Études d'exécution transcendante, S 139


Musica: Franz Liszt (1811 - 1886)
  1. Preludio - Presto (do maggiore)
  2. Molto vivace - A capriccio (la minore)
  3. Paesaggio- Poco adagio (fa maggiore)
  4. Mazeppa - Allegro (re minore)
  5. Fuochi fatui - Allegretto (si bemolle maggiore)
  6. Visione - Lento (sol minore)
  7. Eroica - Allegro (mi bemolle maggiore)
  8. Caccia selvaggia - Presto furioso (do minore)
  9. Ricordanza - Andantino (la bemolle maggiore)
  10. Allegro agitato molto (fa minore)
  11. Armonie della sera - Andantino (re bemolle maggiore)
  12. Tormenta di neve - Andante con moto (si bemolle minore)
Organico: pianoforte
Composizione: 1851
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia, 1852
Dedica: Carl Czerny

Basati sui "Grandes études" S 137
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Franz Lìszt, o della musica performativa. Musica da percepire sfruttando le possibilità timbriche e digitali del pianoforte. Musica concepita da un esecutore che sa «sentire» la propria mano nella pratica più squisitamente prestidigitatoria. Però anche musica di vigorosa consistenza nella scrittura del testo, di controllo completo dell'architettura. Non solo dunque semplice effetto pirotecnico, ricerca delle possibilità inesplorate del piano. Ma anche e soprattutto tecnica funzionale. Ecco alcuni caratteri del pianismo di Liszt, pianista-compositore per eccellenza, il cui stile e creatività procedono "intonati" all'esuberante personalità di concertista e di straordinario interprete che fu, mentre strabiliava e incantava le platee di mezza Europa. Facendo il verso all'amato Paganini. Vediamo quindi un po' più da vicino alcuni degli aspetti che emergono, qua e là, dentro la sua musica, in uno stile carico di novità e di soluzioni pirotecniche ben esplicitate pure nei Dodici Studi trascendentali per pianoforte S. 139.

Innanzitutto un po' tutti i parametri, tutti le categorie incrociate del discorso musicale sono toccate, collegando spesso effetto, tecnica e struttura formale: accordi utilizzati non più solo dal punto di vista armonico, ma a livello di gradazione di colore; uso di quadriadi, settime diminuite, cluster poliaccordali «liberi» da regole canoniche, messi in musica solo perché «comodi sulla mano» per ottenere veloci scale, salti, sequenze repentine; ma anche ricorso al tremolo per supplire all'esigenza di mantenere il suono tenuto; ispessimento della linea in ottave, semplici o doppie, per sottolineare tempestosi momenti di pathos. E viceversa; uso di ottave spezzate con una o due mani nelle frasi di raccordo, nelle cadenze, nel sostegno armonico; tecnica dei salti, in modo da controllare strategicamente tutta la tastiera con la conseguenza che ogni settore timbrico è utilizzato sia come sede di melodia, tematica o non, sia di accompagnamento. E ancora: uso della tessitura a mani alternate con scrittura distesa nei registri grave, medio, acuto e realizzazione del famoso, lisztiano pianismo "a tre mani". E poi: passaggi d'agilità distribuiti un po' in tutto il raggio d'azione del brano e non solo nel recinto formale delle cadenze, così da interrompere il discorso, spezzarlo, collegarlo. Progressioni, figurazioni varie, scale, sovrapposizioni di mano, passaggi per terze e seste, accordi a piene mani e mulinanti "glissando", toccano varie funzioni e significati, spesso "costitutivi". Ve n'è a sufficienza per mutare la storia del pianismo e della scrittura pianistica.

Dal punto di vista della tempistica è complessa anche la storia degli Studi. Una prima versione, diremmo antesignana, risale al 1826, con uno scatenato Liszt quindicenne: titolo Étude en 48 exercices dans tous les tons majeurs etmineurs; ne appaiono solo 12 presso Dufaut et Dubois, poi presso Boisselot come op. 6, infine da Hofmeister come op. 1. Scritti con grande abilità nello stile brillante viennese dell'epoca, come Liszt l'aveva appreso dal suo grande maestro Carl Czerny, rivelano forte musicalità e un valore intrinseco che va oltre l'esercizio in sé; dal punto di vista della disposizione sono ordinati per quinte discendenti maggiori nei numeri dispari e relativo minore per i pari. Nel 1837 Liszt, divenuto interprete internazionale, riprende in mano una seconda volta quel materiale "di base" cercando qualche cavallo da battaglia tecnicamente rappresentativo e scrive i 24 Grandes Études pour le piano: nel 1839 escono per Schlesinger e poi per Ricordi, Haslinger e Mori & Lavenu. Di numero sono ancora solo 12 e di fonte attingono al materiale precedente: Liszt riutilizza i numeri da 1 a 10, sistemando però il n. 7 al posto 11 e scrivendo un nuovo 7. Il vecchio n. 11 sparisce e il 2, Tempesta di neve, è confermato. Ma c'è un abisso tecnico e di scrittura tra vecchi e nuovi: questi ultimi sono irriconoscibili ormai rispetto alla prima versione e rasentano il livello massimo d'ineseguibilità, d'impossibile, ove le risorse della mano raggiungono i limiti; la scrittura è più evoluta e rifinita, soprattutto sono musicalmente compiuti e vengono dedicati a Carl Czerny. La terza e ultima tappa risale al 1851, anno in cui Lìszt completa gli Études d'exécution transcendante; nel 1852 escono per Breitkopf & Härtel con titoli evocativi, tranne che per il n. 2 e il n. 10. Identico, come per la versione del 1837, l'ordinamento per quinte tonali discendenti e la dedica a Czerny «in segno di riconoscenza e amicizia». Le differenze, questa volta, non sono sensibili: alcune semplificazioni ai fini esecutivi di passaggi troppo impervi, trasformate con perizia e mestiere nello stesso effetto, qualche cambiamento di tempo; sfrondati dagli eccessi romantici, gli Studi risultano, così, classicizzati. Nei procedimenti compositivi si confermano i moduli della seconda versione: Liszt procede secondo il sistema della «modificazione a catena». Partendo da un'idea primigenia - un tema originale o meno, o una figura d'agilità - procede per varianti, digressioni, mutazioni, pseudo riprese, trasformando il materiale senza applicare in modo filologico lo sviluppo tematico classico: ogni procedimento si concatena all'altro anche sfruttando minimi particolari dell'inciso, frase, o figura precedente. L'idea iniziale è sempre riconoscibile, anche se il discorso muta di continuo nelle rifiniture, nel modo dello Schubert delle Fantasie e degli Improvvisi, anche se l'eloquio è qui più intenso, a mo' di recitazione rispetto alla tipica tendenza schubertiana all'intimismo, al colloquio privato.

