Combattimento di Tancredi e Clorinda, SV 153


Musica: Claudio Monteverdi (1567 - 1643)
Testo: Torquato Tasso
Organico: soprano, 2 tenori, 4 viole da brazzo, basso continuo
Edizione: in Madrigali guerrieri et amorosi, Alessandro Vincenti, Venezia, 1638
Dedica: Alla Sacra Cesarea Maestà dell'Imperator Ferdinando III
Guida all'ascolto (nota 1)

Il concerto della Accademia Filarmonica Romana dal cui programma di sala abbiamo tratto questo commento, prevedeva l'esecuzione di vari brani di Claudio Monteverdi. Poichè il testo nel suo insieme presenta un interessante inquadramento del lavoro monteverdiano abbiamo preferito riportarlo nella sua interezza invece di estrapolare le parti che riguardano questa composizione. Per facilitare la ricerca nel testo della parte che riguarda specificamente questo madrigale l'abbiamo evidenziata in rosso.

La figura e l'opera di Claudio Monteverdi rappresentano il fulcro nodale di un trapasso epocale tra Rinascimento e Barocco, tra il secolo della musica vocale pura (lo stile 'a cappella' per sole voci della Scuola romana cinquecentesca e di Palestrina) e quello della vocalità concertante, ovvero con strumenti in funzione d'accompagnamento ma con identità melodica autonoma (stile inaugurato a Venezia da Giovanni Gabrieli). In Monteverdi, così, si sommano tutte le precedenti esperienze polifoniche sacre e profane (messa, mottetto, madrigale) assimilate in personali crogioli e si schiudono a vette d'arte i neonati generi monodici (il melodramma, di concepimento fiorentino, ed il madrigale solistico che si lega da vicino alla storia della cantata e del duetto da camera).

Fulcro dell'estetica monteverdiana, raccolta nella prefazione al Quinto libro di madrigali (1605) ed espressa, ancora in polemica con i dottrinalismi accademici dell'Artusi, dal fratello Giulio Cesare in calce alla prima raccolta di Scherzi musicali (1607), è l'avvento di una 'seconda pratica', contrapposta a quella del contrappunto fiammingo, ove "l'armonia sia non signora ma serva dell'oratione" (ovvero la musica diventi plasmatrice e vivificatrice della parola, accendendola di interiori emozioni). Una musica non più dunque concepita secondo astratti schemi di pensiero, bensì confrontata e regolata dagli spiriti della parola. Assunto, questo, che informa tanto il Monteverdi polifonico (gli otto libri di Madrigali) che quello monodico (il teatro). Polifonico o monodico che sia, il suo madrigale, con o senza strumenti, si avvia dunque a identificarsi con un dramma potenziale grazie ad una fantasia capace di accendersi soprattutto agli stimoli della rappresentatività. Ben vede quindi Guido Pannain quando, contestando l'asserzione di una 'crisi del madrigale' (Redlich) in Monteverdi sostiene invece che nel cremonese "il madrigale si è trasformato da entità astratta in qualche cosa di vivo e individuale... Non è la morte del madrigale, ma del genere madrigale, di un astratto presupposto di forma che per l'artista non ha valore". Il che avviene già a partire dal Quarto libro (1603).

Del Monteverdi maggiore e del trapasso di stili di cui si è detto, sono esemplare testimonianza alcuni lavori dell'autore definiti come 'rappresentativi', ovvero in stile di rappresentazione scenica (ma non per questo necessariamente rappresentati o rappresentabili). A questo genere appartengono il Ballo delle ingrate (1608), il Combattimento di Tancredi e Clorinda (1624) e il Lamento della Ninfa su versi di Rinuccini, tutti e tre pubblicati nel 1638 tra i Madrigali guerrieri ed amorosi dell'Ottavo libro. «L'attributo rappresentativo - spiega eloquentemente in merito lo specialista Claudio Gallico - ha due significati, oggettivamente spetta allo stile musicale e vocale proprio dell'azione scenica; ovvero, fuori dalla scena, conviene a quella modellazione sonora, che accompagna lo snodo del discorso con precisa coerenza di strutture, accogliendo ed esaltando i simboli ed i moti affettuosi delle parole: perfetta seconda pratica».

