Vespro della Beata Vergine da concerto composto sopra canti fermi sex vocibus et sex instrumentis, SV 206


Musica: Claudio Monteverdi (1567 - 1643)

  1. Domine ad adiuvandum me festina
    Responsorio
    Organico: 2 soprani, contralto, 2 tenori, basso, 2 cornetti, 3 tromboni, 2 violini, 4 viole, basso continuo
  2. Dixit Dominus
    Salmo
    Organico: 2 soprani, contralto, 2 tenori, basso, 2 cornetti, 3 tromboni, 2 violini, 4 viole, basso continuo
  3. Nigra sum
    Mottetto
    Organico: tenore, basso continuo
  4. Laudate pueri
    Salmo
    Organico: 2 soprani, 2 contralti, 2 tenori, 2 bassi, organo
  5. Pulchra es amica mea
    Mottetto
    Organico: 2 soprani, basso continuo
  6. Laetatus sum
    Salmo
    Organico: 2 soprani, contralto, 2 tenori, basso continuo
  7. Duo Seraphim clamabant
    Mottetto
    Organico: 3 tenori, basso continuo
  8. Nisi Dominus
    Salmo
    Organico: 2 cori misti, basso continuo
  9. Audi, coelum verba mea
    Mottetto
    Organico: 2 soprani, contralto, 2 tenori, basso, basso continuo
  10. Lauda, Jerusalem dominum
    Salmo
    Organico: 2 soprani, 2 contralti, tenore, 2 bassi, basso continuo
  11. Sonata sopra Sancta Maria ora pro nobis
    Organico: soprano, 2 cornetti, 3 tromboni, 2 violini, 2 viole, basso continuo
  12. Ave maris stella
    Inno
    1. Ave maris stella
    2. Sumens illud ave
    3. Solve vincla reis
    4. Monstra te esse matrem
    5. Virgo singularis
    6. Vitam praesta puram
    7. Sit laus deo patri
    Organico: 2 cori misti, basso continuo
  13. Magnificat I septem vocibus et sex instrumentis
    Cantico
    1. Magnificat
    2. Anima mea
    3. Et exultavit
    4. Quia respexit
    5. Quia fecit mihi magna
    6. Et misericordia eius
    7. Fecit potentiam
    8. Deposuit potentes de sede
    9. Esurientes implevit bonis
    10. Suscepit Israel puerum suum
    11. Sicut locutus est
    12. Gloria patri et filio
    13. Sicut erat in principio
    Organico: 2 soprani, contralto, 2 tenori, 2 bassi, 3 cornetti 2 violini, viola, basso continuo

Edizione: Ricciardo Amadino, Venezia, 1610 in Sanctissimae Virgini Missa senis vocibus
Dedica: Paulo V Pont. Max.
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La stagione estiva 1993 dell'Accademia di Santa Cecilia a Villa Giulia si apre, a trecentocinquanta anni dalla morte, nel nome di Claudio Monteverdi, il musicista italiano più rappresentativo del XVII secolo per aver saputo conciliare nella sua poderosa opera i valori del polifonismo e della monodia accompagnata, l'ideatore del dramma in musica che, attraverso le alterne vicende di stili e di scuole, gli arricchimenti e gli sviluppi della tecnica vocale, strumentale, teatrale e scenica, rimarrà costante nelle sue linee fondamentali fino ai nostri giorni. Suo è lo stile concitato, sua l'applicazione agli strumenti dei pizzicati e dei tremoli, secondo la maniera italiana introdotta subito dopo in Germania da Heinrich Schütz, suo è il nuovo linguaggio armonico legato alla concezione psicologica delle famiglie strumentali e dei timbri dell'orchestra. Soprattutto sua è la capacità di risolvere con chiarezza di idee e organicità logica i problemi della realizzazione e dell'espressione lirica nel più stretto connubio di musica e poesia, additando la funzione eminentemente teatrale di entrambe le parti in modelli esemplari, studiati e analizzati prima che la questione fosse affrontata da Gluck e da Wagner.