Il primo numero della serie di Studi trascendentali S. 139 sfrutta una cellula iniziale che non è un tema, ma un gioco improvvisativo. È pre-ludus nel senso più antico del termine: rapida presa di possesso della tastiera e dei suoi spazi da parte dell'esecutore prima dell'inizio del concerto (la serie completa degli Studi), saggiando le possibilità e scaldando le mani in un tumultuoso prologo. Ambientato nel tono di do maggiore, il Preludio (Presto) corre spigliato in mezzo a volubili arpeggi, ribattuti e rimbalzi accordali, figurazioni agili e flessibili. Lo Studio n. 2 (Molto vivace) è indicato A capriccio, e davvero è molto vicino all'idea del capriccio paganiniano, sia nel carattere che nella forma. Richiede grande capacità e controllo totale della tastiera sia per concretizzare le complesse gradualità dinamiche, sia per rendere i contrasti. Da poche battute di introduzione, su bizzose note ribattute in ben marcato, deriva il toccatistico gruppo tematico in la minore: frase su rimbalzante alternanza in ottave dal trasfigurante effetto di rifrazione; stringata seconda idea, roteante su figure ascendenti e terza per sfuggenti bicordi in terze, estesa verso l'alto. Tutto procede veloce, così come, quando, introdotte dall'inciso a note ribattute, figure in progressione portano a una transizione alla nuova ripresa della prima idea del gruppo tematico, a sua volta inanellata a una frase circolare di ponte (Prestissimo). È il principio della costruzione "a catena", in cui il tessuto connettivo deriva dal precedente e si rigenera per particolari. Dopo la libera ripresa della seconda e terza idea del gruppo, il capriccio si chiude in un rutilante Stretto mozzafiato "di bravura", basato ancora sull'iterazione-variante dell'inciso ribattuto.

Il n. 3, Paesaggio (Poco adagio), è un brano dì mezza luce in cui Liszt gioca la carta della poesia, della sognante, panica, immersione nella natura. La cura va dunque al tocco, all'uso saggio dei pedali, al fascino del suono. Proprio il pedale, che fa da sfondo permanente alle sonorità, crea un effetto osmosi, confermato dalla scrittura che conserva tratti melodici e armonici in continuo trapasso, fondendo tutto in un unicum: una tecnica precisa, applicata da Liszt per accentuare l'effetto bucolico. Introdotta dal rotondo arpeggio "a solo" dalla mano sinistra sola - una soluzione ingegnosa per permettere lo svolgersi della melodia obbligato dall'altra mano - si staglia la melodia detta destra, in un arco placido in cantando, un'immagine agreste che pare disegnare il lento levarsi di nebbie mattutine; poi il tema (in fa maggiore) si rinnova invertendo l'ordine tra le mani ed è concluso da una coda che indugia sul pedale di fa. Le figure lentamente scorrono, come fissate su vecchie pellicole o dagherrotipi. Quasi tema durch-componiert, la melodia (al canto della destra, su arpeggio sottostante) riprende quale variante della prima parte e si spegne sugli acuti rintocchi in pedale di fa. Poi (Un poco più animato) di nuovo si inverte l'ordine e l'arpeggio passa in rilievo alla destra, qui però ispessito dal raddoppio della sinistra al basso e proseguito da una frase-ponte; segue la ripresa delle idee del poco più animato, però con tendenza ad accrescimento sino a un acceso climax, solo man mano sfumato nel declinare arretrante della variante discendente dello stesso arpeggio. Come scossa, ora la memoria si ri¬desta, e in [3.04], annegato dentro il dol¬ce mormorio dell'arpeggio alla destra, torna come un ricordo, sfumato negli accordi della sinistra, la traccia del tema obbligato, un'immagine romantica, sognante che indugia, estinguendosi su una scala declinante. Infine ecco la libera ripresa del passo d'esordio: al rotondo arpeggio (pastorale), prima alla destra e poi abbassato, quasi "sprofondato" alla sinistra, si sovrappongono "per contrasto" i tratti trasfigurati del tema obbligato: che ora, quasi evaporato, estinto, nei rintocchi all'acuto risuona puntiforme nella sintesi più estrema.

