Sonata in si minore per pianoforte, S 178


Musica: Franz Liszt (1811 - 1886)
  1. Lento assai (si minore)
  2. Allegro energico
  3. Agitato
  4. Grandioso, dolce con grazia
  5. Cantando espressivo
  6. Andante sostenuto (fa diesis maggiore)
Organico: pianoforte
Composizione: 1852 - Weimar, 2 febbraio 1853
Prima esecuzione: Berlino, 22 gennaio 1857
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia, 1854
Dedica: Robert Schumann
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La Sonata in si minore, unica composizione di Liszt a riferirsi ad una forma classica, fu terminata il 2 febbraio 1853 e dedicata a Robert Schumann. Era il tempo del soggiorno di Liszt a Weimar, dove, sollecitato dalla principessa Caroline Sayn-Wittgenstein, si dedicò alla composizione di poemi sinfonici per orchestra. Autore soprattutto di musica a programma, Liszt, in questa Sonata, mostra un altro lato della sua personalità: quello del ricercatore insaziabile di nuovi spazi armonici e formali. Difatti Liszt intende qui il principio classico di sonata come una sollecitazione ad una costruzione unitaria derivata da alcune cellule fondamentali. Ad esempio il tema lirico sentimentale (affine allo spirito di un Liebestraum) è costruito sugli stessi intervalli del sarcastico inciso ribattuto che schiude l'Allegro energico di apertura. Nel 1853 si trattava di procedimenti inediti, rispondenti al lato sperimentale della poetica lisztiana. Tale aspetto resta però sostanzialmente un'apparenza, la Sonata essendo invero costruita su alcuni archetipi del Liszt visionario, una concezione della musica che aderiva al virtuoso come la propria pelle. Così il Lento assai, alfa ed omega dell'opera, ha il carattere retorico dell'interrogazione e della perplessità, processi del pensiero non provati da un comune mortale, ma nella tipica retorica da palcoscenico del sommo virtuoso. Esempio massimo in tal senso la perorazione eroica, "Grandioso", che emerge quale prima affermazione positiva dall'universo dei dubbi, un apice di spettacolarità della musica pianistica, dove strumento e virtuoso si identificano nella più convincente delle pose.

La Sonata, omaggio formalista, consegue allora esiti opposti: la magnificenza estroversa dell'improvvisazione in cui l'artista eccelse, e la stupenda scoperta del pianoforte orchestrale, una invenzione di puro stampo lisztiano. I due grandi crescendi, che sboccano nei passaggi di ottave della Sonata, sono tra i massimi esiti di tale scrittura da parte di un artista che sosteneva di poter trarre dal proprio strumento più che da una intera orchestra.

Le caratteristiche anzidette richiedono una esecuzione personalizzata e partecipe, la ricerca formale non essendo più che un involucro, in cui si racchiude un distillato del peculiare romanticismo dell'auore. Liszt predilesse la Sonata e la eseguì sovente in concerto, il più delle volte deludendo il proprio pubblico, quello che lo voleva soprattutto saltimbanco, tanto che Liszt non la inserì più nei programmi della sua tarda carriera. Altri critici hanno sottolineato la ripetitività dei passaggi, argomento caro ai veri formalisti, i quali narrano che Brahms si fosse addormentato durante un'esecuzione concertistica della Sonata. Tramontato oggi il favore riservato al Galop chromatique, al Liebestraum, o alla Seconda e Sesta Rapsodia Ungherese, la Sonata è diventata un pezzo d'obbligo dei grandi interpreti del romanticismo musicale, da Wilhelm Kempff a Emil Gilels.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Liszt è stato ritenuto, a giusta ragione, il pianista per eccellenza, colui che continuò e sviluppò la via già indicata da Clementi, Beethoven e Weber e nello stesso tempo gettò le fondamenta del pianismo moderno, come riconobbe Ferruccio Busoni. Mentre Paganini, che fu quello strabiliante virtuoso dell'archetto che tutti conosciamo, ebbe seguaci, ma non successori e si può dire che rimase un fenomeno a sé, Liszt con il suo tecnicismo ferratissimo e il suo titanismo scalpitante e focoso fece scuola e la sua lezione si estese e si protrasse oltre la sua epoca, tanto è vero che ancora oggi si può parlare di stile lisztiano, se si rispettano certe caratteristiche di impostazione e di sviluppo del gioco pianistico che furono proprie del musicista ungherese.