Di Monteverdi viene eseguito il grandioso e complesso lavoro (quasi un'ora e mezza di musica) che va sotto il nome di Vespro della Beata Vergine, apparso per le stampe nel 1610 con dedica al Papa Paolo V e scritto sopra canti fermi a 6 voci e 6 strumenti, come è indicato nel titolo della composizione che suona esattamente così: "Vespro della Beata Vergine da concerto composto sopra canti fermi sex vocibus et sex instrumentis". Esso si compone di dodici parti, di cui alcune non appartenenti al rito liturgico del Vespro per la festa della Beata Vergine, come il Duo Seraphim a 3 voci, l'Audi Coelum a 6 voci e la Sonata sopra Sancta Maria. L'orchestra nella sua forma originale (si deve tener conto delle modifiche subite dagli strumenti dal tempo di Monteverdi ad oggi) è costituita da un organo, tre cornetti, due tromboni, un trombone doppio, due e a volte tre viole da brazzo, un contrabbasso da gamba e in alcune battute del Magnificat da due fifare e due flauti.

Il Vespro è uno dei momenti più alti e solenni della musica religiosa, anche se non di stretta osservanza chiesastica, di Monteverdi. In quest'opera la religiosità non si condensa più nella meditazione contrappuntistica tramandata dalla tradizione con la severità della tecnica, usata nel gioco delle imitazioni e delle sequenze, quasi a trattenere gli impulsi vitali del canto. Nel Vespro, al contrario, il sentimento religioso è vivo e intenso e si configura spesso come una preghiera e un inno alla divinità, concepita come la più perfetta entità spirituale da cui discende la vita umana in tutte le sue ramificazioni profane e terrene. Sin dal primo brano (Deus in adjutorium) si avverte l'ampio respiro del canto monteverdiano, dagli spaziosi accordi e dai ritmi vivaci rinsaldati e irrobustiti dalla magnificenza corale. Nel salmo Dixit Dominus la voce del tenore avvia con naturalezza ritmica un'articolata polifonia, che apre la via alla recitazione sillabica del falso bordone, quasi un parlato di tutte le voci. Non mancano intrecci contrappuntistici alternati ad effusioni ariose, e tra un periodo e l'altro sono introdotti ritornelli strumentali che «si possono sonare et anche tralasciare secondo il volere». Il mottetto ad una sola voce Nigra sum per tenore è un pezzo monodico su testo tolto dal "Cantico dei Cantici"; ha un andamento di canto abbastanza voluttuoso, ma non in contrasto con il tono religioso del Vespro.

Il salmo Laudate pueri a otto voci risponde ad una visione musicale polifonica e poliritmica, continuamente variata nelle coloriture e negli spunti tematici. Pungentemente espressiva è la coda con improvvisazioni contrappuntistiche sulla parola «Amen», sino a sciogliersi in eleganti giochi sonori, somiglianti ad un madrigale. Un carattere madrigalesco presenta anche il Pulchra es a due voci, così come molteplici atteggiamenti stilistici profani affiorano nel salmo Laetatus sum a sei voci, contraddistinto da sortite virtuosistiche di canto. Un'atmosfera assorta e pensierosa avvolge il Duo Seraphim a tre voci, punteggiato da un asciutto contrappunto tenorile sorretto da pochi strumenti, fra cui l'organo. Luminoso, robusto e potente è il successivo salmo Nisi Dominus a dieci voci per doppio coro, poggiato sull'onnipresente cantus firmus e sviluppato con sonorità sontuose, di gusto veneziano. L'Audi coelum a sei voci inizia con una parte di tenore dalle fioriture liriche e non priva di effetti d'eco. Dopo la cadenza sulla parola «omnes» («omnes haec ergo sequamur») entrano le altre cinque voci in una polifonia ariosa in cui le imitazioni si richiamano a motivi cantabili.

Segue il Salmo 147 Lauda Jerusalem a sette voci in cui il canto in lode della divinità risplende con straordinaria purezza armonica secondo quel gusto polifonico, semplice e immediato, che appartiene alla genialità del compositore cremonese.