Lo Studio n. 4, Mazeppa (Allegro) è il cuore del ciclo. Mazeppa, capo militare dei cosacchi, vissuto tra il 1644 e il 1709, fu il protagonista di una storia sentimental-eroica che aveva ispirato, in più forme, lavori di Voltaire, Byron, Slowacki, Puskin, Hugo, Caikovskij, Pedrell. La storia racconta del paggio Ivan Stepanovic Mazeppa, sorpreso in tresca d'amore con una nobildonna polacca, sposa a un marito geloso, e condannato a essere legato sul dorso di un cavallo, lanciato in corsa sfrenata in mezzo alla steppa russa. Raggiunta l'Ucraina e raccolto agonizzante dai contadini del luogo, fu trionfalmente proclamato loro capo nazionale. Dal punto di vista esecutivo il brano, implacabile, non permette al pianista di nascondersi. Musica e tecnica sono, qui, indissolubilmente legati. La ricerca della sonorità, a tratti parossistica, generatrice d'immagini appuntite e furenti, guida la forma e viceversa. Accordi diminuiti in arpeggio a due mani digradanti prima dello squillo acuto finale aprono alla cadenza a piacere, una schiumante, ribollente frase raddoppiata in ottava. Attacca il Leitmotiv di Mazeppa in re minore con strepito, dispiegato su categorici blocchi armonici percorsi da sinuosi moti cromatici interni per terze, proseguito su figure ascendenti ondivaghe e vaporose per doppie seste miste ad altri cromatismi, chiuso su una perentoria frase di raccordo in precipitante recitativo: è il tema delle variazioni, il nucleo del brano. La prima, icastica, copre la più ampia gamma timbrica; si chiude con la variante delle vaporose figurazioni (qui discendenti) e una frase di raccordo in ottave alternate sfociante in mulinante tourbillon: quasi l'onomatopeica immagine di un eroe che cade, esausto, nella polvere. Lla vibrante seconda variazione in si bemolle maggiore esplicita un cambio di scrittura: la sequenza del tema (addomesticata ed edulcorata dentro morbidi arpeggi al basso) è infatti alla sinistra, mentre il canto della mano destra, dolce, è cesellato da un fluido arpeggio per terze. Con la terza variazione, il tema è diluito in ottava alla mano destra, impegnata anche in un vellutato ribattuto interno (espressivo ed appassionato assai), con la sinistra che disegna nuovi cromatismi compattati dentro corposi agglomerati accordali, al fine di amplificare la risonanza; poi i cromatismi per terze e per seste si estendono sino a dominare l'intero campo in un nebuloso, rumoristico effetto; chiusa con il penetrante, martellato, penetrante recitativo-cadenza. La quarta variazione (Animato) offre un'originalissima versione leggera e più scalpitante del tema, con acciaccature nel registro medio inserite sugli accordi tematici, ben scanditi anche dalla sinistra: imitano l'andatura irregolare di un destriero agitato, scaldante; la chiudono varianti ritmiche delle vaporose figure (ascendenti) e un'icastica frase. Subito a seguire, ecco la quinta variazione (Allegro deciso): qui effetto ancor più netto di sonoro scalpitio, con il suono martellato e le doppie acciaccature che portano a un efficace "quasi glissando"; varianti delle vaporose figure trasformate in ritmiche terzine, solcate da rimbalzanti accordi al basso, quasi un lamento d'eroe, sono sommerse dalla ripresa delle figurazioni discendenti che "franano" al grave su una serie d'accordi diminuiti (ricordo del motivo iniziale) e su di un solitario, drammatico recitativo che sfocia in raccolto corale dai mesti rintocchi accordali. È l'epilogo, che si svolge sacralmente nella drammatica prosecuzione del recitativo: la musica trasformata in parola è lamentevole invocazione alternata agli ultimi spasmi ritmici, fugaci singulti accordali; una repentina cadenza in ottava discendente spinge infine alla solenne ed epica coda finale.

Fuochi fatui (Allegretto) è un classico studio d'agilità; l'apparizione dei fuochi fatui, volutamente evanescente, viene da un ondeggiamento realizzato per mezzo di una diteggiatura di concezione assai sottile; lo studio è innervato da un perpetuum mobile brillante. Per i passaggi a doppie note, note d'agilità e di velocità, appoggiature cromatiche e tecnicismi vari si richiedono leggerezza e dolcezza di tocco notevoli. Nell'introduzione una sinuosa, leggera scala cromatica, balenanti arpeggi accompagnati da impertinenti salti al basso, moti retrogradi e retrattili discendenti, immaginarie visioni sfuggenti sono la presentazione dei fuochi fatui. L'indugiare per ondeggiamento cromatico origina un moto delle dita tremulo a doppie note, il tema in si bemolle maggiore, coeso in gran legato; ripreso, su picchettato e acciaccatura al basso, si spegne su giochi di rimbalzo su nota puntata. Il ritorno delle gestualità retrattili e dei balenanti arpeggi segna l'epilogo; di seguito, sulla scansione a doppie ottave del basso, trapassa in sezione di sviluppo comprendente anche ripetuti schemi di progressioni e passi di bravura; senza soluzione di continuità, sempre "di corsa", di nuovo le agili movenze retrattili in levare, reiterate, seguite da scalette mobilissime, volatili, portano alla ripresa del tema del tremolo a doppie note, pure qui duplicato su picchettato-acciaccatura, poi su giochi a nota puntata, ora più estesi ed elaborati, spenti nelle ultime, circolari, rimbalzanti spinte. Come si vede, il discorso procede prodigiosamente per autogemmazione, riproducendosi all'istante da piccole figure, spezzoni di idee, parti di tema, motivi; si sente il dominio della forma, ma senza che si debba sottostare a regole restrittive; si distinguono i tratti e si percepisce l'unità d'insieme perché tutto cambia gradualmente. Nell'epilogo, amplificazione ed estensione del materiale; come in un fantasmagorico gioco a ritroso tornano le figure gestuali retrattili in ff, in p, rallentate, smorzate, in tempo un po' vivace. Poi anche l'ondeggiare per movimento cromatico e la sinuosa scaletta dell'introduzione, che s'interseca con i balenanti arpeggi iniziali: apparizioni sfuggenti che fotografano gli ultimi bagliori dei fuochi fatui.

