Concerto n. 1 in sol minore per pianoforte e orchestra, op. 25 (MWV O7)


Musica: Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809 - 1847)
  1. Serenata. Andante (si minore)
  2. Allegro giocoso. Animato (si minore)
Organico: pianoforte, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 11 aprile 1838
Prima esecuzione: Lipsia, Gewandhaus Saal, 11 aprile 1838
Edizione: Simrock, Bonn, 1839
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Concepito nella forma finale in pochi giorni a Monaco nel settembre 1831 - come indicato dall'autore «steso velocemente», ovvero di getto - ma in realtà concepito già durante il soggiorno di Mendelssohn a Roma nel 1830-31, il Concerto in sol minore op. 25 risulta un'opera a tutto tondo, di assoluto rispetto nella concezione della forma e rappresenta un deciso superamento del virtuoso ed elegante modello Biedermeier così in voga negli anni intorno al 1830, i cui esiti irripetibili e meglio riusciti erano stati perfettamente riassunti nei due Concerti di Chopin. Non solo esteriorità e superficie, concessione al gusto imperante del pubblico, ma anche contenuti nuovi, sorprendenti. Si trattava, ad esempio, di superare l'impasse in cui era caduta la forma concerto in quegli anni riguardo al ruolo dell'orchestra, che tendeva ormai a essere troppo debole nel rapporto con il solista, sino quasi a scomparire. E bisognava recuperare il principio del dialogo intrecciato con la stessa orchestra, così caratteristico del concerto classico: questo, naturalmente, senza sacrificare le conquiste tecniche del virtuosismo strumentale. Mendelssohn vi riuscì proprio con quest'opera dal carattere un po' sperimentale, innovativo, che sceglie semplicemente una nuova via nella proposizione delle architetture e delle idee musicali. Vediamone qualche spunto: il Concerto, in tre movimenti, è strutturato sostanzialmente senza soluzione di continuità tra le parti, unite da una fanfara orchestrale che funziona da cerniera di collegamento, cosa che conferisce un forte senso di unitarietà. Inoltre si rifa al pensiero ciclico, con una parte del materiale tematico del primo tempo che compare sotto forma di citazione nel Finale. La forma richiama calchi classici, ma molto liberi, come il primo movimento, che è una sorta di parafrasi in forma-sonata. O l'ultimo, che riprende elementi strutturali della forma del rondò sonata, ma in modo molto duttile e con una scrittura di carattere improvvisativo e tecnicamente evoluta nella parte pianistica.