Una pagina indicativa della spiritualità monteverdiana può definirsi la Sonata sopra Sancta Maria per otto strumenti. La voce solista, che in una moderna esecuzione da concerto può benissimo essere raddoppiata all'unisono, canta ad intervalli, per undici volte, un frammento liturgico sulle parole della litania della Beata Vergine, mentre l'orchestra svolge una serie di variazioni su un motivo inizialmente in ritmo di canzone francese. La frase melodica assume man mano robustezza ed espansione lirica su un tessuto armonico indicato dagli strumenti bassi (tromboni e viole) e a sostegno di un'architettura polifonica e strumentale, somigliante a quella di Frescobaldi, di cui Monteverdi non solo cronologicamente è contemporaneo.

L'inno Ave maris stella a otto voci rappresenta un altro momento essenziale della polifonia sacra monteverdiana, che si scompone in varie sezioni di canto con l'inserimento di ritornelli strumentali in misura ternaria connessa con la variante «Sumens illud».

Ed eccoci al Magnificat conclusivo del Vespro. Si sa che Monteverdi scrisse due Magnificat; il primo più denso e sostanzioso per sette voci e strumenti, quali violini, cornetti, viola da braccio e organo, mentre l'altro è per sei voci e solo organo. L'uno e l'altro, comunque, riflettono una grandiosità di concezione corale e dimostrano la forza inventiva e l'originalità creatrice del musicista. Il Magnificat a sette voci si dispiega in dodici sezioni, il Gloria e l'Amen compresi. Il Magnificat anima mea iniziale fornisce il motivo base, il cantus firmus circolante nelle varie parti dell'opera, ed è tenuto da una voce solista contrapposta alle altre del coro oppure agli strumenti. Segue brevemente poi l'Anima mea per solo soprano. Il canto dei due tenori neìì'Exultavit a tre voci è ad imitazione e in rapporto contrappuntistico con il contralto. Festoso e in fortissimo si presenta il Quia respexit con il vigoroso intervento degli stmmenti, invitati a suonare «con più forza che si può». Il Quia fecit sviluppa ritmi diversi in una varietà di soluzioni corali; le parti dei bassi si raggrumano fra di loro, in opposizione al cantus firmus del contralto. L'Et misericordia a sei voci sviluppa fra tenore e soprano un dialogo contrappuntato, così come indica il sottotitolo. Di tono drammatico è il Fecit potentiam, dove il canto dei violini fa da sfondo con delicate fioriture alla voce tenorile. Il suono penetrante dei cornetti rende timbricamente chiara l'introduzione cantabile del Deposuit; i violini poi si sostituiscono ai cornetti, servendosi dello stesso disegno melodico. Nell'Esurientes gli stmmenti si alternano con le due voci di soprano e infine si fondono e si amalgamano con esse. Nel Suscepit Israel a tre voci i due soprani svettano nell'acuto, quasi a formare una cupola di suoni, in cui si sente nello sfondo il cantus firmus del tenore. Il Sic locutus è una brillante combinazione strumentale di violini e di fiati dialoganti, con l'innesto del cantus firmus del contralto. Il Gloria Patri a tre voci è costruito sul motivo dei soprani in contrasto con le voci dei tenori, che ricamano vocalizzi arieggianti timbri strumentali. Il Magnificat si chiude con il Sicut erat in un clima di esaltante grandiosità vocale e strumentale e tra i più indicativi di questa cuspidale costruzione polifonica.