In Visione (Lento), rintocchi dai pesanti accenti si stagliano nitidi sulla cornice melodica di un volubile arpeggio al basso, ripetuti in due grandi archi; il piano è platealmente rimbombante; la seconda frase tipizzata da una sorta di lenta repercussio su doppia ottava, reiterata, completa il senso dell'esposizione. Nella prima variazione il piano dei rintocchi si eleva al registro superiore e anche la corona melodica associata, molto fiorita, è proiettata in una luce più chiara, in risalto; dopo la loro libera ripetizione in una curva intensa, pronunciata verso l'alto, la seconda frase, ancora doppia, percorre le idee precedenti, ma in una luce trasfigurata, accesa; inoltre l'enunciato si estende "in più" in un climax dalle intense asserzioni, chiuse da penetranti doppie ottave con strepito. Nella seconda variazione il tema alla fine per mutazione si trasforma in calda frase di commiato, anche qui raddoppiata; nella seconda campata la frase è pure doppia e presenta il passo aggiunto, però qui teneramente dolce quale ponte di raccordo. Bastano pochi particolari per cambiare gli esiti di un tema, o di uno spunto di passaggio. Così, a sorpresa, è replicata, con qualche aggiustamento, la seconda campata tematica appena sentita, doppia, e del «passo aggiunto» permutato in funzione di cadenza d'effettistica efficacia. Nell'epilogo per la terza volta si sente il secondo arco tematico (ancora duplicato), con ulteriore effetto d'intensificazione: però ora si frantuma letteralmente in segmenti, scale, arpeggi, salti in ottava spezzata, passi di bravura su doppie note, che coronano degnamente l'immaginìfica «visione».

Eroica (Allegro), di stampo orchestrale, inizia con un'introduzione che utilizza in parte un Impromptu del 1824 su temi di Spontini e Rossini; vi spiccano energici accordi ribattuti alternati a repentine scalette, rimbalzanti interiezioni (anticipo della marcia). Nel Tempo di Marcia un tranquillo, nobile tema in mi bemolle maggiore si muove su di un elemento ritmico caratteristico a nota puntata progrediente all'alto. La prima variazione è ben estesa e squillante, con le mani spazialmente impegnate su un largo registro timbrico sia nel canto che nell'accompagnamento. La seconda variazione, placida, svolta nella parte mediana su di uno spigliato arpeggio, si solleva via via all'alto; è collegata a una terza più estesa e agitata, costellata da avvolgenti arpeggi, sino a una cadenza evitata che apre una burrascosa frase di trapasso basata su elementi dell'introduzione. La quarta funge da perorazione, sviluppata su perentorie doppie ottave per moto retto delle due mani unite, ex abrupto sospese. Infine la quinta variazione ricalca di più il tema originale, indugiando sulla tipica formula motivica a nota puntata, sugli svolazzi in arpeggio, sui profondi salti accordali che la concludono con teatrale affettazione.

In Caccia selvaggia (Presto furioso) un turbolento brontolio sull'arpeggio di do minore attraversato da una bruciante scaletta che piomba al grave, si accavalla con corone di icastici, imbizzarriti accordi ritmicamente irregolari fuori dal metro della battuta, con nervose figure che solcano la tastiera, con progressioni incalzanti: sono il tema di caccia, ove si scorgono immagini di galoppo sfrenato, colpi di frusta, echi di corni, la confusione e il polverone dei cavalli e della muta di cani e animali in cerca della preda. Il pianista deve far emergere tutte le note e porle bene in evidenza: una superba esercitazione digitale che porta a esaltare la potenza fisica della mano e il controllo del suono. Si sente una libera ripresa del tema di caccia con una rimbalzante frase di collegamento basata sugli accordi ribattuti dal ritmo irregolare, qui dolci e arrotondati. Ogni immagine sfuma veloce nell'altra, sino a quando (In tempo) l'inciso degli accordi ribattuti si trasforma in una danzante sezione in mi bemolle maggiore, che pare l'immagine riflessa di una pagina di polacca chopiniana. Il campo è ora aperto per una terza scena, in cui una sognante melodia richiama il profilo di un improvviso, nel carattere dei Phantasiestücke schumanniani: il tema corre sopra il semplice accenno in accordi ribattuti, ben resi dall'indicazione timbrica di un violinistico quasi in pizzicato, e nelle successive riprese tematiche sostituiti dallo snodo mobile di un basso accordale dall'avvolgente circolarltà. Si prepara il finale: dalla libera ripresa del cupo brontolio, reiterato in un mormorio in pp, ascendente e in crescendo con il graduale emergere prima degli incisi, poi delle corone di accordi ribattuti si giunge alla scansione brutale e selvaggia del tema in fff sui soli accordi ribattuti con toni violenti, ruvidi, a tratti collassando al basso sino all'animata frase ponte su penetranti salti d'ottava. Rriprende la melodia sognante sempre più appassionata, marcatissima, quasi sommersa da una cascata di sequenze poliaccordali che sfociano nell'epilogo, agitato da saettanti arpeggi, ribattuti accordali, taglienti incisi d'icastica efficacia.