Certo, il pianismo di Liszt fu unico nel suo genere e riempì di sé tutto il periodo romantico, distinguendosi nettamente dal pianismo di Chopin, che pure ebbe una importanza fondamentale nell'ambito dell'arte romantica. Chopin usò il pianoforte in funzione di un intimismo espressivo che rifuggiva da qualsiasi perorazione oratoriale e retorica; il pianoforte venne inteso da lui come strumento delle confessioni dell'animo e non come mezzo di esibizionismo e di autoesaltazione dell'Io, categoria creatrice e dominatrice del pensiero romantico. Per Liszt il pianoforte fu, sì, la tastiera dei sogni, delle contemplazioni e delle evasioni dalla realtà, ma anche lo strumento in cui egli seppe riversare tutta la piena dei sentimenti, con una ricerca di effetti timbrici e coloristici senza precedenti e con una invenzione di trovate, come ad esempio i passi di estrema agilità nella zona acuta dei tasti, che non sempre erano sfoghi esteriori di un temperamento scapigliato ed esuberante.

Naturalmente il virtuosismo trascendentale del pianismo lisztiano non poteva non suscitare, con il mutare dei gusti e delle mode, un sentimento di freddezza e di più distaccata adesione presso l'enorme schiera degli ascoltatori; ma non si possono ignorare i vantaggi che a suo tempo quella tendenza provocò nella musica strumentale moderna, come la maestria tecnica ingigantita attraverso l'assoluto dominio di tutte le possibilità meccaniche, dinamiche ed espressive dello strumento. Del resto le tre raccolte delle «Années de pélerinage, première années (Suisse), deuxième année (Italie) e troisième année» (in quest'ultima sono incluse le fosforescenti e liquescenti sonorità de Les jeux d'eau a la Ville d'Este), le Vingtquatre Grandes Études, le Études d'exécution transcendante d'après Paganini (il terzo dei sei pezzi è l'arcinota trascrizione de La campanella dal rondò finale del Secondo Concerto in si minore per violino e orchestra di Paganini: una melodia fresca e zampillante, immersa in un vorticoso turbinìo di trilli, di scale, di tremoli e di arpeggi che evocano una atmosfera di seducente felicità sonora), le diciannove Hungarian Rhapsodies costituiscono dei punt fermi nella storia pianistica e nessuno può negare i valori musicali sparsi a piene mani in queste pagine, pur tra alcune uscite tecnicistiche di un funambolismo circense.

Non per nulla è stato affermato da Busoni che, se Bach è l'alfa della composizione pianistica, Liszt ne è l'omega, in quanto riassume dal punto di vista della struttura tutte le esperienze precedenti maturate sotto la sigla del classicismo e preannuncia quelle libertà formali che troveranno ampio sfogo e attuazione nella musica sul finire dell'Ottocento e nel secolo ventesimo. In questo senso è particolarmente indicativa la Sonata in si minore scritta tra il 1852 e il 1853 e costruita non secondo i principi della simmetria classica (esposizione, sviluppo, ripresa) ubbidienti all'impasto tematico così caro alla fantasia beethoveniana, ma articolata in base ad una estrema mobilità e variabilità di situazioni psicologiche sempre nuove e diverse. Con questo non si vuole affermare che il linguaggio musicale lisztiano sia idealisticamente intellettualistico e avulso dai contenuti descrittivi; anzi c'è in esso costantemente un richiamo alla «musica a programma», con riferimenti e agganci diretti a testi letterari universalmente conosciuti e di forte presa emotiva sul pubblico. Del resto il musicologo Claude Rostand, proprio parlando della Sonata in si minore, ha sottolineato che «è l'opera di un uomo che ha frequentato intimamente il Faust e la Divina Commedia», aggiungendo che tale pagina «nasce sulla scia dei poemi sinfonici, con i quali ha in comune la libertà strutturale, l'ampiezza, la grandiosità orchestrale e di cui riprende quell'essenziale preoccupazione che sarà sempre costante in Liszt non adagiarsi su uno schema predeterminato, ma cercare invece ogni volta la forma specifica, congeniale a ciascun pensiero musicale».

