Concerto n. 3 in mi minore per pianoforte e orchestra (MWV O13)


Musica: Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809 - 1847)
  1. Allegro molto vivace
  2. Andante
  3. Allegro brillante
Organico: pianoforte solista, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1842

Incompiuto
Guida all'ascolto (nota 1)

Felix Mendelssohn precocemente morì a Lipsia a trentotto anni, il 4 novembre 1847 (era nato ad Amburgo il 3 febbraio 1809, ed è sepolto a Berlino), lasciò in perfetto ordine un enorme archivio di carte personali, lettere, manoscritti delle sue musiche inedite e delle pubblicate (e di queste anche le prime stesure), e infine una massa imponente di appunti musicali, abbozzi, progetti. Il lascito ben rispecchia l'eccezionale carattere di Mendelssohn (che Schumann, a lui teneramente affezionato, chiamava 'Felix meritis'), equilibrato, attivo, padrone di sé.

Felix era nato, secondo di quattro figli, in una famiglia di commercianti ebrei (convertiti da poco al luteranesimo), molto colta, prospera e lieta. Il nome Mendelssohn era del padre Abraham (un bisnonno di Felix era stato il celebre filosofo dell'illuminismo tedesco Moses Mendelssohn, amico di Lessing e elogiato da Kant), la madre Lea era una Salomon (il secondo cognome Bartholdy era entrato in famiglia col fratello di Lea, Jakob, che l'aveva aggiunto a Salomon quando aveva lasciato l'ebraismo per il cristianesimo). Felix, affettuoso con tutti i famigliari, tra i fratelli amò più degli altri la primogenita Fanny, una giovane di straordinaria sensibilità artistica. Egli era sano, forte (un magnifico atleta), bello, attento e calmo, dotato dunque del raro dono di una curiosità sempre vincitrice, era amabile, brillante, ricercato da tutti: e soprattutto fu un genio, anzi un genio precoce. Nel 1821, a dodici anni!, andò a Weimar per rendere omaggio a Goethe, che se lo tenne accanto per giorni, chiedendogli di suonare per ore Bach, Mozart e qualche volta perfino Beethoven (alle lunghe sedute musicali in casa Goethe partecipava Adele Schopenhauer, la madre di Arthur, anche lei rapita di ammirazione per il ragazzino Felix). Poi, a diciassette anni Mendelssohn scrisse l'Ouverture per il Sogno di una notte d'estate di Shakespeare, un capolavoro ancora oggi insuperabile nel suo genere, strabiliante manifestazione di genialità originale, lirica e sognante: a quell'età solo Mozart e Schubert arrivarono tanto in alto.

L'Ouverture al Sogno non è l'unica manifestazione di un'energia inventiva superiore, che la produzione di Mendelssohn, sinfonica, cameristica, corale, è stupefacente, non solo per la quantità ma, appunto, per la qualità somma raggiunta in più casi e in diverse epoche della vita. Perciò parlare di sviluppo artistico e intellettuale per un artista che a diciassette anni ha scritto uno dei suoi indiscutibili capolavori, è difficile. In venti anni, tra il 1826 e il '47, il suo stile e i suoi mezzi tecnici non mutarono nei loro aspetti sostanziali: il principio generatore, nell'anima e nella cultura di Mendelssohn, fu il raro, e forse in quei due decenni unico, ideale di equilibrio tra la sensibilità romantica, fantasiosa, lirica, emotiva, e il principio attivo della forma, della chiarezza dei mezzi, della costruzione. Insomma, si può dire che Mendelssohn è un vero romantico, ma nato ed educato al senso della misura, al rispetto della tradizione classica e accademica, alla diffidenza per gli eccessi e per le eccentricità dei romantici radicali (egli fu freddo, naturalmente con la mondana cortesia che gli era propria, nel giudicare le musiche di Berlioz e del primo Wagner).

Una disposizione del genere nei principi creativi non può scansare sempre il manierismo e la convenzione. Mendelssohn nei grandi momenti effonde il suo genio con intensità lirica, con poetico slancio immaginativo, e anche con religiosa e sincera austerità (in alcuni dei suoi capolavori sinfonico-corali), ma con debole senso delle lacerazioni profonde e dei contrasti esistenziali. La sua arte è esperta della luce e dell'ombra, non del buio, conosce la malinconia, l'infelicità, non la disperazione. Credo sia questa la ragione per la quale il carattere del sinfonismo puro, il dinamismo 'drammatico', nei suoi lavori sinfonici di grandi misure (ma quasi mai nella musica da camera e in quella per pianoforte solo) è o indeciso o esteriormente costruito, cioè innaturale ed esagerato.