La Ricordanza (Andantino) è una pagina delicata, che tocca la vena elegiaca, byroniana del compositore; ricca di broderies ornamentali, è vicina alla scrittura chopiniana per il gusto dell'arabesco e del color strumentale; per Busoni «ricalca il fascino di sbiadite lettere d'amore». L'introduzione è un gioco di plastiche movenze melodiche, di perlacei giochi d'abbellimento in cui il piano si diletta nell'improvvisazione imitando il timbro cristallino dell'arpa. Attacca un leggiadro tema delle variazioni dall'aura incantata di un notturno chopiniano; immerso nelle delizie di giochi melodici celestiali, si sviluppa su due frasi dalla scrittura cesellata, con la seconda che elabora il senso della prima in un passo di forte trasporto. La Variazione I dell'introduzione, su costellazioni di piccole note rese quasi pulviscolo sonoro dall'uso di una tecnica formidabile sopra il candido risuonare del canto, intersecato ai funambolismi d'abbellimento; segue la variante della prima frase del tema e una sezione di collegamento su note ricalcate al grave. Il segmento seguente vede la Variazione II dell'introduzione in versione più energica ed elaborativa, enfatizzando i cromatismi dell'originale; poi variazione della prima frase del tema, prolungato in una sezione altisonante e agitata d'epilogo; infine ecco la nuova sezione transitiva di collegamento a note ribattute, in veste nostalgica. Nella Coda emerge l'ultima variante del tema, su basso digradante e ripetuto in sordina, morendo sottovoce con toni di commiato; sino al suo estinguersi in una sorta di carillon, ove, lentamente, risuona l'intervallo quadro.

Lo Studio n. 10, spesso indicato come "Appassionata", in tempo Allegro agitato molto, è pervaso da un fervore febbrile. Privo di titolo, è indicato con tre asterischi, quasi a promemoria di una tormentata vicenda interiore. Sfrutta più piani sonori, valorizzando massa e velocità: con un'ansiosa melodia che faticosamente si fa strada dentro un formidabile reticolo di figurazioni virtuosistiche, secondo il processo paganiniano di evidenziare la frase dentro la più trascendentale complessità tecnica per poi raggiungere una più o meno precisa ragion poetica. Poi, annegato in tremoli accordali, guizzi felini in arpeggio, salti improvvisi e serpentine di linee mozzafiato, si percepisce il profilo appassionato del tema principale, in un fa minore da studio chopiniano, chiuso da tremoli ribelli su frase ponte. Poi il secondo enunciato del tema stesso, di forte personalità: elaborato nella voce ispessita, raddoppiata in ottava della destra sopra le febbrili terzine della sinistra, diviene vibrante ed è ancora chiuso dai tremoli in una frase ponte più estesa. Vi è un accenno di secondo elemento tematico, dal carattere solenne, però interrotto dal giungere di una riedizione rielaborata e percussiva del tema primo, spinto a un climax di burrascosi elementi ritmico-massivi; alla fine si assiste alla spettacolare frantumazione del tema in spezzoni che fungono da robusto raccordo, insieme ai soliti tremoli. Con la nuova ripresa del tema principale, sospeso da corona, subentra a sorpresa e in gran stile il secondo tema, punteggiato in doppia ottava alla destra ed espresso ora in tutta la sua "patetica" completezza d'arco melodico - regalando così un'oasi di quiete dentro tanto clamore - compresa una coda che ne sottolinea il tono accorato, indugiando su intense note ripercosse. Un ponte, basato sull'elaborazione dei tremoli accordali, conduce alla citazione nel basso, quale ricordo, ancora del secondo tema, solcato però da agitate movenze in terzine alla mano destra e infine interrotto da violenti arpeggi estesi alle due mani. È infatti la polarità opposta che deve prevalere. Tanto che nello stretto domina la scena una furibonda versione del primo tema, esposto in semicrome ansanti dalla mano destra e come spezzato dalle taglienti ottave accordali del basso, sino agli asseverativi sussulti armonici delle reiterate cadenze finali.

Con Armonie della sera (Andantino) l'interesse passa dalla tecnica pura al colore, sia per l'itinerario tonale del pezzo, molto modulante, sia per alcune ardite sovrapposizioni accordali che, in parte, toccano la poliaccordalità; tra i più poetici brani della collana, vive di un'atmosfera intensa e misteriosa e tende all'autoabbandono, salvo passare poi, da un sentimento intimo alla trionfante conclusione. Formalmente è "quasi" un tema con variazioni; più nello specifico, tema con "varianti". Una meditativa introduzione su luminescenti risonanze, pedali estesi su cui sfilano serie accordali timbricamente cariche di colori, volteggi d'eleganti arpeggi; segue il tema principale, una figura itinerante accordale punteggiata da nitidi rintocchi all'acuto, enunciata in tenue mormorio. Man mano i rintocchi crescono e il tema, percorso da figure a mani alternate dal profilo calante, si spinge verso l'alto. Il tema passa anche al canto in un poco animato arpeggiato con molto sentimento a viva voce, che lo esalta nel solenne incedere accordale; salvo poi decadere, punteggiato dalle figure ondulate a mani alternate. Una frasetta di ponte è diversivo che apre al "dolcissimo" Poco più mosso, dove il tema si snoda nel caratteristico passo per sequenza d'accordi, qui sostenuto da un florilegio in delizioso arpeggio. Un passo di spirituale meditazione, con breve introduzione in forma di corale, porta al Più lento, con intimo sentimento con un secondo tema confidenziale, avvolto da un accompagnamento quasi arpa. Ma è solo un episodio, tanto che il primo tema è alle porte; torna infatti in veste trionfante (Molto animato), sotto permutanti abiti tonali, con perorazione finale su perentorie serie di quadriadi energicamente enunciate e violenti cromatismi al cui interno emerge, con enfasi gridata, un motivo melodico accorato. Di seguito, quasi «sulla spinta», si approda al Più animato, ove il primo tema campeggia, molto intenso; è così avviato a un climax che pare irresistibile. Ma così non è, perché Liszt ha già preparato il "suo" finale: di colpo si attenua e lascia spazio al ricordo del secondo tema, sostenuto da un incantevole mormorio perpetuo al basso, che prosegue anche quando si trapassa di nuovo al primo tema, inanellante le sue volubili spire con mirabile dolcezza; sino a permutare nel canto armonioso di un arpa.