La Sonata (è dedicata a Robert Schumann) si articola in un unico movimento della durata di una trentina di minuti e prende l'avvìo da un tempo lento di sette battute, di carattere meditativo, che costituisce una specie di sigla per l'intera composizione (riapparirà, come richiamo psicologico, nella parte centrale e alla fine). Irrompe poi l'Allegro energico e volitivo, tra continui contrasti ritmici, in cui si alternano momenti lirici ad episodi di vitalismo virtuosistico. In tal modo la Sonata è immersa in un clima di insoddisfatta tensione, senza approdare ad una risoluzione spirituale, gettando le basi di un certo pianismo moderno alla Skrjabin e alla Prokof'ev dopo aver influenzato il gusto armonico dello stesso Wagner.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Scritta a Weimar nel 1852-53, la Sonata in si minore fu dedicata da Liszt a Schumann, il quale a sua volta nel 1839 gli aveva dedicato la Fantasia op. 17. Nella composizione, non diversamente da quanto avviene nei concerti per pianoforte, il ripensamento del genere classico e dei suoi presupposti appare segnato da uno spirito di radicale sperimentazione. L'ambiziosa volontà di superare gli schemi precostituiti della tradizione si concretizza in una composizione che si presenta come un unico, grande arco musicale internamente articolato dove le prerogative di coesione e organicità si fondono con quelle di un'invenzione visionaria e affabulatoria. Gli aspetti più evidenti di questo ripensamento sono individuabili anzitutto nella definizione di una complessità formale pluridimensionale o polivalente, volutamente ambigua e sfuggente, e nel principio della trasformazione caratteriale dei temi, differente dalla logica dello sviluppo motivico, consistente nell'elaborazione di piccole cellule e correlata alle funzioni della macrostruttura, propria dello stile classico (logica pur presente anch'essa nella sonata). A questo proposito Liszt, che già aveva sperimentato una soluzione costruttiva polivalente nella Fantasia quasi Sonata «Après une lecture de Dante» (1837; versione definitiva 1849), trovava un precedente importante nella «Wandererfantasie» di Schubert, che non a caso trascrisse per pianoforte e orchestra nel 1851. E un ulteriore riferimento per una forma che conciliasse il movimento di sonata e il ciclo sonatistico era dato dal finale della Nona Sinfonia di Beethoven. Dal punto di vista formale, la sonata si configura dunque come una struttura pluridimensionale o polivalente, che cioè può essere interpretata contemporaneamente secondo varie prospettive. In essa coesistono gli archetipi del movimento di sonata (Introduzione - Esposizione - Sviluppo - Ripresa - Coda), della sonata in quattro movimenti con un tempo lento e uno Scherzo e infine, dal punto di vista esclusivamente tematico, uno schema bipartito (Esposizione - Ricapitolazione a partire dallo «Scherzo» fugato). Per di più, sebbene priva di qualsiasi programma extramusicale, la sonata per la sua singolarità formale invita a essere letta in chiave narrativa o perlomeno evocativa e immaginifica: i temi che ne costituiscono l'ossatura sono trattati infatti come autentici personaggi (o diversi atteggiamenti di uno stesso personaggio) che nel corso della composizione, oltre a essere contrapposti e accostati, si trasformano, indipendentemente o anche l'uno nell'altro. Nello specifico, si è spesso voluto vedere nel mito di Faust il programma segreto sotteso alla sonata anche se, in mancanza di riscontri documentari, appare molto problematico interpretarne in tal senso ogni singolo episodio. Certo per via allusiva e simbolica la sonata narra una storia. Dietro e dentro la pura struttura musicale è individuabile la rappresentazione di una lotta, di conflitti, di metamorfosi di personalità comunque riconoscibili tra accenti di slancio eroico, furore demoniaco, cupa desolazione, esaltazione mistica venata di erotismo e raccoglimento religioso: in qualche modo la sonata è una metafora di un'esperienza esistenziale nutrita di forte tensione ideale. Forse la stessa dedica a Schumann, teorizzatore di una «musica poetica», può aiutare a comprendere lo spirito della composizione. D'altronde fu proprio degli autori della generazione romantica sottintendere un programma o un'«idea poetica» senza che fosse necessario esplicitarne i dettagli; anzi l'esibizione dichiarata del programma sarebbe stata esteticamente sconveniente e dannosa, in quanto avrebbe reso prosastico e didascalico ciò che doveva restare insinuante, suggerito e allusivo. Il fatto che Liszt abbia per contro scritto decine di vere composizioni, sinfoniche e pianistiche, a programma non rappresenterebbe comunque un ostacolo a questo eventuale accostamento od omaggio all'estetica di Schumann. Quando la sonata viene pubblicata nel 1854 Schumann è già ricoverato nell'ospedale di Endenich e né Brahms né Clara Wieck apprezzeranno la composizione che Liszt suona davanti a loro a Weimar. Elogi verranno invece, naturalmente, da Wagner; in ogni caso soltanto nel 1857 la sonata conosce la prima esecuzione pubblica, a Berlino, per merito di Hans von Bülow.