Ennio Melchiorre

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il Vespro della Beata Vergine di Monteverdi fu pubblicato, assieme alla Missa In illo tempore, nel 1610 a Venezia, con un'ampollosa é adulatoria dedica a papa Paolo V. Il titoIo completo dell'opera, che recita: Sanctissimae Virgini mìssa senis vocìbus ad ecclesiarum choros ac vespere pluribus decantanda cum nonnullis sacris concentibus, ad sacella sive prìncipum cubicula accomodata (Messa della santissima Vergine a sei voci per i cori ecclesiastici e vespro da cantarsi a più voci con alcuni sacri concerti, adatti alle cappelle o alle camere dei principi), rende espliciti sia il contenuto sia lo scopo dell'edizione. Il compositore, che all'epoca aveva 43 anni, era alle dipendenze di Vincenzo Gonzaga, duca duca di Mantova, al cui servizio si trovava già da una ventina d'anni. Il contrasto fra il linguaggio del Vespro e quello della Messa, scritta nel vecchio stile polifonico della prima prattica, è abbastanza sorprèndente; ma anche all'interno del Vespro stesso si nota una straordinaria varietà di stili compositivi. Dopo l'imponente responsorio iniziale Domine ad adiuvandum, cinque salmi musicati in uno stile grandioso si alternano a mottetti a una, due e tre voci nel nuovo stile monodico. Seguono una sonata strumentale, l'inno Ave maris stella e infine due versioni del Magnificat.

Le ragioni che spiegano quest'edizione - e in particolare la varietà stilistica, quasi enciclopedica, che essa - mette in mostra - risiedono probabilmente nelle condizioni in cui si trovava Monteverdi all'epoca in cui compose il Vespro. Degli anni rmantovani ci sono pervenute soltanto dodici lettere monteverdiane, scritte tra il 1601 e il 1611, dalle quali trapela uno stato di insoddisfazione pressoché costante. Quasi senza eccezione sono cariche di lamentele per il lavoro eccessivo, le malattie, l'indigenza, i pagamenti inadeguati e il perenne sospetto che il suo talento non fosse tenuto nella giusta considerazione dai Gonzaga. Queste lamentele sono così insistenti ed energiche che alcuni storici sono stati indotti a considerarle sostanzialmente infondate, frutto forse di insicurezza o di invidia nei confronti di altri compositori. C'è però una mole impressionante di prove a sostegno delle ragioni di Monteverdi. Verso la fine del 1606 la situazione si era fatta così pesante che la moglie Claudia si sentì autorizzata ad aggiungere la sua voce al Cahier de doléances. Nel 1607-8, mentre Monteverdi lavorava dapprima all'Orfeo e poi al Lamento d'Arianna, le difficoltà avevano toccato l'apice: i problemi economici e la cattiva salute erano stati aggravati in primo luogo dalla perdita della moglie, poi dalla morte di Caterina Martinelli, la giovane cantante che in casa di Monteverdi era vissuta, scomparsa solo pochi giorni prima di interpretare la parte della protagonista alla prima rappresentazione dell'Arianna.

E' chiaro che nell'estate del 1610, all'epoca in cui dava alle stampe il Vespro, Monteverdi avvertiva sempre più che la sua situazione a Mantova si era fatta insostenibile. Cercava, in altri termini, un impiego al di fuori di Mantova; il volume (significativamente dedicato a papa Paolo V) avrebbe dovuto dimostrare la sua versatilità in un'ampia gamma di stili, che andavano dal contrappunto tradizionale dello stilus antiquus sino al recentissimo canto monodico. Non sorprende che la raccolta non abbia conosciuto ristampe: il formato e il contenuto rivelano che si trattava di un volume da presentare in dono e non di un libro destinato all'uso pratico, almeno per quanto riguarda i cori ecclesiastici italiani di normali dimensioni.

A questo punto le sole proporzioni del Vespro, con le forze necessarie ad eseguirlo, che comprendono cantanti e strumentisti virtuosi, sollevano una questione fondamentale. Il Vespro della Beata Vergine è un'opera unitaria e completa, costituita da una serie di brani in un ordine prefissato dal compositore (con la possibilità di scegliere uno dei due Magnificat), com'è oggi comunemente intesa? O è semplicemente una raccolta di brani, composti forse nel corso della carriera mantovana di Monteverdi (e riuniti a formare una versione musicale completa dei vespri solo in vista della pubblicazione), dalla quale gli esecutori avrebbero scelto, per l'uso pratico, solo un brano o due?

