno viennese di Mozart ci trasferiamo agli ultimi: il Concerto, infatti, è portato a termine nei primi giorni di gennaio del 1791, l'anno che si concluderà con la morte del compositore. Il K. 595 è l'ultimo dei concerti per pianoforte e orchestra composti da Mozart, il quale lo esegue il 4 marzo 1791, nel corso di un'accademia che coincide con una delle sue ultime apparizioni pubbliche a Vienna. A quel concerto, Mozart non interviene da protagonista: la sua esibizione fa da contorno a quella del clarinettista Josef Beer. Segno, probabilmente, che la fortuna di Mozart presso il volubile pubblico viennese è ormai in declino. Ma Mozart, a quell'epoca, parla un linguaggio che non è fatto per solleticare orecchie amanti della socievolezza scorrevole o dei facili effetti appariscenti.

Con le ultime opere composte da Mozart, il Concerto K. 595 condivide l'introspezione, l'intimismo di un atteggiamento più cameristico che concertistico. Non è diverso dagli altri concerti mozartiani per rimpianto formale, lo è invece per l'atteggiamento espressivo: sembra rivolto meno al pubblico che a un ascoltatore ideale. Manca degli slanci appassionati o della vivacità trascinante che permeano altri lavori, ed è ricco invece di idee melodiche, semplici come quelle di un Lied popolare; vi si ritrova il tono dei Quartetti K. 589 e K. 590, del Concerto per clarinetto K. 622, di tante pagine del Flauto magico. Il lirismo prevale sul dramma e sul pathos; ma si tratta di un lirismo intimista e decantato, di un linguaggio rassegnato sino alla sublimazione. La tecnica esibita dal solista è poco appariscente, il virtuosismo è strettamente subordinato all'idea musicale; tra pianoforte e orchestra si dà un equilibrio perfetto, che sceglie la via dell'intreccio strettissimo anziché quella dell'opposizione dialettica. Con questo capolavoro, Mozart prendeva commiato da un genere che lui stesso aveva creato, e al quale aveva consegnato alcune delle sue composizioni più sublimi.

Sin dall'Allegro iniziale è subito chiaro che il tono socievole di molti concerti viennesi, con ciò che resta dello stile galante, è abbandonato in favore di inflessioni personali, di impennate espressive, di divagazioni meditabonde. Il tema principale nasce sommesso, quasi in sordina, da una tranquilla battuta d'accompagnamento: lontano quindi dal modo chiassoso con cui inizia solitamente un concerto. Nell'Esposizione, le melodie fioriscono: al primo tema ne seguono un secondo, morbido e disteso, e un terzo, increspato da acciaccature. Il discorso riserva la sorpresa di frequenti inflessioni inattese, come l'episodio in modo minore alla fine del Tutti orchestrale o quello che nell'Esposizione solistica introduce un nuovo motivo e divaga toccando tonalità lontane. Ma la sorpresa è creata, in molti altri luoghi, anche dai cromatismi, dagli sforzato e dai crescendo, dagli unisoni che increspano l'eloquio e vi introducono tensioni. Un linguaggio complesso, che tuttavia non disturba la cantabilità pervasiva del movimento né la grazia delle sue linee melodiche.

Il Larghetto, in semplice forma di Lied tripartito, assume i toni di una romanza: il pianoforte espone il tema sottovoce, con dolcezza; il movimento conserva sino alla fine l'espansività melodica della romanza, che qui tuttavia è più contenuta, temperata da una cantabilità più dolorosa. Il tema principale impiegato da Mozart proviene da un dramma pastorale di Haydn, La fedeltà premiata: si tratta del tema che introduce il recitativo di Fileno «Bastano i pianti... è tempo di morire»; il movimento mozartiano sembra sviluppare sino in fondo l'atteggiamento emotivo implicito nelle parole del personaggio haydniano.

Nel rondò conclusivo (Allegro, impostato nella consueta forma del rondò-sonata) un'atmosfera di spensierata gaiezza sembra prevalere su tutto: il tono generale è dato dal tema principale, giocoso, quasi infantile nella sua semplicità. Mozart impiega un tema strettamente affine nel Lied K. 596 «Sehnsucht nach dem Frühling» (Nostalgia di primavera), composto pochi giorni dopo il Concerto K. 595 e ispirato alla gioia per il ritorno della bella stagione. Nel rondò, come nel Lied, risuonano gli accenti di quella esuberanza eufonica, di quel tono semplice e popolare che è una costante nelle opere dell'ultimo Mozart e che troverà espressione, di li a poco, nelle arie di Papageno e in tante altre pagine del Flauto magico.