Dei sei temi della sonata, i primi tre (temi 1-3) si identificano con il materiale motivico fondamentale da cui sono derivati gli altri tre (temi 4-6); il tema 1 ha funzione di cornice e inoltre interviene a segnare punti nodali nell'articolazione della forma. L'introduzione, in tempo Lento assai, genera un'atmosfera misteriosa e di attesa sinistra, al limite del silenzio. Il tema 1 si svolge in un contesto armonico imprecisato: sordi rintocchi di ottava incorniciano due scale minori discendenti, la prima frigia, la seconda zigana. Dopo una pausa, l'attacco dell'Allegro energico coincide con il primo gruppo di temi dell'esposizione e l'affermazione, sia pure interlocutoria, della tonalità d'impianto, si minore. Irrompono in scena il tema 2, ricco di slancio, eroico e faustiano, poi il tema 3 nel registro grave, minaccioso e mefistofelico, quasi ghignante. Subito dopo si scatena un conflitto tumultuoso e concitato tra i temi 2 e 3 sino a un virtuosistico passaggio in ottave; la ricomparsa del tema 1 funge quindi da transizione. Il secondo gruppo, in re maggiore, è aperto dal tema 4, definito Grandioso, che deriva dal tema 1 alcuni motivi melodici e ritmici: è una sorta di corale che esprime esaltazione religiosa e si estingue in modo interlocutorio su una sospensione con corona. Ha allora inizio il vero e proprio processo di trasformazione ed elaborazione dei temi. Dapprima è il tema 2 ad assumere carattere sognante, quindi la riapparizione di motivi del tema 3 suggerisce che anch'esso sta per essere trasformato. In effetti il tema 5 deriva direttamente dal tema 3, di cui rappresenta una variante lirica a mo' di notturno. La duplice enunciazione del tema di conclude in una breve cadenza con lunghe note trillate e due reminiscenze della testa del tema 2. Segue un improvviso cambio di atmosfera: in quella che può essere considerata una prima sezione di Sviluppo vengono elaborati il tema 2 con connotazione eroica e quindi brillante, il tema 5 e quindi anche le scale discendenti del tema 1. Lo stacco accordale del tema 4 si alterna ora, drammaticamente, a brevi sezioni di Recitativo, liberamente desunte per moto retrogrado dal tema 3; conclude l'episodio una nuova elaborazione condotta combinando le teste dei temi 3 e 2, che termina con un effetto di progressiva dissolvenza sonora.