Se dunque, per rimanere nel genere monodico, la Lettera amorosa del Settimo libro di Madrigali (pubblicato nel 1619) offre un'immagine di temperamento ardentemente lirico, se negli Scherzi musicali (1632) è ravvisabile il tratto lieve capace di pennelleggiare con pochi tocchi, nel celebre Combattimento, nato nel salotto di Girolamo Mocenigo di San Stae a Venezia alla presenza del fior fiore della nobiltà della Serenissima, cercheremo la tempra del drammaturgo in musica da cui scaturiranno capolavori teatrali di grande efficacia scenica.

Ed il Combattimento, steso su alcune ottave tassesche (mescolano liberamente la Gerusalemme liberata e la Conquistata), offre esempi illustri dello stile 'concitato' e dell'aderenza al testo di Monteverdi (ma anche della sua nostalgia di tornare al teatro dopo il 'servizio dolcissimo' nella Basilica di San Marco). La 'dottrina degli affetti' è qui affermata con volontà quasi paradigmatica. Tutto trova immediato riscontro nella parola: i preliminari del duello, il movimento del cavallo, gli accenti aspri della singoiar tenzone, lo sfinimento, l'ira, la ripresa delle ostilità sino al loro compimento estremo, la finale amara sorpresa, lo scoramento, il trapasso della convertita Clorinda verso un intravisto cielo beatifico. Con somma aderenza a quella 'retorica' musicale già barocca che diventerà moda dopo di lui. Curatissimo è anche l'organico, con alcuni effetti (pizzicati e tremoli) per la prima volta esplicitamente annotati in partitura, sempre pensato con fini descrittivi in rapporto alle cangianti situazioni proposte dall'episodio tassesco. Novità dell'espressione e novità dello stile, ovvero di contenuto e forma, viaggiano di nuovo a braccetto in un'opera che non trova riscontro nella letteratura musicale e che pur si pone alla confluenza di futuri sviluppi storici.

Ma torniamo per un attimo ancora al Settimo libro, che Monteverdi chiama anche significativamente Concerto a sottolinearne l'eterogeneità dei generi musicali trattati: madrigali concertati sul basso continuo specialmente a due voci (quasi la metà dell'intera raccolta), ma anche arie, canzonette, un balletto, come detto, brani in stile rappresentativo. Ma, soprattutto, il Settimo libro è una preclara esemplificazione di quel duetto da camera che verrà più tardi illustrato magistralmente da Agostino Steffani. Anche qui, tuttavia, l'inesauribile fantasia monteverdiana fa sì che la concezione formale duettistica rifugga da norme strutturali precostituite, approdando ad una grande varietà di esiti espressivi. Vedasi ad esempio Interrotte speranze, eterna fede 'a doi tenori' su un sonetto di Guarini, considerato una delle vette dell'arte monteverdiana. Dal quasi salmodico declamato iniziale all'unisono in registro cupo sull'immobile pedale del basso le due voci si individualizzano, dapprima in concomitanza, poi in alternanza melodica. O si prenda il non meno esemplare O come sei gentile, su un madrigale ancora di G. B. Guarini, per due soprani, autentico merletto ricco di soluzioni inedite, di ricami vocali a significare la delicata similitudine tra il poeta (ovvero il musicista) e l'uccello, entrambi prigionieri di una fanciulla, ma avviati a diversi destini (una vita felice per il volatile, una agonia certa di morte per l'innamorato). Lirismo ed ornamentazioni vocali, fatte di fioriture leggere, coesistono in una scrittura vocale che, muovendo da un andamento quasi canonico, vola poi verso i procedimenti per terze parallele cari all'autore o a passaggi imitativi d'uno spontaneo contrappunto.

Si ispessisce l'organico vocale in Al lume delle stelle su testo del Tasso, il lamento di Tirsi affidato ad un doppio duetto (due soprani, tenore e basso), quattro voci che si raggruppano a due a due e spesso si rincorrono in agile contrappunto imitativo, in cui al motivo che s'innalza verso l'alto (al tenore) quasi a toccare la vetta celeste, risponde inizialmente l'ardito sbalzo di nona discendente al basso ('Si dolea...').

