Malédiction, per pianoforte e orchestra d'archi, S 121


Musica: Franz Liszt (1811 - 1886)
Organico: pianoforte solista, archi
Composizione: 1833
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia, 1915
Guida all'ascolto (nota 1)

C'è un giudizio molto indicativo e illuminante su Liszt scritto da Bartók nella sua autobiografia che dice così: «Lo studio rinnovato di Liszt, soprattutto delle sue opere meno popolari, come le Années de pélerinage, le Harmonies poétìques et religieuses, la Faust-Symphonie la Danse macabre e altre ancora, mi condussero, a dispetto di certe apparenze esteriori che non amavo, in fondo alle cose e compresi infine l'autentico messaggio di questo artista. Per l'evoluzione futura della musica il peso delle sue opere mi parve molto più considerevole di quello, per esempio, delle opere di Wagner e di Richard Strauss». Lasciando da parte il tono polemico e la considerazione riduttiva nei confronti di questi due ultimi compositori, resta il fatto che anche un artista di moderna e tormentata sensibilità come Bartók si sia dichiarato in favore di Liszt, che con il suo stile inconfondibile e personalissimo ha lasciato un segno profondo nella storia musicale dell'epoca romantica sia sotto il profilo creativo che interpretativo. Infatti nessuno prima di Liszt, ha saputo potenziare, dilatare ed esaltare in un titanismo di verticale difficoltà l'esecuzione pianistica, riuscendo ad arricchire la gamma espressiva di questo strumento delle più spericolate e sorprendenti trovate: basti pensare alle poderose scale cromatiche di ottave, ai pirotecnici glissando, ai salti a grandi intervalli, alle sovrapposizioni e agli incroci di mano, ai possenti arpeggi e agli inesauribili trilli, senza contare tutti gli altri effetti timbrici e ritmici che ha saputo realizzare sulla tastiera. Esecutore trascendentale e di straordinaria fantasia inventiva, egli ha riempito del proprio nome le cronache concertistiche del suo tempo e si è adoperato con molta generosità per far conoscere ad un pubblico sempre più vasto, che lo acclamava senza risparmio in ogni angolo d'Europa, le musiche di compositori come Berlioz, Schumann, Chopin e Wagner, che a volte stentavano ad entrare nel giro vitale del concertismo o della scena teatrale. In particolare non va dimenticata tutta la entusiasmante battaglia che un tale personaggio, così cosmopolita e per molti versi anticipatore, sostenne non solo a favore di una più adeguata conoscenza del "verbo" wagneriano, ma per la diffusione del melodramma franco-italiano (con Verdi in testa), verso cui nutriva ammirazione aperta e sincera. Ma questa è soltanto una delle facce del nostro scapigliato e romantico musicista, proteso verso un sogno di grandezza e di glorificazione dell'Io, spinto da un'ansia creativa e interpretativa senza confini. Esiste anche l'altro Liszt che aprì la musica a nuovi orizzonti e la svincolò dalla soggezione all'ordinamento classico, gettò le basi con il suo pianismo dai contorni armonici sfumati per l'esperienza debussyana e in parte favorì con l'idea del discorso a programma dei poemi sinfonici la forma ciclica franckiana, senza naturalmente sottovalutare il suo sostanziale contributo, ormai da tutti accettato, alla tecnica compositiva di Wagner enucleata sul leitmotiv e sulla forza espressiva e concettuale della melodia infinita.