Un accordo tenuto assicura la continuità con l'Andante sostenuto che apre la parte mediana della sonata e ne costituisce al contempo il «movimento lento». I conflitti si placano, l'atmosfera si fa tersa: il tema 6, in fa diesis maggiore, è un'intima preghiera che parafrasa alcuni elementi melodici dei temi 4 e 5. In tempo Quasi Adagio segue una seconda sezione di Sviluppo; nella tonalità di fa diesis maggiore ritorna il tema 5, quindi ricompare il tema 4, ora drammaticamente combinato con elementi del tema 2. L'elaborazione delinea poi un'enfatica ripetizione del tema 6, che rappresenta il climax espressivo del movimento, e un'ulteriore apparizione della testa del tema 5. Un nuovo processo di progressiva dissolvenza sonora viene coronato dalla ricomparsa del tema 1, che segna la transizione al movimento successivo.

L'Allegro energico prende avvio con un fugato che funziona da falsa ripresa, terza sezione di sviluppo e contemporaneamente da «Scherzo». La tonalità è quella di si bemolle minore, un semitono sotto il si minore d'impianto in cui dovrebbe avere inizio la Ripresa. L'impressione di una falsa ripresa è data dalla ricomparsa dei temi 2 e 3 (cioè del primo gruppo tematico dell'Esposizione), che, contrapposti e combinati, generano appunto un fugato a tre parti, sardonico e sulfureo: in realtà l'episodio è una terza sezione di Sviluppo con carattere di Scherzo. Una breve riconduzione introduce la vera ripresa nel tono d'impianto, si minore. Questa coincide con il conflitto tra i temi 2 e 3. Una riapparizione variata del tema 1 in tempo Più mosso porta quindi alla libera ricapitolazione della prima sezione di Sviluppo. Da questo punto in avanti sono riproposte e per così dire risolte nel tono di si maggiore le idee tematiche che in precedenza erano state enunciate in tonalità diversa da quella d'impianto. Tocca dapprima ai temi 4 e 5, cui segue una Stretta quasi Presto. La stretta implica una progressiva accelerazione agogica e il raggiungimento del trionfante climax virtuosistico con ottave e accordi pieni, ricorrendo nell'ordine a motivi dei temi 5,1 (Presto), 2 (Prestissimo) e 4. Una pausa separa il climax dalla ripresa del tema 6, in tempo Andante sostenuto, che termina con una sospensione destinata a non trovare immediata risoluzione armonica. La concatenazione con la coda avviene infatti per mezzo di una cadenza evitata che protrae il senso di tensione del discorso musicale. La coda delinea un effetto di progressiva dissolvenza. Inizia in tempo Allegro moderato: riappaiono le teste dei temi 3, a mo' di pedale nel registro grave, e 2, a definire un clima di cupo e soffocato dolore. Quindi, a chiudere il cerchio formale ed espressivo della sonata, interviene il tema 1, Lento assai come nell'introduzione, nel registro più grave dello strumento. Dopo cinque, luminosi accordi nel registro medio-acuto che evocano una sorta di catarsi o trasfigurazione celestiale conclude un breve, isolato e lugubre si grave, una delle note più gravi della tastiera, quasi simbolo di morte. Nella versione originaria Liszt aveva concepito per la chiusa della sonata un epilogo trionfale che sarebbe risultato molto più banale. Il ripensamento comportò invece questo finale di straordinaria efficacia e intensità emotiva, per cui la sonata si conclude così com'era incominciata, in una zona d'ombra al limite del silenzio.