Come accade, per esempio, nei due Concerti per pianoforte e orchestra, op. 25 in sol minore (1832-33) e op. 40 in re minore (1837-38), specialmente nel secondo (che non piacque al pur fedele Schumann: «Questo Concerto appartiene alle sue opere meno accurate [...]»). Forse per questo, dico: per l'insoddisfacente soluzione di costruzione e di stile nel Concerto m re minore, nel 1840 Mendelssohn abbozzò e poi abbandonò un terzo Concerto in mi minore, che rimase incompiuto nel cassetto.

Come ho detto all'inizio, Mendelssohn lasciò le sue carte in perfetto ordine. Che tuttavia poco fu utile, perché nei complicati contrasti tra eredi e curatori quelle carte si dispersero nelle biblioteche del mondo (Lipsia, Berlino, Londra, Oxford, New York). Le carte dell'inedito Concerto in mi minore sono nella Bodleian Library di Oxford.

Ciò che abbiamo del Concerto è, almeno per i primi due tempi, quello che i tedeschi dicono il Particell, appunti musicali particolareggiati su due o tre pentagrammi, con i temi, le indicazioni sommarie ma chiare della strumentazione e degli sviluppi formali e armonici. Leggiamo quello che dice Marcello Bufalini, responsabile del completamento del Concerto: «Il manoscritto si presenta in una veste di completezza decrescente, a partire dalle prime sedici misure, interamente orchestrate, per proseguire con la sola parte pianistica, dapprima completa e dettagliata, poi annotata in modo via via più sintetico. [...] Nonostante queste lacune, le intenzioni del compositore, per quanto riguarda i primi due movimenti, sono evidenti. [...] Del Finale rimangono nel manoscritto: un frammento del tema introduttivo; il tema principale, completo nella melodia ma privo di armonizzazione; e alcune battute contenenti spunti motivici secondari». Dunque, la lettura della partitura ricostruita, per ora non in edizione critica, e forse anche l'ascolto quasi nulla ci possono dire sul carattere dell'ultimo tempo, lasciato da Mendelssohn solo in frammenti di idee.

Il Concerto si avvia con il primo tema scandito e vigoroso (tutti gli archi in 'fortissimo', con brevi accenti dei fiati), subito ripetuto (8+8 battute, presenti complete nel manoscritto), poi il tema passa al pianoforte in una fisionomia più raccolta e riflessiva. Il contrasto tra il tono virilmente affermativo in apertura e la sua eco sfumata intende proporre una drammaticità 'beethoveniana': come è consueto nell'architettura della forma-sonata. La tensione tra due contrarie disposizioni affettive percorre tutto questo primo movimento, non solo nelle differenti presentazioni del primo tema, ma soprattutto nella contrapposizione tra il primo tema 'ritmico' e il secondo, che è cantabile. Nello sviluppo, durante il quale i temi si affrontano, si contrastano, si fondono, è efficace il modo con cui Mendelssohn riduce il primo tema a un segmento tematico e talvolta a pura pulsazione, sonoramente evidente o anche nascosta. Sebbene Mendelssohn sopprima i ritornelli (come aveva già fatto nei due Concerti precedenti), questo primo movimento nella sua interezza è lungo e ripetitivo, specialmente perché il dialogo tra il pianoforte e l'orchestra di rado è caratterizzato, necessario, serrato.

Con un passaggio a effetto (da 4/4 a 6/8, annunciato da una sola battuta dei corni) s'inizia senza interruzione l'Andante, una cordiale cantilena 'popolare' in la minore (oboe e pizzicato degli archi). Tocca poi al pianoforte presentare un'altra bellissima melodia in la maggiore e poi elegantemente adornarla quando la ripete l'orchestra. Alla fine il sereno intrattenimento si allontana, disperdendosi in echi e sussurri con una conclusione molto poetica. Ancora una volta senza pausa si passa dal 'pianissimo' di la minore allo slancio brillante di mi maggiore (archi, poi il 'pieno' di orchestra). Ma come ho già notato, poco si può dire di questo Finale data l'incompletezza del manoscritto.

Franco Serpa


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 15 dicembre 2007


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Ultimo aggiornamento 16 novembre 2012