Concerto per pianoforte n. 13 in do maggiore, K1 415 (K6 387b)


Musica: Wolfgang Amadeus Mozart (1756 - 1791)
  1. Allegro (do maggiore)
  2. Andante (fa maggiore)
  3. Allegro (do maggiore)
Organico: pianoforte, 2 oboi, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: Vienna, dicembre 1782 - gennaio 1783
Prima esecuzione: Vienna, Burgtheater, 22 marzo 1783
Edizione: Artaria, Vienna 1785
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Nel Concerto K 415 in do maggiore, che chiude la mini serie del 1882, Mozart introduce due novità rilevanti: un organico più solenne (con trombe e timpani) e quella scrittura contrappuntistica, frutto di uno studio attento delle partiture di Bach e Händel, che, innestata sullo "stile galante" settecentesco, ha determinato la nascita dello stile classico viennese. Già nell'esposizione orchestrale dell'Allegro iniziale è avvertibile il nuovo stile: nel primo tema, dall'andamento quasi marziale, presentato in imitazione fra violini primi, secondi e viole con bassi (do maggiore) e nel secondo, tessuto in contrappunto da violini e viole sopra un lungo pedale tenuto da fagotti, corni e bassi. La coda dell'esposizione riserva ancora una sorpresa: un motivo tambureggiante esposto da archi, oboi e fagotti, sorta di irriverente battere di piedi in stile di opera buffa al quale Mozart riserverà grande spazio all'interno del movimento. Il solista, come spesso avviene nei concerti mozartiani, fa il suo ingresso con un nuovo motivo cui subito si uniscono gli archi che riprendono il primo tema. Da qui in poi il solista sembra quasi "estraniarsi" dal materiale musicale presentato precedentemente dall'orchestra, in cerca di vie musicali originali, come nel secondo tema, che presenta una malinconia propria della maturità mozartiana. Un lungo episodio solistico di impronta virtuosistica (ottave spezzate, arpeggi, veloci scale), che culmina con la riproposizione del motivo tambureggiante, porta alla coda dell'esposizione basata sul primo tema. Lo sviluppo è articolato in due episodi, il primo dei quali vede il solista presentare un perentorio motivo discendente a note lunghe seguito da un veloce gioco di scalette in imitazione; il secondo è invece basato sul primo tema orchestrale (ora in la minore) arricchito dai suggestivi arabeschi del pianoforte. La ripresa, regolare, porta alla consueta cadenza del solista e alla chiusa orchestrale.

L'Andante scorre fluido in un sereno e limpido fa maggiore, condotto per mano dal pianoforte che domina incontrastato tanto l'esposizione del tema principale, quanto le sue variazioni. L'Allegro conclusivo, ricco nell'invenzione melodica e capriccioso nella forma, si apre con un tema articolato in tre momenti: un primo motivo esposto dal solista e ripreso subito dagli archi, un secondo motivo, giocoso e danzante, affidato ai violini e una terza idea dal carattere pastorale. Il primo episodio solistico è costituito da un improvviso Adagio in do minore, dominato da tinte dolenti e quasi misteriose. Il secondo episodio, ancora in tonalità minore, è basato sull'incipit del primo motivo; il terzo, vivace e virtuoslstico, contrasta con il quarto e ultimo, un Adagio che è di fatto una ripresa variata dell'Adagio precedente. Una gioiosa ripetizione del primo motivo seguita da una coda orchestrale conclude la pagina.

Alessandro De Bei

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

«Questi concerti sono un giusto mezzo fra il troppo facile e il troppo difficile; sono assai brillanti, piacevoli a udirsi e naturali, senza essere banali. Qua e là vi sono spunti apprezzabili soltanto dai conoscitori, ma questi passaggi sono scritti in modo che anche i meno colti non possono fare a meno di essere soddisfatti, senza sapere il perché ». Con queste parole, in una lettera del 28 dicembre 1782, Mozart illustrava al padre la terna dei concerti per pianoforte (in la maggiore, K. 414, fa maggiore, K. 413 e do maggiore, K. 415) con i quali avveniva il suo esordio come virtuoso nelle «accademie» viennesi. Parole nelle quali la probità artigiana, o per meglio dire, quel gusto per la non-originalità o vocazione alla convenzionalità che s'intrecciano in modo indissolubile con le provocazioni del viandante solitario e inaudito, si agghindano di un'ingenua scaltrezza da uomo di mondo mancato. Agl'inizi dell'avventura di libero professionista, che in un breve volger d'anni lo porterà alla miseria e all'isolamento, Mozart è pieno di fiducia nel pubblico e si studia di lusingarne i gusti, conciliando convenzione e arditezza stilistica in vista di un successo non meno popolare che di élite. Abbandonate le aggressive novazioni profuse in lavori precedenti, quali il K. 271 o il K. 365 per due pianoforti, detta tre prodotti di pronto consumo, agili e levigati, il più civettuolo dei quali è proprio questo in do maggiore, col suo chiassoso apparato di trombe e timpani assolutamente decorativi, il suo repertorio di brillantezze pianistiche, la strizzata d'occhi a Paisìello nella tenera cavatina del secondo movimento, l'intermezzo Adagio in do minore, che interrompe per due volte l'ingenua allegria del Finale con le ombre del suo ambiguo sentimentalismo larmoyant. Il successo ci fu, ed «entusiastico», come recita testualmente la recensione apparsa il 22 marzo 1783 sul Cramers Magazine; Mozart poteva davvero compiacersi della propria abilità, che invece doveva ben presto abbandonarlo: il Concerto in re minore K. 466, dove il demone mozartiano ridda scatenato senza troppi riguardi per il colto e l'inclita, è già alle porte.

Giovanni Carli Ballola


(1) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 257 della rivista Amadeus
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 21 dicembre 1975


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Ultimo aggiornamento 20 giugno 2013