Cesare Fertonani

Guida all'ascolto 4 (nota 4)

I dieci anni che scorsero fra il 1848 e il '58 furono per Franz Liszt probabilmente i più fruttuosi di tutta la sua vita di artista e di intellettuale. Il virtuoso viaggiante, il girovago acclamatissimo, il divo del concertismo si erano trasformati nell'accorto e indefesso dittatore della vita musicale di un piccolo stato che in questo torno di tempo diviene il più vivo e stimolante centro di cultura musicale d'Europa: a Franz Liszt, Weimar offrì la possibilità di essere apostolo più che profeta; uomo d'arte e di cultura piuttosto che seduttore di folle. Il mito del pianista più grande di tutti i tempi cedeva alla venerazione per l'uomo che difendeva Berlioz e Wagner, che faceva riscoprire Beethoven, che si dedicava anche alla riflessione estetica e critica, che dopo ma forse più di Wagner indicava modi e leggi di quella che nei decenni successivi si sarebbe classificata come la più importante fra le attività pratiche della musica, la direzione d'orchestra.

La calma succeduta al lungo, vertiginoso percorrere le vie d'Europa si traduceva in un'operosità più che mai feconda. Anche dal punto di vista creativo, che proprio al decennio trascorso a Weimar come direttore dell'orchestra di corte risalgono molte delle opere più impegnative di Liszt. Caratterizzando questa fase come quella della piena maturità di un artista che era stato precocissimo anche come creatore, e che adesso convogliava un'ispirazione più che mai debordante in vedute formali di respiro più ampio, o meglio di più grandiose aspirazioni costruttive. È il tempo dei dodici poemi sinfonici, delle grandi Sinfonie Dante e Faust, della Messa di Gran. Per il pianoforte, è il tempo dell'ulteriore riflessione tecnica, con la revisione degli Studi trascendentali e degli Studi da Paganini; ma soprattutto è il tempo della maggiore impresa formale, forse del capolavoro massimo del pianismo ottocentesco: la Sonata in si minore.

Il Liszt degli anni precedenti alla sosta weimariana era stato, quasi esclusivamente, compositore per il pianoforte. A ventisei anni nel 1837, aveva confessato sulla «Gazette musicale» la sua autarchia assoluta di compositore-pianista, in uno scritto che è tutta una poetica. «Il pianoforte è per me ciò che la nave è per il marinaio e il cavallo per l'arabo; più ancora: la mia lingua, la mia vita, il mio io. Le sue corde vibrano della mia passione e la sua tastiera partecipa intimamente ai miei diversi stati d'animo. Per me l'importanza del pianoforte è enorme, e sento che mi tiene avvinto con catene che non potrò mai spezzare. A mio avviso il pianoforte occupa il posto più alto nella vasta famiglia degli strumenti musicali. È fra questi il più complesso e anche il solo che progredisca continuamente e che si perfezioni ogni giorno. La sua estensione abbraccia oltre sette ottave, vale a dire supera quella della più grande fra le orchestre, e tuttavia questa materia sonora enorme può essere manovrata dalle dieci dita di un uomo solo, mentre l'orchestra richiede il lavoro di cento esecutori. Noi possiamo suonare gli accordi come un'arpa, cantare come strumenti a fiato, staccare, legare, eseguire sullo stesso pianoforte migliaia e migliaia di passi diversissimi che prima non erano possibili che su molti differenti strumenti. Il pianoforte ha la possibilità, più che qualsiasi altro strumento, di partecipare della vita dell'uomo e nondimeno vive di una vita sua, e ha sviluppo personale e suo proprio. Microcosmo, microdeus».