Claudio Toscani

Guida all'ascolto 4 (nota 4)

Uno dei luoghi comuni della letteratura dedicata ad un qualsiasi grande artista è quello, irresistibile, di conciliare nell'ultimo suo anno di vita il vertice più alto della produzione col presagio tormentoso della morte imminente. Anche Mozart ne è stato ovviamente contagiato: anzi, nessun musicista più di lui ha autorizzato una vasta letteratura romantica a rinvenire, nella parte liminare della sua esistenza, inquietanti ed angosciose premonizioni; ma per converso, nessun compositore, si incarica, quanto lui, a smentire questa pronta quanto indiscreta agiografia umana. Niente di più parziale, di più romanzato ed aleatorio è infatti il definire il 1791 essenzialmente come l'anno del conclusivo «Requiem»; opera struggente ed enigmatica, per di più rimasta in-compiuta: almeno per Mozart (ma anche per uno Schubert) il disordine esistenziale della vita quotidiana si incarica di scompigliare salutarmente questo appuntamento con la morte, la quale è un caso, così come la vita è una continua occasione. Ad esse è sottomessa ogni pretesa «logica» interiore della creazione.

Si vuol dire che se il 1790 era stato per Mozart l'anno nero degli insuccessi, delle incertezze, perfino dei turbamenti spirituali più funerei (espressi ad Haydn in partenza per Londra, contrattuato dall'impresario Salomon, che pensava di scritturare anche lo stesso Volfango, ma non fece a tempo), ecco che invece il 1791, l'anno di addio al mondo, si apriva sereno, così nelle circostanze creative come in quelle economiche. Gli vengono infatti commissionate le opere «Il Flauto magico» e «La clemenza di Tito» (la prima, aperta alla futura fantasia romantica, l'altra ancora consegnata al vecchio cliché dell'opera italiana), gli viene chiesta una vera inflazione di danze orchestrali e pezzi per organo meccanico, che dispiegano un clima di allegria carnevalesca, futile ed un po' disperata. Ma proprio lui, Mozart, è sereno: l'ultimo suo «Quintetto» per archi (K. 614) è pieno di gioia fanciullesca, il sublime mottetto «Ave Verum» è tutto beatitudine pacata ed anche il celebre «Concerto» per clarinetto è ricco di luminosa dolcezza. La nascita dell'ultimo figlio Franz è accompagnata da alcuni briosi «Lieder» per bambini e vari pezzetti per pianoforte. Il passaporto a questa creazione intensa e fluida era stato proprio il suo ultimo «Concerto» per pianoforte, questo in si bemolle maggiore K. 595, terminato il 5 gennaio, con quel «Finale» così raramente allegro, fondato su un motivetto popolaresco che gli ronzava sbarazzino in testa e che torna nella canzoncina «Komm, lieber Mai» (K. 596), composta pochi giorni appresso. Lo schianto vero, l'unica modulazione tragica di quell'esistenza avviata a ricuperare un alacre ottimismo perduto negli anni precedenti, è il solo «Requiem», con l'ossessione del misterioso committente che scatena ad una tratto l'angoscia, il sospetto di veleno, la malattia finale di Mozart. È come la comparsa improvvisa del convitato di pietra, il Commendatore, che venga a riscuotere il pegno più grande allo spensierato ed irresponsabile Don Giovanni. Che tosto esce di scena.

Dunque, pressoché nulla della produzione rigogliosa e felice dell'ultimo anno di Mozart, ne fa presagire la prossima fine. Nulla, o tutto? Certo, vedendo controluce quella serenità quasi irresponsabile, certa improvvisa saggezza di vita (anche nei migliorati rapporti con la moglie Costanza), quella letizia inconsulta che; di proposito rinuncia al lamento ed al dramma, anche certa voluta ingenuità che avvertiamo nel «Larghetto» ed in non pochi altri passi di quest'ultimo «Concerto» per pianoforte, tutto ciò può anche apparire consapevolezza di congedo, disimpegno giovanile e fin sfrontato nei confronti di una fine che si avverte infallibilmente vicina. C'è chi scherza con la morte, appunto come Don Giovanni, e c'è chi licenzia, davanti alla morte, il dato troppo umano, preparandosi a salpare in assoluta quiete, in un gioco di finzioni abilissime anche con se medesimo. Ed allora, proprio la mancanza di quella tensione e di tragedia che sempre aveva insidiato la felicità del Mozart passato, ecco che ora può costituirsi a controprova di dramma: e cosi il musicista, rasserenato, compone alacremente, fin ottimisticamente, oppure leva invece tanti ormeggi?