Prima di affrontare la questione, che ha occupato parecchio gli studiosi negli ultimi cinquant'anni, è necessario accennare alla Messa a sei voci. Si dimentica spesso che è la Messa ad aprire il volume e a definire il contesto stilistico nel quale andrebbe collocato il Vespro; è sempre la Messa che fissa l'argomento mariano per l'intera pubblicazione, come precisa il titolo sul frontespizio. Occorre subito dire che la Missa In illo tempore è scritta in un linguaggio piuttosto anonimo, ancorché ambizioso (la scrittura è a sei voci, che si riducono a quattro nel Crucifixus come vuole la tradizione, e diventano sette nella sezione finale dell'Agnus Dei). Ma non sorprende affatto che un volume di musica sacra orientato al gusto romano, e in particolare a quello papale, sia scritto in uno stile retrospettivo. Il repertorio musicale della Cappella Sistina era antiquato: all'inizio del secolo XVII il coro eseguiva musica che risaliva ancora alla generazione di Josquin Desprès, musica che in certi casi aveva più di cent'anni. Fu probabilmente in omaggio a quella tradizione che Monteverdi pose a fondamento della Messa dieci soggetti da un mottetto di un compositore del primo Cinquecento, Nicolas Gombert (ca. 1495-1560), un maestro del vecchio stile contrappuntistico fiammingo. Questi soggetti vengono poi elaborati nel più severo stile contrappuntistico; e quasi a sottolineare l'abilità di Monteverdi, essi sono stampati all'inizio della Messa in tutti i libri-parte. A quell'epoca, la prassi di comporre messe su materiale musicale preesistente era divenuta estremamente comune; adeguandovisi, Monteverdi seguiva le orme non solo dei grandi maestri fiamminghi, ma anche di compositori più recenti, fra cui Lasso, Palestrina, Morales e Victoria. La Messa, in altri termini, vuole chiaramente esibire le credenziali di un compositore che padroneggia le tecniche della prima prattica. L'esito, dal punto di vista artistico, è più intellettualistico che ispirato; spesso i momenti imitativi sono così serrati da rendere la scrittura densa e alquanto inaccessibile. E' un'opera concepita come sfoggio di abilità tecnica, e spesso si limita a produrre quest'effetto; una fonte coeva testimonia la cura e la fatica profuse da Monteverdi nell'elaborazione di questo artificioso esercizio compositivo.

Il contrasto fra lo stile della Messa e quello del Vespro non potrebbe essere più grande; è il secondo che mostra la vera inclinazione e gli interessi compositivi di Monteverdi. Il Vespro, per l'epoca, è concepito su larga scala, con parti per strumenti solistici e d'accompagnamento, voci soliste e coro. La tavolozza strumentale e il tipo di scrittura sono più vicine all'Orfeo, eseguito la prima volta a Mantova nel 1607, che alla musica sacra dell'epoca; come l'opera teatrale, questa musica appartiene a un mondo volutamente costruito per riflettere lo splendore e la grandezza della corte dei Gonzaga: l'equivalente sonoro del palazzo ducale, sfarzosamente ornato, e della più austera maestosità della basilica di Santa Barbara, dove questi brani risuonarono sicuramente per la prima volta.