Tornando al primo tempo, Molto Allegro con fuoco, all'inizio nell'esposizione l'orchestra introduce una tumultuosa, stürmisch scala all'acuto e in crescendo, chiusa su ampi e rabbiosi salti su intervallo d'ottava, al cui culmine vi è l'entrata teatrale del pianoforte, impegnato in potenti scale a due mani su doppie ottave e poi su un vorticoso arpeggio in sedicesimi: tutte figure ripetute e poi concluse da una frasetta discendente che si spegne su una dolce appoggiatura su ritmo puntato, «alla Viotti». Ma il primo gruppo prosegue subito con l'enunciazione del tema principale vero e proprio al pianoforte, basato su corposi accordi in fortissimo e seguito da volate in semicrome. Di seguito, ecco la rielaborazione dell'introduzione con la mulinante scala ascendente e le scale a doppie ottave che portano subito al tema principale esposto a piena orchestra. In pochi attimi si sono sentiti più volte e in ruoli differenti alcuni degli elementi caratteristicì del Concerto; sono stati ripresi e già elaborati, passati dal solista all'orchestra, e viceversa. Tutto si svolge in uno scorrere temporale breve, immediato, dal carattere improvvisativo, una sorta di costante che s'insinua nelle mille pieghe del lavoro; anche la transizione sopraggiunge in un battito d'ali, costruita prima su una figura reiterata, poi su di una progressione con nuove, mulinanti scalette del «solo» inframmezzate a materiale del primo tema affidato all'orchestra: quando giunge il secondo tema, sì presenta al tono parallelo di si bemolle maggiore; ripetuto, è spostato a si bemolle minore in ritardando, infine passa a re bemolle maggiore, completato ed espanso nel suo arco melodico. Nell'epilogo il materiale del secondo tema si trasforma in un passo in accelerazione e in crescendo che affretta i tempi e trapassa nello sviluppo, aperto da una variante della scala a doppia ottava del pianoforte seguita dal vorticoso arpeggio in sedicesimi, elementi prima presenti nell'introduzione del concerto. Poi ancora ecco l'elaborazione su più piani tonali anche del secondo tema, ornato dai brillanti arpeggi in semicrome e dalle turbinose volate del solista con un accordo di quarta e sesta che funziona da appoggio-cadenza di attesa, prima del grande trillo su accordo di settima; qui rientrano le scale prese di salto a doppie ottave; ulteriori arpeggi agitati del pianoforte e altre citazioni del secondo tema sono completate dalla coda del pianoforte che si spegne sul ritardando. Come si vede, notevole e continuo è il lavorio tematico e l'elaborazione delle idee preesistenti, in un'area carica di colori orchestrali e di conflittualità ritmica e motivica. Così la ripresa giunge con veemenza e si svolge in modo sintetico e variato attraverso il ritorno dell'introduzione con la tumultuosa scala ascendente - qui in re maggiore - conclusa su ampi salti e collegata alla citazione del primo tema principale. Dopo una frase sospirosa del solista ecco il secondo tema, pure espresso dal piano e poi dall'orchestra, che pronuncia anche una melodia conclusiva di struggente bellezza, mentre il solista si lancia in passi tecnici che s'infrangono su di un brillante trillo che preannuncia l'epilogo. Quest'ultimo è basato sulla figura del primo tema variato dentro un precipitoso motivo discendente del «tutti», intersecata alla citazione del secondo, espresso da fiati e contrappuntato dai violini.

Una fanfara di collegamento che risulta, poi, come sospesa sugli accordi un po' sofferenti del pianoforte e sulla sua frase in stile di recitativo, porta al secondo movimento, l'Andante. Configurato in forma Lied, è una sorta di dolcissima serenata notturnale (richiama anche per alcuni tratti il tema del Notturno, pure in mi maggiore, di Sogno di una notte di mezza estate scritto nel 1843). Il tema della prima parte, tanto nobile ed espressivo che pare «rubato» a una delle sue Romanze senza parole, è prima affidato a viole e violoncelli, poi rilevato dal pianoforte, arricchito da vari passaggi ornamentali e proseguito in una seconda frase su scala discendente che tornerà nella parte centrale. Di nuovo, sul trillo del pianoforte, si riaffaccia il tema di notturno all'orchestra, concluso da una deliziosa codetta del pianoforte derivata dalla scala discendente. La parte centrale rappresenta l'eden del fantastico, con un trapasso avvenuto senza soluzione di continuità nel tono di dominante di si maggiore: dopo gli accordi ribattuti, ecco la cadenza, fatta di morbide movenze in arpeggio, volatine, doppi trilli, nell'ambito di un clima squisitamente romantico. Tutto si gioca sulle sfumature, sul detto e non detto, sui richiami virtuali, con la breve, ondulata citazione del tema principale e la perorazione finale su note ribattute, retaggio dell'introduzione. Un volubile arabesco all'acuto pare, alla fine, come svaporare. Perciò si rimane nell'ambito di un mondo dell'onirico, con la ripresa del tema principale a viole e violoncelli, mentre il piano avvolge tutto in una collana di note di leggiadra raffinatezza. Il tema passa a sua volta al solista e così facendo conduce questo quadro alla tranquilla coda conclusiva.