Liszt è stato ritenuto, a giusta ragione, il pianista per eccellenza, colui che continuò e sviluppo la via già indicata da Clementi, Beethoven e Weber e nello stesso tempo gettò le fondamenta del pianismo moderno, come riconobbe Ferruccio Busoni. Mentre Paganini, che fu quello strabiliante virtuoso dell'archetto che tutti conosciamo, ebbe seguaci, ma non successori e si può dire che rimase un fenomeno a sé, Liszt con il suo tecnicismo ferratissimo e il suo titanismo scalpitante e focoso fece scuola e la sua lezione si estese e si protrasse oltre la sua epoca, tanto è vero che ancora oggi si può parlare di stile lisztiano, se si rispettano certe caratteristiche di impostazione e di sviluppo del gioco pianistico che furono proprie del musicista ungherese. Certo, il pianismo di Liszt fu unico nel suo genere e riempì di sé tutto il periodo romantico, distinguendosi nettamente dal pianismo di Chopin, che pure ebbe una importanza fondamentale nell'ambito dell'arte romantica. Chopin usò il pianoforte in funzione di un intimismo espressivo che rifuggiva da qualsiasi perorazione oratoriale e retorica; il pianoforte venne inteso da lui come strumento delle confessioni dell'animo e non come mezzo di esibizionismo e di autoesaltazione dell'Io, categoria creatrice e dominatrice del pensiero romantico. Per Liszt il pianoforte fu, sì, la tastiera dei sogni, delle contemplazioni e delle evasioni dalla realtà, ma anche lo strumento in cui egli seppe riversare tutta la piena dei sentimenti, con una ricerca di effetti timbrici e coloristici senza precedenti e con una invenzione di trovate, come ad esempio i passi di estrema agilità nella zona acuta dei tasti, che non sempre erano sfoghi esteriori di un temperamento scapigliato ed esuberante. Naturalmente il virtuosismo trascendentale del pianismo lisztiano non poteva non suscitare, con il mutare dei gusti e delle mode, un sentimento di freddezza e di più distaccata adesione presso l'enorme schiera degli ascoltatori; ma non si possono ignorare i vantaggi che a suo tempo quella tendenza provocò nella musica strumentale moderna, come la maestria tecnica ingigantita attraverso l'assoluto dominio di tutte le possibilità meccaniche, dinamiche ed espressive dello strumento. Del resto le tre raccolte delle Années de pélerinage, première année (Suisse), deuxième année (Italie) e troisième année (in quest'ultima sono incluse le fosforescenti e liquescenti sonorità de Les jeux d'eau à la Ville d'Este), le Vingtquatre Grandes Études, le Études d'exécution transcendante d'après Paganini (il terzo dei sei pezzi è l'arcinota trascrizione de La campanella dal rondò finale del Secondo Concerto in si minore per violino e orchestra di Paganini: una melodia fresca e zampillante, immersa in un vorticoso turbinìo di trilli, di scale, di tremoli e di arpeggi che evocano una atmosfera di seducente felicità sonora), le diciannove Hungarian Rhapsodies costituiscono dei punti fermi nella storia pianistica e nessuno può negare i valori musicali sparsi a piene mani in queste pagine, pur tra alcune uscite tecnicistiche di un funambulismo circense. Non per nulla è stato affermato da Busoni che, se Bach è l'alfa della composizione pianistica, Liszt ne è l'omega, in quanto riassume dal punto di vista della struttura tutte le esperienze precedenti maturate sotto la sigla del classicismo e preannuncia quelle libertà formali che troveranno ampio sfogo e attuazione nella musica sul finire dell'Ottocento e nel secolo ventesimo.

Malédictìon per pianoforte e orchestra d'archi (Malédictìon für Klavier und Streicher), risale agli anni giovanili dell'autore e fu scritta intorno al 1830, in funzione prevalente di un pianismo ricco di effetti, nel rapporto tra momenti lirici ed esplosioni vivacemente drammatiche, secondo quello stile che appartiene interamente a questo compositore. Il pianoforte svolge un ruolo da protagonista, quasi a descrivere ed evocare vari stati d'animo contrapposti fra di loro e sostanziati di slanci e ripiegamenti, di sogni, di ansie, di contemplazioni sentimentali e di superamento delle antinomie della vita in un clima di felicità inventiva. Il pezzo, della durata di 14 minuti, richiede la presenza di un solista dalla tecnica solida e sicura nell'evidenziare la crescente progressione dei vigorosi accenti sonori.


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Piazza del Campidoglio, 19 luglio 1984


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Ultimo aggiornamento 18 dicembre 2013