Nei vespri, l'impalcatura che regge la struttura musicale è data da cinque salmi. Nella versione monteverdiana, tutti e cinque si basano sulla tecnica tradizionale del cantus firmus, com'è dichiarato esplicitamente nel frontespizio; ciascuno di essi è basato su un tono salmodico, che viene ripetuto più volte, spesso alterato ritmicamente. A questo procedimento si sovrappone una ricca varietà di tecniche, comunemente impiegate nel primo Seicento. Nel primo salmo (Dixit Dominus), ad esempio, il cantus firmus è affidato al basso dell'organo, mentre nelle parti superiori passi a due e a tre voci si alternano a passaggi in falso-bordone (una sorta di recitazione accordale, tradizionalmente associata all'intonazione dei salmi vespertini). L'effetto complessivo è quello di una serie di variazioni strofiche. Il salmo successivo (Laudate puerì) è per doppio coro; si sviluppa pressappoco come un mottetto policorale alla maniera dei Gabrieli. Questa tecnica, tuttavia, non è impiegata da cima a fondo, come sarebbe stato se Monteverdi avesse seguito il modello veneziano alla lettera; dopo un climax, la musica sfocia in una serie di sezioni a due e a tre voci nelle quali, in genere, una voce intona la melodia gregoriana mentre le altre le intrecciano abbellimenti tutt'intorno. Nel terzo salmo, Laetatus sum, Monteverdi ricorre a una tecnica simile, tranne che qui conferisce al basso dell'organo un'importanza maggiore, facendone il fulcro della composizione molto più che nel Dixit Dominus. La caratteristica più notevole, ora, è di nuovo il contrasto tra le sezioni e i diversi stili di scrittura: da una parte passi a tre e a quattro voci, dall'altra sezioni nelle quali il falsobordone assume le forme di una semplice melodia gregoriana o è posto a fondamento di linee vocali riccamente fiorite. I due salmi restanti sono in uno stile più convenzionale, ma il secondo (Lauda Jerusalem Dominum) sembra costituire una sorta di climax dell'intero Vespro, forse anche il momento conclusivo; è tracciato sulla falsariga del tradizionale stile dialogico veneziano, con la costante alternanza tra due gruppi contrapposti, che danno una spinta propulsiva alla musica sinché tutte le forze si riuniscono in una trionfante perorazione finale.

Tutto ciò è abbastanza convenzionale dal punto di vista dei procedimenti compositivi. Le tecniche del cantus firmus, impiegate in tutti e cinque i salmi, danno alla musica un certo grado di coerenza e di somiglianza stilistica, e anche i testi liturgici sono quelli d'uso comune; come le due versioni del Magnificat e l'inno Ave maris stella (anch'essi composti su melodie gregoriane), questi brani seguono esattamente l'ordine prescritto per i testi liturgici «in festis Beatae Mariae Virginis». In quanto tali, potevano essere eseguiti in qualunque festa in onore della Vergine, quali - per citare le più importanti - la Natività (8 settembre), l'Annunciazione (25 marzo) e l'Assunzione (15 agosto). La vera difficoltà inizia coi quattro mottetti a voci sole (si tratta dei sacri concerti che figurano, assieme alla Sonata, nel frontespizio), che nel volume si trovano tra i cinque salmi dei vespri. Si tratta, di fatto, dei primi brani pubblicati da Monteverdi nel nuovo stile monodico, messo a punto a Firenze da Caccini, dai suoi allievi e dai suoi colleghi alla fine del sedicesimo secolo e lanciato dalla fondamentale e fortunata raccolta di monodie cacciniane, Le nuove musiche del 1601. Una delle innovazioni cruciali, nei lavori monodici di Giulio Caccini, riguarda l'adozione del basso continuo, ciò che polarizza la musica tra le linee vocali e l'accompagnamento, in contrasto con l'eguale importanza di tutte le voci nella scrittura polifonica della prima prattica. Il nuovo stile aveva conosciuto un rapido successo: a partire dal primo decennio del diciassettesimo secolo dai torchi degli stampatori di musica, perlopiù veneziani, era uscita una certa quantità di libri di canti a una, due e tre voci. I quattro mottetti monteverdiani, dunque, vanno rapportati ai più recenti esempi di musica profana.

Se questo, di per sé, è un elemento di novità, anche la scelta dei testi è insolita. Ad esempio l'unico mottetto a voce sola tra i sacri concerti, Nigra sum, mette in musica un passo ben noto e vagamente erotico del Cantico dei Cantici. La musica che riveste queste parole è un efficace esempio del nuovo stile: è musica appassionata, le cui caratteristiche melodiche sono determinate più dalla sonorità e dal senso delle parole che da un principio costruttivo astratto; la linea vocale si libra nell'aria e acquista rapidamente velocità in corrispondenza della narrazione, e i momenti più intensi sono sottolineati da dissonanze agrodolci e da ritardi. L'erotismo di Nigra sum perdura nel secondo mottetto, Pulchra es, anch'esso su un testo tratto dal Cantico dei Cantici, mentre per contrasto il mottetto successivo, Duo seraphim, evoca il mistero della Trinità. Anch'esso, tuttavia, impiega tecniche musicali del tutto profane, esattamente come il mottetto finale, Audi coelum, che impiega le tecniche d'eco allora in gran voga. E' sicuramente a questi mottetti che si riferisce il frontespizio del Vespro, quando parla di brani «ad sacella sive principum cubicula accomodata». La serie dei salmi vespertini e dei mottetti è completata da quattro altri pezzi, tre dei quali sono liturgici e uno, la Sonata sopra Sancta Maria, lo è solo per metà, dal momento che le parole «Sancta Maria ora prò nobis» provengono dalla litania della Vergine Santissima.

