Si ritiene generalmente che nell'Ottocento la musica strumentale fosse quasi totalmente scomparsa dall'Italia, troppo presa dalla passione dell'opera per prestare orecchio ad altri tipi di musica. In realtà nelle centinaia - forse migliaia - di salotti in cui ogni sera si faceva musica, sopravviveva un piccolo spazio, accanto alle arie d'opera e alle romanze vocali, per la musica strumentale. Oltre ai compositori italiani - in massima parte operisti, che dedicavano alla musica strumentale i ritagli di tempo, o virtuosi dei vari strumenti, che scrivevano pezzi destinati in primis alle loro esibizioni - si potevano talvolta ascoltare musiche di Mozart e Beethoven e anche di autori più recenti, come Mendelssohn, Chopin, Schumann e perfino d'un rappresentante della "musica dell'avvenire" come Liszt, che - non va dimenticato - soggiornò per lunghi periodi a Roma.
Soltanto negli ultimi decenni dell'Ottocento alcuni compositori italiani si accostarono alla musica strumentale con maggiore consapevolezza delle specificità di questo genere e dei grandi cambiamenti che stavano avvenendo nel mondo musicale europeo: tra questi Giovanni Sgambati, Marco Enrico Bossi e soprattutto Giuseppe Martucci. Come pianista (ebbe gli elogi di Liszt) e direttore d'orchestra (inaugurò i concerti dell'Accademia di Santa Cecilia all'Augusteo), Martucci si prodigò nel divulgare le musiche cameristiche, sinfoniche e teatrali dei maggiori autori d'oltralpe. Come compositore, fu tra i primi a sentire la necessità culturale di riportare l'Italia nel "concerto" della musica europea, superando il provinciale arroccamento nella presunta superiorità garantita dalle nostre gloriose tradizioni musicali. La sua attività d'interprete e quella di compositore sono in stretta relazione: l'amatissimo Wagner (diresse la prima italiana del Tristano e Isotta) gli consente di attualizzare il suo idioma strumentale; gli sviluppi della forma classica ad opera di Brahms (di cui diresse le prime italiane della Prima e Seconda Sinfonia) sono riconoscibili nel suo Concerto per pianoforte e nelle due Sinfonie; Schumann condiziona la struttura di molta sua musica cameristica e lo aiuta a superare il sentimentalismo troppo diretto a favore di un'espressione più sfumata e inquieta.
Un altro influsso - minore ma non trascurabile - della sua attività d'interprete su quella di compositore si può riconoscere nei vari pezzi che, dopo una lunga tournée europea con il famoso violoncellista Alfredo Piatti, dedicò al duo violoncello-pianoforte: nel 1880 compose la Sonata op. 52, nel 1888 i Tre Pezzi op. 69 e nel 1890 le Due Romanze op. 72.
Il tradizionale carattere della Romanza è sostanzialmente rispettato da Martucci nell'op. 72: sono infatti due pagine essenzialmente melodiche, su un accompagnamento del pianoforte consistente di ampi arpeggi nel primo brano, più denso invece nel secondo; la forma è tripartita ma molto coesa, perché la sezione centrale è collegata sotto l'aspetto tematico ed espressivo a quella iniziale. È ancora riconoscibile l'influsso di Mendelssohn (le Romanze senza parole) e di Schumann, filtrato però dalla sensibilità delicata e dall'eleganza garbata di un Fauré. La brevità delle due Romanze consente a Martucci la più totale e felice estrinsecazione espressiva - laddove nelle opere più ampie le intuizioni di getto e le aperture generose e improvvise sono talvolta seguite da prosecuzioni laboriose ed erratiche - e il loro tono introverso e meditativo rispecchia perfettamente le risorse timbriche e il carattere stesso del violoncello.
Mauro Mariani