A quasi vent'anni di distanza, a Venezia nel 1638, videro la luce i Madrigali guerrieri et amorosi (Libro ottavo), 'summa' monteverdiana che annovera anche pezzi di antica data come il già ricordato Combattimento di Tancredi e Clorinda (1624) e addirittura il Ballo delle ingrate (1608), eloquente esempio di ballo melodrammatico di corte. Un'ampia raccolta in due parti in cui i testi sono poesie d'amore, nei quali gli episodi 'guerreschi' altro non sono che metafore dell'impietosa guerra d'amore.

Dalla prima parte (Madrigali guerrieri) testimoniano eloquentemente oltre al paradigmatico Combattimento, due madrigali, l'uno (Hor che 'l cielo e la terra) acceso dal fascino della poesia petrarchesca, l'altro Ardo, avvampo, mi struggo, ardo: accorrete a ben otto voci, immagine di un incendio amoroso che frastaglia ritmicamente il discorso musicale. Dalla contemplazione della natura del primo, che confronta la pace interiore e la guerra interna dell'animo (come non convenire col Redlich che "nessun romantico avrebbe potuto dipingere così lapidariamente il tacere del cielo, della terra, dei venti, l'infinita pace della notte stellata, lo specchio delle acque del mare"?), si passa nel secondo madrigale alla affannosa ripetizione di parole impetuose ed accorate, che avviano l'immane rogo in cui tra le richieste disperate di aiuto ('accorrete vicini all'infiammato loco'), la composizione tende gradatamente a risolversi sempre più in termini musicali e si apre a meno tesi climi espressivi. Più propriamente guerresco Gira il nemico, quasi preparazione ad una bellicosa tenzone.

Ad aprire i Madrigali amorosi è invece il mariniano Altri canti di Marte, in cui i violini conservano una autonomia a tratti melodica. Il sonetto costituisce infatti il prologo e fa da 'pendant' ad Altri canti d'Amor che apre invece i Madrigali guerrieri a riprova della intercambiabilità dei due termini. L'avvio omoritmico echeggia ancora qui memorie guerresche che si accendono di motivi marziali in imitazione per poi spegnersi in un dialogo a gruppi giustapposti.

Singolarissimo invece il trittico in cui due trii concertanti (Non havea Febo ancora e Si tra sdegnosi pianti) incorniciano, anzi incastonano il soave Lamento della Ninfa (Amor, dov'è la fé) in genere rappresentativo, che, giusta l'annotazione autografa monteverdiana, "va cantato a tempo dell'affetto dell'animo e non a quello della mano" (ovvero non secondo ferree leggi metronomiche, bensì come detta il ritmo psicologico degli affetti espressi dalle parole). Esempio preclaro di 'seconda prattica', ove l'armonia (o sia la musica) si fa umile ancella dell'oratione (ovvero della poesia). Su un ostinato tetracordo dorico discendente, reiterato al grave ben trentaquattro volte, ovvero per tutta la lunghezza del Lamento, si leva il compianto struggente della protagonista (soprano) commentato miserevolmente in coro dalle voci maschili. La canzonetta di Rinuccini prende così corpo e spessore dimensionale, anzi un vero risalto tragico. E' difatti qui la protagonista in prima persona a stagliarsi come un altorilievo sulle voci di sfondo che ne commentano con partecipazione l'infelicità. Ed il basso ostinato di passacaglia ne evidenzia, nella iteratività quasi meccanica del basso, la varietà ora persino dissonante degli accenti vocali, smarriti ed allucinati, sinceri e disadorni.

La medesima alternanza del soprano con il resto omoritmico delle voci registriamo in Chi vol haver felice, madrigale anch'esso di Guarini, a 5 voci cantato 'a voce piana alla francese', indicazione nella quale più che un riferimento ad un'influenza dei musicisti della Pleiade (gli Airs de cour di Guédron che il Duca di Mantova aveva forse conosciuto nel suo viaggio a Parigi nel 1608 o che forse erano stati al musicista illustrati da Rinuccini) è da leggersi una strutturazione formale che evidenzia il soprano in alternanza col 'coro' (ma, a differenza del Lamento della Ninfa, qui su un medesimo testo letterario), ma non esclude un originale trattamento melodico ed armonico. Un'ennesima stella 'nova' nella galassia monteverdiana, che nell'anno ormai vicino del trecentocinquantenario della morte del compositore cremonese, ci accingiamo a celebrare al pari della sua incommensurabile grandezza.