Lo Studio n. 12, Tormenta di neve (Andante con moto) - o Scaccianeve, o Blìzzard - è una pagina di straordinaria pregnanza; vi è qualcosa in più dello spunto allusivo della neve vaporizzata dal vento in sibilanti e rabbiose folate, dell'immagine livida dell'inverno e del gelo implacabili; vi traspare un sentimento diffuso di mesto abbandono, di struggente tristezza, di nera solitudine. Tecnicamente è anche un'occasione per esplorare le nuove possibilità timbriche dello strumento, realizzata con una ricerca accurata sul fittissimo tremolo a due mani che così bene evoca la funzione visiva (e sembra alludere al bianco turbinar di fiocchi che scendono volteggiando scintillanti dal cielo plumbeo): il brano oscilla nei cromatismi, tocca altezze notevoli, si placa. Le immagini sono orchestrali. Con esiti che hanno influenzato mezzo secolo di letteratura pianistica. Un tema curvo e contorto, dal carattere malinconico - sostenuto da un vitale, febbrile, ma delicato tremolo sottostante ed echeggiato da una sorta di risonanza melodica in eco al basso - pare disegnare lenti passi sulla neve in solitaria passeggiata d'un giorno lugubre d'inverno; man mano il tema prende l'abbrivio, si consolida, tende ad ascendere, si rafforza, mentre l'idea è elaborata, resa complessa, arricchita da nuovi colori tonali, intensificata, conclusa. Ecco la ripresa energica del tema, con i passi in eco ora più appesantiti, mentre il tremolo raddoppia e si ispessisce alle due mani, diviene stringente, travolge ogni cosa in sequenze in progressione, si infrange su pressanti salti. Qui ora Liszt cambia passo, si concentra sul colore e sulla raffinatissima onomatopea, gioca magistralmente su sfumature ed elementi minimi: subentra una frase raccordo, basata sempre sul profilo tematico, ma attenuato, declinante e con un adombrato cromatismo su gruppi irregolari di semibiscrome al grave; mentre il tema si spegne, esso diviene più insistente, passando in primo piano, sorta di rumor sonoro che tutto avvolge nelle sue spire, su mulinanti, tempestosi suoni del registro scuro più infimo del piano: un effetto ben incastonato nel tessuto connettivo del brano; di un vento incontrollato e turbinoso, il blizzard. Divenuto irresistibile, letteralmente scaraventa sulla scena il tema principale che, sospinto fino al grave e appesantito da polimorfi aggregati accordali, viene portato all'effetto strepitoso su accordi spezzati, salti intervallari e sforzati, crescendo in molto appassionato; infine si infrange sull'ultimo, impetuoso soffio sibilante di «scaccia neve», interrotto da corona. Davvero un esempio incantevole di controllo della gestualità musicale. Infine pesanti ammassi armonici ritenuti siglano il momentaneo spezzarsi del vento; il tema dei passi ritorna su partecipati accenti in levare, ma non si sviluppa più e attraverso l'iterazione di suoi segmenti restituisce l'idea di mulinelli di vento in una giornata che volge al tramonto, con le armonie livide, nuovi doppi cromatismi a spazzare il campo mentre pian piano rallenta, si acquieta, esaurisce la spinta: con un arpeggio finale che, come un sipario, scende a celare la scena.

Marino Mora

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Musicista intellettuale quanto e forse più dello stesso Wagner, Liszt è anche quello che più di ogni altro si identifica col suo strumento, il pianoforte, facendo coincidere creazione ed esecuzione, processi mentali e applicazioni manuali. Questa duplicità che è anche presente nella personalità - si pensi alla ben nota componente diabolica della sua natura sommamente esibizionista e, al contempo, agli aneliti religiosi culminanti, nel tardo periodo romano, con la investitura sacerdotale - ha acceso un perenne dibattito sulla sua figura di artista. Assodato che non esista un solo Liszt - quello più conosciuto delle grandi pagine virtuosistiche - ma, contemporaneamente, lo sperimentatore di forme nuove (Sonata in si minore; poemi sinfonici), il divulgatore instancabile delle voci più vive della cultura musicale del suo tempo, e ancora il corifeo del rinnovamento della musica sacra cattolica, nonché l'anticipatore, nelle ultime pagine, di sviluppi e rivoluzioni del linguaggio musicale che saranno alla base del vocabolario novecentesco, resta da chiedersi quanto della sua immensa produzione sia ancora pienamente attuale e godibile oggi e quanto appartenga inesorabilmente alle forme di produzione e consumo musicale del secolo scorso.

È recente ad esempio la rivalutazione delle parafrasi da concerto su temi d'opera (Norma , Puritani, Don Giovanni, Tannhäuser, e molte altre), autentico laboratorio di scrittura pianistica globale e non priva di rischi, che si prefigge l'arduo compito di surrogare, con le più efficaci soluzioni, la complessa macchina di una esecuzione operistica. Senz'altro più problematica, ma a tal punto stimolante da aver tentato un pianista eccentrico e geniale come Glenn Gould, appare la riproposta delle trascrizioni pianistiche delle sinfonie beethoveniane, della Fantastica di Berlioz, delle ouvertures di Weber, operazione con la quale Liszt - per riprendere le parole di Piero Rattalino - «una volta soggiogato il pubblico con le diavolerie, lo educava alla comprensione dei classici e dei contemporanei d'avanguardia, distinguendosi così e collocandosi in una dimensione inattìngibile dai Thalberg».