Il Presto sopraggiunge fragorosamente con la fanfara di collegamento su note reiterate, che funziona da introduzione come per l'Andante, ma è ora più incisiva e briosa. Il tempo riprende a scorrere veloce, a pulsare. Un episodio virtuoslstico del pianoforte crea un forte senso di attesa per l'insistita permanenza intorno a un accordo di settima di dominante che rende l'armonia satura e instabile. Ecco allora il Molto Allegro e Vivace, con l'esposizione del primo tema-refrain in sol maggiore sulle doppie ottave del piano, pieno di slancio, in perfetto stile weberiano; rimane al solista anche il pungente e vaporoso secondo tema, sopra un vorticoso movimento di quartine di semicrome punteggiato dai fiati in orchestra. Ora gli awenimenti si succedono in una spirale sempre più stretta: una breve frase di cerniera melodica ed ecco ricomparire il secondo tema nel tono di dominante re maggiore. Seguono una nuova vorticosa frase di passaggio e pure il secondo tema in tonica, nella tonalità di sol maggiore. Ancora una stretta cadenza, nella forma di un accelerato moto ascendente del solista, conduce all'ennesima riproposta del secondo tema, questa volta con il sapore armonico dell'epilogo. Al trasmutare progressivo dentro un più irto percorso modulante si passa nello sviluppo, con il ritorno variato del refrain del primo tema nel «tutti» e uno spostamento al piano tonale di si maggiore, tono su cui riprende anche il vortice di quartine del secondo tema, trasformato nei colori armonici e concluso da una serrata frase di passaggio. Si succedono anche il primo tema in re maggiore, trattato in modo calmo ed espressivo, poi il secondo tema, qui esposto alternativamente tra solo e orchestra e sapientemente variato, sino a trasformarsi in frase di passaggio alla nuova sezione. L'elaborazione del materiale è continua, ingegnosa, e giunge a esiti sorprendenti con la ripresa, dove torna il primo tema refrain, ma scorciato attraverso brevi cadenze di chiusa per l'improvviso sopraggiungere di una citazione dell'incipit con salto d'ottava che aveva preparato l'entrata del piano e annunciava il tema principale del primo movimento. Seguono brevi, brillanti elementi del refrain del terzo movimento, mentre una figura su quattro note ascendenti nella ripetizione si trasforma nel dolce secondo tema del primo tempo, che crea un elemento di attesa. Nell'epilogo (Tempo I) si combinano ulteriori elementi come richiami al secondo tema di questo Finale e brillantissimi passi tecnici che conferiscono un clima strabiliante e carico di effetti a questa entusiastica chiusa.

Marino Mora

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Non aveva nemmeno ventidue anni Mendelssohn quando iniziò a comporre il primo Concerto in sol minore per pianoforte e orchestra, dedicato ad una giovane pianista di Monaco e allieva del musicista, Delphine von Schauroth. Questo lavoro fu scritto in gran parte durante il viaggio in Italia compiuto dal compositore nel 1830, nel corso delle visite a Venezia, Firenze, Roma e Napoli e nello stesso periodo di altri brani significativi, come la nuova versione dell'ouverture Fingals Höhle (La grotta di Fingal) e il primo quaderno dei pianistici Lieder ohne Worte (Romanze senza parole). La composizione venne conclusa nell'autunno del 1831 a Monaco, dove ebbe luogo nello stesso anno la prima esecuzione diretta dall'autore con grande successo e suscitando gli entusiasmi di Schumann, che per l'occasione scrisse un esaltante profilo critico di Mendelssohn, il quale «è sempre lo stesso e si muove con il suo solito passo giocondo, con il suo sereno sorriso sulle labbra».

Effettivamente questo Concerto emana un senso di giovinezza e di gioia di vivere sin dal brillantissimo e trascinante attacco iniziale in cui il pianoforte emerge e rivendica i suoi diritti solistici. Dopo una serie di modulazioni di piacevole effetto e delicatamente sfumate in un affettuoso lirismo, il pianista si slancia in un vivacissimo dialogo con l'orchestra. Una musicalità fine e delicata contraddistingue l'Andante, aperto da un'assorta melodia cantata dalla viola e dai violoncelli; è una pagina esemplare per la scorrevolezza e la perlacea linearità dell'impianto armonico e melodico, così da essere definita una vera e propria romanza senza parole, anche se nel discorso orchestrale non mancano reminiscenze weberiane e beethoveniane. Il Molto allegro e vivace del terzo tempo è uno sfrenato e virtuosistico rondò, in cui il musicista si richiama alla fantasiosa, spumeggiante e travolgente leggerezza dei suoi famosi "scherzi", punteggiati e sorretti da una invenzione personalissima.


(1) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al numero 177 della rivista Amadeus
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 20 novembre 1989


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Ultimo aggiornamento 20 settembre 2012