La grandezza sterminata di Mozart sta proprio in questa sua alternativa ovvero ambivalenza spirituale, in questo suo continuo gioco di maschera che lo fa imprendibile, sfuggente, divinamente ambiguo: cosa che non sapranno più fare gli artisti romantici (escluso Schubert, ripetiamo), con quel loro ineludibile peso esistenziale che ha finito di in-oraggiare proprio la letteratura agiografica cui innanzi s'accennava: pronta a preparargli, nel 1791, solo corone di feretro, come per un personaggio d'opera od eroe ottocentesco. Proprio per questo, l'incompiuto di Mozart (il «Requiem», ma altresì il ritratto che solo gli iniziò Joseph Lang) riesce più inquietante di ogni analoga situazione romantica, sempre cosi umana, cosi cronologicamente invadente, cosi fisiologicamente indiscreta: altro di lui non sappiamo che della «febbre miliare» che gli aveva enfiate le mani e la povera grossa testa; ma poi, orgogliosamente, Mozart si sottraeva ad ogni verità di autopsia, ad ogni verifica di malattia o di veleno, confinando il suo esile corpo in una fossa comune. Assicurandosi cosi una delle ultime leggende dei tempi moderni.

Ma tutto questo discorso si conforta anche con una precisa considerazione storica. Quando il musicista si era stabilito a Vienna, nel 1781, si era affermato soprattutto come pianista; ed in poco più di tre anni (dalla fine dell'82 all'inizio dell'86} erano infatti nati ben quindici «Concerti» per pianoforte ed orchestra, coi quali aveva conquistato stabilmente i favori del volubile pubblico viennese, riuscendo altresì ad assicurarsi parecchi allievi che gli consentivano una certa tranquillità economica. A questo punto, allettanti prospettive teatrali («Le Nozze di Figaro» e «Don Giovanni») nonché la successione a Gluck come compositore di corte, gli fecero trascurare questa clientela, pronta subito a concedere i suoi favori ad alcuni pianisti virtuosi quali Kozeluch e Gelinek. Rivelatosi non più che temporaneo il successo teatrale e limitandosi l'impiego a corte alla composizione di futili pezzi di circostanza, ecco Mozart far marcia indietro, tentando senza esito di ricuperare il vecchio pubblico o di farsene uno nuovo. In questa tragica situazione di fallimento professionale, Mozart limitò la sua produzione concertistica a due opere, create per circostanze occasionali: il «Concerto» K. 537 fu infatti scritto per l'incoronazione di Leopoldo II e questo K. 595 per un concerto del clarinettista Joseph Beer. Che quest'ultima opera in si bemolle sia stata composta per un qualche dilettante si può anche arguire da alcuni suoi caratteri: le limitate difficoltà tecniche rispetto ài precedenti Concerti, la stesura rapida (fu scritto in meno di due mesi, tra il novembre 1790 ed il 5 gennaio 1791), e l'immediata pubblicazione da parte dell'editore Artaria, come già altre opere destinate ad amatori.