All'insegna di questa entusiastica autoidentificazione con lo strumento, la genialissima avventura compositiva del primo Liszt si era svolta lungo le linee di una vulcanica fantasia creatrice, attraverso le grandi esperienze tecniche dei cicli di studi come nello sgranarsi dei diari intimi nelle collane di pezzi più o meno lunghi, che configurano quasi tutta l'opera dei primi anni - come non piccola parte di quella successiva - come un unico Album d'un voyageur, raccogliendo la testimonianza di lunghi e movimentatissimi Wanderjahre, Années de pèlerinage... Poi, con l'aura goethiana di Weimar, il confronto con l'orchestra aveva assorbito una buona fetta del violento, arditissimo sperimentalismo del pianoforte di Liszt. Il quale adesso poteva essere il terreno ideale per il grande cimento formale, il primo consapevole attacco (quasi l'unico, sarebbe rimasto, a ogni buon conto), con la forma ereditata dai classici e sottoposta dall'ultimo Beethoven in poi a vicende perigliose e non poco devianti, la Sonata.

Alla quale, in certo qual modo, un beethoveniano fervente e intelligentissimo come Liszt (fu lui a far conoscere a un Ottocento ubriacato di spiegazioni programmatico-psicologiche di bassa lega, affamato di titoli più o meno apocrifi, capace di abbeverarsi soltanto a fraintese Appassionate e Patetiche, la speculazione metafisica della Hammerklavier) non aveva mancato di pensare da tempo. Per esempio con quella «Fantasia quasi sonata» intitolata a Après une lecture de Dante e composta nel 1838-39 per la seconda Année de pèlèrinage. Dove il titolo delle Sonate beethoveniane dell'op. 27 n. 2, Sonata quasi una fantasia, veniva esattamente ribaltato: per Beethoven la grande esperienza era stata l'uscita dai sentieri sicuri della Sonata haydniano-mozartiana. Per Liszt, adesso, mentre le tempeste estetiche e formali dell'era romantica, con la metà del secolo, tendevano a sfumare in nuove prospettive, altrettanto ardito e necessario era il rientrare, in quei sentieri; o perlomeno provarci.

Donde il suo gettarsi - in quest'opera che non senza significato è dedicata a Robert Schumann, quasi a indicare un simbolico passaggio del testimone fra musicisti di una medesima generazione anagrafica, ma destinati a impersonare due epoche storiche simmetriche se non opposte - nel progetto di una composizione grandiosa, a un tempo libera e coerente come già la Fantasia Wanderer di Schubert, e soprattutto la Fantasia op. 17 dello stesso Schumann (che proprio a Liszt, guarda caso, l'aveva dedicata dandola alle stampe nel '39). Dove le sperimentazioni folli sul timbro e la meccanica dello strumento paiono, in qualche misura, cedere il passo all'impegno formale, nel senso che a differenza di tante altre pagine lisztiane qui, anziché esplorare nuovi mondi del linguaggio pianistico - e, per il tramite di questi, del linguaggio musicale in genere -, ci si muove sul terreno ben più arduo delle relazioni strutturali, con un'attenzione all'architettura che sa compiere il miracolo di non tagliare le ali alla fantasia melodica, ritmica e armonica ma anzi ne potenzia le virtualità al massimo grado. Fra l'altro con un'esibizione di scienza del comporre - non solo per il tour de force accademico di un fugato del resto liberissimamente condotto - che, ove ce ne fosse bisogno, attesta Liszt non soltanto come il grande rivoluzionario in cui Bartók avrebbe più tardi indicato uno dei padri del Novecento, ma anche come una delle più vigili e robuste menti di compositore operanti in un tempo che in fatto di faciloneria ne vedeva davvero di tutti i colori.

Su un più immediato piano di lettura l'opera si presenta come un unico grande tempo di Sonata. Sia dal punto di vista dell'articolazione che da quello dell'itinerario tonale, le regole della forma classica appaiono rispettate assai da vicino; in modo, anzi, sorprendente per l'epoca e per il temperamento dell'autore. Un breve episodio introduttivo, quindi l'esposizione del primo tema, ritmico, instabile, quasi beffardo; a buona distanza, quella del secondo, buono e cantabile, impiantato secondo norma in re maggiore, relativo del tono principale. Lunga sezione centrale - gli «sviluppi», quindi ripresa dei due temi, il secondo, sempre secondo regola, stavolta in si maggiore. Tutto normale, quindi. Salvo il particolare apparentemente accessorio delle dimensioni: settecentosessanta battute, pari mediamente a venticinque minuti ininterrotti di musica; ossia un'estensione come minimo insolita per un tempo di Sonata. Questa ipertrofia non si limita a caratterizzare la Sonata in si minore come opera maestosa e di poderosa struttura, ma la rende interessantissima dal punto di vista formale. In particolare, l'elefantiasi formale rende possibile un'articolazione ampia della sezione degli «sviluppi», che appare scandita in un episodio in carattere di recitativo, uno in tempo Andante sostenuto, quindi un Quasi adagio e, in tempo Allegro energico, un fugato.