L'enorme varietà di forme e stili impiegati in questi brani, alcuni dei quali sono apertamente radicali nel contesto di una realizzazione tradizionale dei vespri, e il carattere non liturgico di alcuni testi dei mottetti a voci sole, sono già sufficienti per mettere in dubbio l'idea che Monteverdi considerasse il Vespro della Beata Vergine come un'opera da eseguire da cima a fondo. La successione dei salmi, del Magnificat e dell'inno, corretta dal punto di vista liturgico, non crea problemi, ma l'inserzione dei testi mottettistici porta chiaramente ad escludere che il Vespro sia un'opera da eseguire in un'unica occasione liturgica, per non dire in una festa mariana. Non esiste, di fatto, alcuna singola occasione in cui il Vespro possa essere eseguito nel rispetto del dettato liturgico, né all'interno del rito romano né in quello particolare adottato dalla basilica ducale di Santa Barbara. Ciò ha sollevato un problema, a lungo dibattuto (e in parte ancora irrisolto): l'opera monteverdiana è da considerarsi un'unità artistica e liturgica? Hans Ferdinand Redlich, che per primo, nel 1935, riportò in vita il Vespro rendendolo disponibile agli esecutori moderni, lo considerava una raccolta di brani destinata più che altro alla pubblicazione, e indirizzata più al papa che a qualche coro ecclesiastico. Alcuni decenni dopo, un altro musicologo spesso coinvolto nelle esecuzioni del Vespro, Denis Stevens, escluse dalla propria edizione i mottetti a voci sole e la Sonata sopra Sancta Maria, nella convinzione ch'essi fossero estranei alla liturgia e non facessero dunque parte dell'opera originariamente concepita; suggerì di impiegare, al loro posto, antifone gregoriane. In tempi più recenti Gottfried Wolters ha incluso nella sua edizione sia i mottetti che la Sonata, aggiungendovi però anche antifone gregoriane.

Negli ultimi decenni sono state avanzate varie ipotesi per spiegare la particolarità liturgica del Vespro monteverdiano, partendo dal presupposto che si tratti di un'opera singola e coerente, governata da una forte logica unitaria. Questa tesi, sostenuta per la prima volta da Leo Schrade, trae vigore dal fatto che non si può presumere che nella prassi religiosa dell'epoca l'aspetto liturgico e quello musicale coincidessero. In altri termini, era sufficiente che il testo liturgico corretto venisse recitato dal celebrante perché le regole fossero rispettate. E' sicuramente vero che sostituzioni vocali, o anche strumentali, del testo corretto erano in uso nell'Italia del primo Seicento, anche se non approvate ufficialmente dalla Chiesa; lo dimostrano la frequenza con cui le autorità intervenivano a proibirle e le descrizioni di messe che diventavano, a volte, dei veri e propri concerti. Secondo questa interpretazione, sia i mottetti sia la Sonata sopra Sancta Maria possono essere considerati sostitutivi delle antifone, da eseguire mentre il testo corretto dell'antifona veniva recitato sottovoce dal celebrante, il ministro consacrato e autorizzato a celebrare la liturgia; di conseguenza il Vespro sarebbe stato considerato, all'epoca, come un possibile accompagnamento musicale per una delle feste mariane dell'anno liturgico nelle quali erano richiesti vespri solenni.