Rimane la diffidenza della cultura tedesca verso questo musicista che, formatosi a Vienna negli anni della estrema operosità di Beethoven e Schubert, ha vestito i panni del romantico sovvertitore delle forme classiche - salvo poi recuperarle negli anni maturi - abbracciando senza riserve l'idea di una "musica impura", creata e giustificata da esperienze visive e letterarie. Liszt è in questo senso la figura antitetica a Brahms: laddove nel musicista amburghese l'unica salvezza è la continua riflessione sulla tradizione, in un processo graduale ma inesorabile verso il nuovo, in Liszt gli stimoli dell'attualità, del "nuovo" come valore in sé, confluiscono in una visione dell'arte come palingenesi e rigenerazione totale.

Nucleo centrale della produzione pianistica di Liszt, il gruppo di cinquantotto Studi, comprendente le tre versioni degli Studi trascendentali, i Sei Studi di bravura su Capricci di Paganini, i Tre Studi da concerto e i più tardi Waldesrauschen (Mormorio della foresta) e Gnomenreigen (Girotondo di gnomi), permette di ravvisare l'evoluzione della sua prodigiosa tecnica pianistica dall'ambiente Biedermeier tipicamente viennese dei Ries; Czerny, Hummel, attraverso le diaboliche suggestioni paganiniane degli anni Trenta, fino alla morbidezza pre-impressionista degli ultimi Studi risalenti agli anni Sessanta.

La versione definitiva delle Études d'exécution transcendante, dedicata al non dimenticato maestro viennese Carl Czerny e stampata a Lipsia da Breitkopf nel 1852, è il frutto di un lungo lavoro nato almeno venticinque anni prima e concretatosi in due precedenti versioni pubblicate rispettivamente nel 1827 e nel 1837.

Nel 1827 il liszt sedicenne progetta una grande raccolta di quarantotto Studi in tutte le tonalità con finalità didattiche, secondo il modello del Clavicembalo ben temperato di Bach:

ÉTUDES
pour le Piano-Forte
en quarante-huit Exercises
dans tous les Tons Majeurs et Mineurs
composés et dediés
à MADEMOISELLE LIDIE GARELLA
par
Le jeune Liszt

Del monumentale lavoro uscirà il solo primo fascicolo di dodici Studi che saranno alla base, pur con radicali modifi che, delle future versioni. Se infatti i profili melodici delle dodici composizioni appaiono già chiaramente delineati, la scrittura pianistica risente ancora della netta divisione di compiti fra le due mani in senso tradizionale.

Quando nel 1831 liszt ebbe modo di ascoltare per la prima volta Paganini avviene la grande trasformazione della tecnica e della scrittura; il pianoforte, sfruttato in tutte le sue sette ottave, è concepito come un'orchestra dove la molteplicità di piani sonori e la varietà di colori dei registri concorrono ad aumentare a dismisura le capacità illusionistiche della tastiera. Liszt soggioga le platee con i suoi incantesimi così come Paganini con le prodigiose acrobazie del suo archetto creava sonorità inaudite e incarnava la figura del mago incantatore posseduto da forze demoniache.

La seconda versione dei dodici Studi esce nel 1837 quasi contemporaneamente a Parigi, Vienna e Milano (nella edizione Ricordi porta la dedica «a Frédéric Chopin»). «Il Liszt che incontriamo qui - annotava Ferruccio Busoni - è cresciuto rapidamente a un'altezza inaspettata; nel giovane mirabile non si riconosce più lo sveglio ragazzo di un tempo. Apparentemente senza transizione, egli ha superato tutte le possibilità ammesse e supposte del pianoforte e mai più compirà un passo così smisurato».

La versione del 1837 presenta difficoltà spaventevoli, accessibili allora al solo Liszt, e non tiene in nessun conto possibili esecuzioni da parte di altri pianisti al punto che Robert Schumann, così consapevole del fascino ma anche dei pericoli del virtuosismo pianistico, recensiva sulla sua «Neue Zeitschrift fur Musik» nel 1839 gli Studi lisztiani con scarsa benevolenza: «In questi lavori il compositore è rimasto indietro di fronte al virtuoso». Salvo poi, riferendo del trionfale successo viennese, correggere il tiro: «I grandi effetti presuppongono anche sempre grandi cause, e un pubblico non si lascia entusiasmare per nulla».

Agli anni di Weimar (1848-60) appartiene la terza e definitiva versione degli Studi in cui vengono stemperati gli eccessi di virtuosismo - «la tecnica al servizio dell'idea» di cui parla Busoni - e i medesimi effetti vengono ottenuti con una scrittura più limpida e una struttura formale più lineare.

L'esecuzione integrale degli Studi, poco frequente nelle sale da concerto dato l'impegno fuori del comune richiesto all'interprete, permette la comprensione dell'opera come un tutto organico che segue nella successione di tonalità il circolo discendente delle quinte (Do maggiore - La minore, Fa maggiore - Re minore...) e, nelle molteplici interconnessioni, rispetta i canoni retorici di esordio, climax ed epilogo. Come già in Chopin, ma in maniera senz'altro più accentuata, le formule tecniche ripetute costantemente in ogni singolo brano - caratteristica del tradizionale studio pianistico - sono quasi del tutto sostituite da una scrittura multiforme che semmai privilegia in alcuni studi una formula piuttosto che un'altra (le note ribattute del secondo Studio; le ottave in Mazeppa).

