Tasso. Lamento e Trionfo, S 96

Poema sinfonico n. 2 da George Byron

Musica: Franz Liszt (1811 - 1886)
  1. Lamento
  2. Trionfo
Organico terza versione: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, 4 corni, 4 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, triangolo, tamburo militare, grancassa, piatti, arpa, archi
Composizione: prima versione 1849, seconda versione, 1850 - 1851, terza versione, 1854
Prima esecuzione: Weimar, Großherzogliches Hoftheater, 28 luglio 1849
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia, 1856 (terza versione)
Dedica: Carolyne Sayn-Wittgenstein

Tre versioni, le prime due orchestrate rispettivamente da Peter Cornelius e Joachim Raff

Vedi a S 636 la trascrizione per due pianoforti
Vedi a S 590 la trascrizione per pianoforte a quattro mani
L'epilogo è utilizzato in "Le triomphe funèbre du Tasse" S 112/3
Guida all'ascolto (nota 1)

«La musica orchestrale di Liszt è un insulto all'arte. È prostituzione musicale, un ragliare selvaggio e incoerente» (Gazzetta di Boston, 1872). Non sono entusiasti i commenti della stampa americana quando conosce i lavori sinfonici di un compositore apprezzato soprattuttto per le opere pianistiche.

Tra 1849 e 1882 Liszt scrive tredici poemi sinfonici. Crede a quel tipo di narrazione come strategia compositiva utile a reagire alla crisi, già intuita, della forma sinfonica, e per metterla in atto studia l'orchestrazione, un aspetto del far musica che, da pianista, aveva fino ad allora trascurato.

Il secondo tributo lisztiano ad un genere anticipato da Berlioz e destinato a generosa fioritura nella seconda metà dell'Ottocento, debutta a Weimar nel 1849, dove il maestro è Kapellmeister della locale Corte dal 1842.

Mentre Bakunin e Wagner salivano sulle barricate repubblicane di Dresda, e Karl Marx e Friedrich Engels scrivevano un Manifesto non privo di una certa fortuna critica nonché esecutiva, lui lavorava da direttore artistico: creava le prove d'orchestra a sezioni, dimostrava curiosità nella programmazione, teatrale come sinfonica.

Nel 1807, ancora a Weimar, era stato rappresentato il dramma in versi e in cinque atti Torquato Tasso, scritto da Wolfgang Goethe al ritorno dal suo viaggio italiano, nel 1789, dopo che una precedente versione era stata distrutta dall'autore. «Midollo delle mie ossa e carne della mia carne», lo definirà. Due i protagonisti principali: il poeta e Antonio di Montecatino, segretario di Stato del duca Alfonso II d'Este, nel cui castello di Belriguardo, presso Ferrara, la vicenda è ambientata. Eleonora d'Este, sorella del duca, è il miraggio d'amore del Tasso: «È lecito quanto piace», osa lui; «È lecito quanto conviene», risponde Eleonora, autorizzando la disperata, e letteraria, conclusione del poeta: «Se il dolore rende l'uomo muto, a me un Dio ha concesso di dire quanto soffro».

Il tema del Tasso lo si ascolta subito all'avvio, scandito dagli archi: modo minore, dolorosa solennità, nobile disperazione. È desunto - si dice - da un canto dei gondolieri veneziani, che amavano recitare a memoria, storpiandole con genuità vernacolare, le ottave della Gerusalemme Liberata. Quel motivo resterà l'unico, leit-motiv dell'intero lavoro e caratteristica saliente del genere: non più bitematismo e sviluppo della contrapposizione tra i motivi dominanti, ma una sola idea fissa, principio ciclico del comporre che, nella Sonata in si minore, Liszt applicherà alla scrittura pianistica, proponendosi come il più coerente tra i compositori che riflettono sulla crisi della forma classica e avviando la lenta deflagrazione della scrittura tonale: la radicalità della scelta di un leit-motiv spinge fatalmente verso un ispessimento delle armonie, indispensabile per marcare le sfaccettature espressive del tema dominante. L'attenzione a un poema dove insanabile appare il conflitto tra un uomo - un artista! - e il più forte mondo delle convenzioni sociali e del potere, diventa così una provvidenziale "via di Damasco" per un autore della prima generazione post-romantica.

Se nell'introduzione canta come un collettivo compianto - appunto un Lamento - il tema, detto dal clarinetto, diventa poi espressione della solitudine del protagonista, inconsolabile ovvero mitigata dalla discreta presenza dell'arpa, dai corni lievi, dai pizzicato degli archi; quando viene ripreso dai violoncelli, prende il passo di un minuetto, nostalgico omaggio (chi ne scriveva più, a metà Ottocento?) al tempo della galanterìa. Torquato ed Eleonora, improvvisamente catapultati in un cantabile d'opera, duettano amorosi, danzanti. Anche nell'episodio lirico, preceduto da una fanfara di cui si fatica a comprendere la congruità narrativa, tuttavia si affaccia - ineliminabile flash-back - l'ombra del tema, e i due piani della narrazione procedono insieme, coniugando novità e memoria, destino. Il minuetto assume qui, per Liszt, la stessa funzione che il walzer avrà per Mahler: citazione, parodia, rimpianto.

Il passaggio al modo maggiore segna l'avvio della seconda parte - il Trionfo - dove la mancanza d'ispirazione affiora nella pomposa confezione del finale: "fort cuivré", lo liquidano i francesi (Frangois-René Tranchefort). Ma la responsabilità del giudizio critico è certamente tutta nostra: smaliziati da troppe letture, assuefatti oramai ad un'immagine noir del poeta, non riusciamo a credere ad una sua evocazione luminosa. Il Tasso ci piace tormentato, nevrotico, sghembo, asimmetrico, dolente sempre. Gli si confà il mistero triste del clarinetto, il lamento, non l'apoteosi della fanfara ultima, la trasfigurazione post mortem delle sue umane disgrazie, quando la magniloquenza timbrica schiude i primi spiragli alle più malate, corrose deflagrazioni degli ottoni, tratto tipico della scrittura sinfonica di fine secolo.


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 20 dicembre 1998


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Ultimo aggiornamento 28 novembre 2012