Allora, dimenticando la struttura tradizionale della forma-Sonata, lo schema del lavoro risulta leggibile addirittura come il susseguirsi, senza soluzione di continuità, dei quattro movimenti di una Sonata classica, liberamente trattati al loro interno, ma tuttavia serbanti le funzioni architettoniche proprie al primo tempo (che verrebbe cosi impersonato dalla sezione che nella prima ipotesi, quella di un solo tempo, è dedicata all'esposizione), a quello lento (l'Andante-Adagio che costituisce la prima parte dello sviluppo), allo Scherzo (il fugato che precede la ripresa) e al Finale (la ripresentazione dei due temi e la Coda). Renato Di Benedetto, cui dobbiamo questa lettura attenta e acuta della Sonata, arriva addirittura oltre, proponendo un terzo piano di articolazione formale, che vedrebbe l'opera suddividersi in due grandi episodi, coincidenti il primo con l'esposizione e l'Andante-Adagio, l'altra con il fugato la ripresa e la Coda. Con l'avvio del fugato, il ritorno al tempo veloce dopo il progressivo allargamento dell'Andante-Adagio e il ripresentarsi in forma nettamente riconoscibile del primo tema disegnano, prima che si abbia la ripresa vera e propria secondo le regole della forma-Sonata, l'inizio di una vasta ricapitolazione simmetrica a una prima parte altrettanto ampia. Il concetto di sviluppo verrebbe quindi sottratto all'incasellamento nella tradizionale sezione di mezzo, ed esteso in pari misura all'uno e all'altro dei due grandi momenti superstiti della forma, l'«esposizione» e la «ripresa».

Si tratta di proposte di lettura: resta valida e «ufficiale» quella che più semplicemente vede nella Sonata in si minore un unico gigantesco movimento in forma bitematica tripartita, arricchito di svolte agogiche (con l'inserzione dell'Andante-Adagio) e di episodi autonomi (il fugato), un po' per renderne più nutrita la vasta architettura, un po' per adesione all'irrequietudine formale che era il segno del tempo, in quell'Ottocento di mezzo. Le altre due forse sono soltanto scommesse analitiche, ma di quelle che per il solo fatto di essere possibili, attestano la grandezza dell'opera cui si riferiscono. Che comunque oltre alla multiforme logica della sua stesura formale offre all'ascoltatore il fascino irresistibile di un ribollire di idee tematiche, tutte germinate da due blocchi motivici principali, ed elaborate nel ritmo, nell'armonia, nel colore strumentale fino a determinare la fisionomia di una pagina fra le più turgide e grandiose di tutto l'Ottocento. E che proprio con l'ardimento nascosto del suo tessuto armonico e del suo profilo ritmico segna, in pieno accordo con la sua data di nascita, il passaggio dalla prima all'altra metà del secolo: sublimando l'epoca di Schumann e di Chopin all'atto stesso che ne sancisce il superamento, aprendosi su Wagner. Ma anche su molti altri, compreso forse il gran nemico di entrambi, giusto allora movente i primi passi proprio sul pianoforte: Johannes Brahms.

Daniele Spini


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, 11 novembre 1987
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Sala Accademica di via dei Greci, 18 dicembre 1981
(3) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 105 della rivista Amadeus
(4) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 20 giugno 1983


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Ultimo aggiornamento 5 maggio 2016