Studio n. 1 in do maggiore - Prélude
Un rapinoso esordio dal carattere toccatistico e improvvisativo, con una fulminante progressione cromatica ascendente di sapore schumanniano - si pensi a Carnaval, l'opera più estroversa e brillante di Schumann, che Liszt prediligeva - e un percorso discendente più magniloquente concluso da una solenne cadenza piagale.

Studio n. 2 in la minore
È lo Studio più vicino allo spirito paganiniano: una sorta di tarantella indiavolata in cui il motivo ritmico di note ribattute, anticipatore del graffiante sarcasmo del Mephisto Walzer, fa da contrappunto a un tema nervoso e capriccioso, nel più puro stile del musicista genovese. La tecnica degli accordi alternati alle due mani vi assume tratti quasi parossistici.

Studio n. 3 in fa maggiore - Paysage
Poco Adagio sempre dolcissimo è l'indicazione per questo brano affine al mondo romantico e sognante del primo quaderno delle Années de pèlerinage dedicato alla Svizzera. L'ampia melodia in ottave è accompagnata da un flessuoso ritmo di barcarola che si anima in una sezione centrale dalla densa scrittura armonico-accordale. Un fuggevole riferimento a Schubert, così lontano dal mondo poetico di Liszt, ma anche amato, studiato e divulgato dall'ungherese, appare inevitabile all'ascolto di questa pagina.

Studio n. 4 in re minore - Mazeppa
Uno dei punti culminanti della raccolta, lo Studio in re minore è dedicato alla figura del comandante cosacco, eroe dell'indipendenza ucraina nel XVII secolo, già fonte d'ispirazione per Voltaire, Puskin, Byron (il poema del 1819) e Victor Hugo (Les Orientales). A Victor Hugo, cui si riferisce direttamente lo Studio lisztiano, è dedicata una versione dello Studio composta nel 1840 e pubblicata a Berlino da Schlesinger nel 1847. Accordi arpeggiati di settima diminuita e una vorticosa cadenza di scale preparano la prima apparizione del celebre tema, inframezzata da un lungo e grandioso passaggio in ottave doppie. Lo stesso tema subisce varianti espressive e dinamiche nella sezione più rilassata in si bemolle maggiore e due varianti ritmiche (Animato in 6/8 e Allegro deciso in 2/4) prima della perorazione finale in re maggiore, qui molto più concisa rispetto all'omonimo poema sinfonico.

Studio n. 5 in si bemolle maggiore - Feux follets
Un esempio prodigioso e giustamente celebre di pianismo brillante e ornamentale. Qui il tema principale, leggero e scherzoso, viene esposto dapprima isolato e poi intrecciato a una fitta ornamentazione di note doppie, arpeggi, scale cromatiche. È sorprendente in questo pezzo l'abilità di strumentatore e la sensibilità timbrica raggiunte da Liszt che riesce a mettere in secondo piano anche gli inevitabili aspetti tecnico-virtuosistìci.

Studio n. 6 in sol minore-maggiore - Vision
Questo Studio, che inizia con un solenne corale nel registro grave che progressivamente si espande in imponenti masse sonore in cui prevale la tecnica del tremolo, è tradizionalmente collegato alle esequie di Napoleone. È anche un esempio di come alle volte Liszt faccia prevalere la magniloquenza sonora sui contenuti più strettamente musicali.

Studio n. 7 in mi bemolle maggiore - Eroica
Anche con questo Studio non siamo certo al culmine dell'arte lisztiana. «Più tracotante che eroico», secondo le parole di Busoni, è l'unico che appaia a tutti gli esegeti più efficace nella seconda versione che in questa definitiva. L'inizio, memore di celebri esempi beethoveniani (op. 111) conduce al Tempo di Marcia in cui il tema risulta singolarmente spoglio, per poi arricchirsi progressivamente secondo la collaudata tecnica di accumulazione tipica di Liszt.

Studio n. 8 in do minore - Wilde Jagd (Caccia selvaggia)
Una grande parafrasi sul caratteristico ritmo puntato schumanniano potrebbe essere definito questo magnifico Studio in do minore che porta l'indicazione Presto furioso. Anche qui il tema subisce varie trasformazioni - una gioiosa fanfara di caccia e, subito dopo, un'ansimante melodia tipicamente romantica - per confluire poi nella vorticosa stretta conclusiva.

Studio n. 9 in la bemolle maggiore - Ricordanze
Ampia pagina di carattere melodico e ornamentale, affine alla tipologia di scrittura e al mondo espressivo dei Notturni chopiniam. Busoni lo associa a «un fascio di lettere d'amore ingiallite».

Studio n. 10 in fa minore - (Appassionata)
Allegro agitato molto questo Studio senza titolo ha un impianto formale di primo tempo di Sonata con due temi contrastanti, uno sviluppo e una coda.

Studio n. 11 in re bemolle maggiore - Harmonies du soir
Anche qui, come in altri Studi, dopo un esordio meditativo e sospeso si afferma il tema principale che subisce trasformazioni non tanto strutturali, quanto di strumentazione pianistica. Un secondo tema più intimo con accompagnamento «quasi arpa» prepara il climax, la cui scrittura, come ha notato Piero Rattalino, deriva dell'Improvviso op. 90 n. 4 di Schubert, amplificata e irrobustita per la grande sala da concerto.

Studio n. 12 in si bemolle minore - Chasse neige
Un continuo riverberare di biscrome - «un'incessante sublime nevicata che seppellisce gradatamente paesaggio e persone» (Busoni) - è attraversato dal brivido di rapidissime scale cromatiche che via via assumono dimensioni gigantesche e quasi apocalittiche.

Giulio D'Amore


(1) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 188 della rivista Amadeus
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 13 ottobre 1995


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Ultimo aggiornamento 27 luglio 2013