E' difficile credere, tuttavia, che qualche istituzione nell'Italia del primo Seicento avrebbe fatto molto di più che usare l'edizione di Amadino per attìngervi un brano o due, o al massimo le cinque versioni musicali dei salmi. Dopo tutto, la composizione monteverdiana è concepita su una scala molto ampia per l'epoca, e richiede un gran numero di esecutori virtuosi, che ben poche istituzioni sarebbero state in grado di mettere assieme. Consideriamo per un momento i procedimenti e le esigenze richieste dalla Sonata sopra Sancta Maria. Un frammento gregoriano («Sancta Maria, ora pro nobis») è intonato undici volte, sulla melodia impiegata per la Litania dei Santi, mentre intorno ad esso un complesso strumentale suona un'intera canzona francese, con i ritmi stereotipi e il da capo che ne costituiscono il marchio distintivo. Sebbene questo procedimento, o qualcosa che gli assomiglia molto, fosse stato sperimentato in precedenza da Arcangelo Crotti, un compositore minore attivo nei pressi di Ferrara, in mano a Monteverdi l'idea si trasforma da un'impresa di poco conto in quella che è una delle opere strumentali più ampie ed elaborate di quel tempo. L'organico strumentale, per l'epoca, è formidabile: due cornetti (che richiedono strumentisti virtuosi), due violini (che richiedono identiche qualità), quattro tromboni e un suonatore per il continuo (probabilmente un organista). Il brano inizia in modo abbastanza convenzionale, con i cornetti e i violini che si rilanciano la melodia. Muta il metro da binario in ternario, come fa la musica di danza dell'epoca; ma poi interviene una serie sorprendente di eventi, non appena prende avvio una sfilza di passaggi virtuosistici, finché ritorna la musica dell'inizio, con l'aggiunta delle voci per le due enunciazioni finali del canto. Fra la musica precedente di Monteverdi, quella che più si avvicina a questa si trova in certe parti dell'Orfeo (le coppie di ritornelli strumentali, ad esempio, ricordano molto da vicino quelli della grande aria «Possente spirto», il centro spirituale e letterale dell'opera); la complessa scrittura virtuosistica può esser stata conseguenza della presenza a Mantova di musicisti particolari, forse gli stessi che avevano interpretato l'Orfeo (i legami con l'opera teatrale sono ancora più espliciti nel responsorio iniziale, che incorpora la toccata posta all'inizio dell'Orfeo).

Da ultimo, è difficile respingere l'idea che il Vespro di Monteverdi sia stato concepito come un'opera singola tenuta assieme da una logica unitaria che si esprime, in ogni momento, nell'uso di un cantus firmus. La natura non liturgica dei mottetti non costituisce quella grande difficoltà che gli studiosi hanno immaginato; dal momento che le antìfone cambiavano da una festa all'altra, darne una versione polifonica per una festa determinata avrebbe conferito all'opera un carattere troppo specifico. Monteverdi, in pratica, era probabilmente guidato più dal desiderio di fare impressione su papa Paolo V che da altre considerazioni; la raccolta dovrebbe essere considerata in primo luogo come l'elaborazione musicale di un grandioso rito mariano, scritta da un compositore legato a una grande corte principesca e dedicata al papa nella speranza di procurarsi un mecenate. In questo contesto la presenza dei mottetti - che come avverte il frontespizio sono «adatti alle camere dei principi» - serve a dimostrare il talento del compositore in uno stile diverso, quello del canto monodico del primo Seicento, oltre alle capacità già esibite altrove, nella Messa e nelle altre partì del Vespro. Le cose cambieranno: Monteverdi lascerà Mantova pochi anni dopo aver pubblicato il Vespro della Beata Vergine, ma non per Roma bensì per Venezia, dove assumerà la carica di maestro di cappella della Basilica di San Marco. Il resto, come si suol dire, è storia.

Iain Fenlon


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Villa Giulia, 6 luglio 1993
(2) Testo tratto dal numero speciale n. 1 della rivista Amadeus, marzo 1997


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Ultimo aggiornamento 15 luglio 2018