L'ambiguità stilistica che si diceva prima, si coglie in questo che è l'ultimo ma non certo il maggiore dei «Concerti» pianistici della maturità, ove non ritroviamo gli scatti impetuosi cosi di allegria come di drammaticità: piuttosto, questa è opera retrospettiva, priva di ardori come di tensioni, ove solo certa intima stanchezza insidia qua e là la tranquilla compostezza, ove il quasi compiaciuto ritrovar la facilità dei primi modelli consente a Mozart rarefazioni assorte, presagi di grande futuro. Caratteri, questi, che si avvertono nell'affabilità del primo tema dell'«Allegro» iniziale, dall'orchestrazione trasparente e leggera (priva di clarinetti, trombe e timpani), ove i corni, pur citando lontane scansioni sinfoniche, come quelle della celebre «Sinfonia» in sol minore, le restituiscono, nel secondo tema col suo motivo discendente subito sensibilizzato in modo minore, intonazioni incantate e leggiadre. Tuttavia, un esame dell'organizzazione tematica di questo movimento rivelerebbe complessità inattese: per i frammenti melodici che arieggiano Lieder ad intonazione popolare, per gli echi di fanfara ripresi dalle Sinfonie «Haffner» e soprattutto «Jupiter», per certe riposte citazioni operistiche (ad es. l'aria di Osmino «Ha! Wie will Ich triumphiren» del «Ratto dal Serraglio»): a chiarire insomma i contrassegni di quel «tardo stile» mozartiano che per Robbins Landon si colgono nella passività lontana ed astrattiva del pensiero musicale e nel crescente interesse armonico. Non più drammaticità, quindi, ma rarefazione: ove la leggiadria viene dalla melanconia retrospettiva restituita ad una serenità rassegnata, a stabilire un «puzzle» complicato di citazioni che significa sincretismo riassuntivo. Né il gioco insistito delle pause accresce di tensione questo tessuto discreto, né incrina siffatta compiutezza formale. Anche il pianoforte, riprendendo con belle modulazioni i temi, abolisce il virtuosismo per peregrinazioni non più che vaghe, per accentuazioni intime ma sempre saggiamente calibrate. Tale tendenza alla semplificazione si avverte ancor più nella ripresa pianistica del secondo tema, ricco di scansioni tipicamente austriache, ad esempio per la presenza di accenti di corale, affidati ai fiati. Sono tutte modulazioni inquietanti ma mai inquiete, a sfondo cameristico (come poi nel «Concerto» per clarinetto): ed allora ecco che il Romanticismo si fa ambiente vicino, in questo gioco di attenuazione dei temi maggiori e di accentuata pregnanza degli incisi minori. Anche la cadenza (originale di Mozart) è semplice e raccolta, prima della chiusa orchestrale che congeda la musica quasi con un inchino, provvisoria conclusione di una scena di vita.

L'ingenuità si fa poi quasi provocatoria nel «Larghetto cantabile», ove il pianoforte ricupera cristallini echi di una qualche Sonatina. E l'orchestra, ancor più decantata nei timbri, sta pienamente al gioco, dialogando sommessa e seguendo il solista nelle continue varianti del piccolo tema. Nella sua dimensione mnestica, questo movimento è una successione, più che di temi, di episodi sfibrati, di rievocazioni esauste, non senza certa autunnale elegia che anticipa Schubert. Ma in tale semplificazione appare in tutta evidenza la sfinge mozartiana e scompare invece il dèmone; non solo, ma in questa nuova dimensione spiritualmente e temporalmente distaccata ed incantata esce la virtualità mozartiana, ovvero un dato clamorosamente moderno, una sorta di dimensione «al quadrato» capace di anticipare il «Concerto» in sol di Ravel.

Necessaria poi l'opposizione di un Finale che colmi con l'utopia pastorale del ritmo di caccia questo solco aperto sulla vita che dilegua. L'«Allegro scherzando» conclusivo è poco vivace ma in cambio molto popolaresco (il tema a rondò già dicevamo che è fondato sulla canzoncina «Sehnsucht nach dem Frühling»), quasi un ricordo a danza, che chiarisce la dimensione retrospettiva di tutto il «Concerto». Anche qui, la matrice classica pretende porti futuri, per poco che si noti l'analogia tra la ripresa orchestrale e l'attacco del «Finale» del secondo «Concerto» di Brahms; anche qui Mozart dispone di materiali esperiti innanzi ma come decantati ed attenuati di forza, pur in decorso a tratti fluente. Più vivace ed in pretto clima di sonata il secondo tema, che il pianoforte appena concita nella cadenza, di chiara anticipazione beethoveniana. Infine, il contesto si ricompone ed il solista chiude dimesso, laddove anche la resa orchestrale è consegnata all'amabile discrezione.

Un congedo senza addii, quindi, quale si avverti alla prima esecuzione di quest'opera a Vienna, il 4 marzo 1791, in un concerto organizzato dal clarinettista Joseph Beer nel salone di una casa situata, quasi simbolicamente, nella Himmelpfortgasse: la via alla Porta del Cielo.

Sergio Martinotti


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 15 Maggio 2010
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 20 febbraio 1997
(3) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 129 della rivista Amadeus
(4) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 4 dicembre 1976


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Ultimo aggiornamento 1 marzo 2019