Lorenzo Tozzi

Testo

IL COMBATTIMENTO DI TANCREDI E CLORINDA

Tancredi che Clorinda un uomo stima
vuol ne l'armi provarla al paragone.
Va girando colei l'alpestre cima
ver altra porta, ove d'entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga, in guisa avvien che d'armi suone
ch'ella si volge e grida: - O tu, che porte,
correndo sì? - Rispose: - E guerra e morte.

- Guerra e morte avrai: - disse - io non rifiuto
darlati, se la cerchi - : e ferma attende.
Ne vuol Tancredi ch'ebbe a pie veduto
il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l'un l'altro il ferro acuto,
ed aguzza l'orgoglio e l'ira accende;
e vansi incontro a passi tardi e lenti
quai due tori gelosi e d'ira ardenti.

Degne d'un chiaro sol, degne d'un pieno
teatro, opre sarian si memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudesti e nell'oblio fatto sì grande,
piacciati ch'indi il tragga e'n bel sereno
a le future età lo spieghi e mande.
Viva la fama loro, e tra lor gloria
splenda dal fosco tuo l'alta memoria.

Non schivar, non parar, non pur ritrarsi
voglion costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi
toglie l'ombra e'l furor l'uso de l'arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro; e'l pie d'orma non parte:
sempre il pie fermo e la man sempre in moto,
né scende taglio in van, ne punta a voto.

L'onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l'onta rinova:
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s'aggiunge e piaga nova.
D'or in or più si mesce e più ristretta
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co'pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.

Tre volte il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, e altrettante
poi da que' nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fier nemico e non d'amante.
Tornano al ferro, e l'un e l'altro il tinge
di molto sangue: e stanco e anelante
e questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.

L'un l'altro guarda, e del suo corpo essangue
sul pomo de la spada appoggia il peso.
Già de l'ultima stella il raggio langue
sul primo albor eh'è in oriente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sanguge
del suo nemico e sé non tanto offeso
ne gode e insuperbisce. Oh nostra folle
mente ch'ogn'aura di fortuna estolle!

Misero, di che godi? Oh quanto mesti
sian i trionfi e infelice il vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (s'in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
Cosi tacendo e rimirando, questi
sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse,
perchè il suo nome a lui l'altro scoprisse:

- Nostra sventura è ben che qui s'impieghi
tanto valor, dove silenzio il copra.
Ma poi che sorte rea vien che ci nieghi
e lode e testimon degni de l'opra,
pregoti (se fra l'armi han loco i preghi)
che'l tuo nome e'l tuo stato a me tu scopra,
accio ch'io sappia, o vinto o vincitore,
chi la mia morte o la vittoria onore. -

Rispose la feroce: - Indarno chiedi
quel c'ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu innanzi vedi
un di quei duo che la gran torre accese. -
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi
e: - In mal punto il dicesti; [-i ndi riprese]
- il tuo dir e'l tacer di par m'alletta,
barbaro discortese, a la vendetta.

Torna l'ira ne'cori e li trasporta,
benché deboli, in guerra a fiera pugna!
U' l'arte in bando, u' già la forza è morta,
ove, in vece, d'entrambi il furor pugna!
O che sanguigna e spaziosa porta
fa l'una e l'altra spada, ovunque giugna
ne l'armi e ne le carni! e se la vita
non esce, sdegno tienla al petto unita.

Ma ecco ormai l'ora fatai è giunta
che'l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s'immerge e'l sangue avido beve:
e la veste che d'or vago trapunta
le mammelle stringea tenere e lieve,
l'empie d'un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e'l pie le manca egro e languente.

Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le parole estreme:
parole ch'a lei novo spirto addita,
spirto di fé, di carità, di speme,
virtù che Dio le infonde, e se rubella
in vita fu, la vuole in morte ancella.

- Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona
tu ancora, al corpo no che nulla pave,
a l'alma sì: deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch'ogni mia colpa lave. -
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch'al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar invoglia e sforza.

Poco quindi lontan nel sen d'un monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v'accorse e l'elmo empiè nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentì la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide e la conobbe: e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!

Non morì già, che sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l'acqua a chi col ferro uccise.
Mentre egli il suon de'sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise:
e in atto di morir lieta e vivace
dir parea: "S'apre il ciel: io vado in pace."

(Libro ottavo la parte: Madrigali Guerrieri)
(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 17 dicembre 1992


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Ultimo aggiornamento 25 settembre 2015