Psalmus Hungaricus, op. 13

Cantata per tenore, coro e orchestra

Musica: Zoltán Kodály (1882 - 1967)
Testo: Mihály Kecskeméti dal salmo 55
Organico: tenore, coro misto, coro di voci bianche (ad libitum), 3 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, piatti, arpa, organo (ad libitum), archi
Composizione: 1923
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1924
Dedica: al pubblico di Budapest
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Per numerosi motivi il Psalmus Hungaricus è un lavoro di rilevanza centrale nel catalogo di Zoltán Kodály; si tratta della partitura che segnò un ritorno di creatività del compositore dopo una stasi legata a tormentate vicende personali e politiche, che riscosse un successo destinato a proiettare il nome di Kodály a notorietà internazionale, che aprì una nutrita serie di lavori di largo impianto con orchestra e coro. Kodály nel 1923, a quarantanni, era uno dei personaggi di maggior rilievo della vita musicale ungherese. Fin dagli anni di formazione aveva mostrato un grande interesse nei confronti del canto popolare, tanto da dedicarsi con intensità alla ricerca "sul campo" dei canti dei contadini, a cui dedicò poi la tesi di laurea nel 1906. Quest'opera di raccolta non mirava ad adattare la musica popolare ai canoni e agli stilemi di quella colta, ma anzi a riprodurla con la massima fedeltà per coglierne i veri significati culturali e i veri valori musicali. In questa attività, proseguita nell'arco di molti decenni, Kodály si trovò accanto Béla Bartók, autore che condivideva l'entusiasmo per il patrimonio popolare. Per entrambi il canto ungherese doveva costituire la base di una rigenerazione del linguaggio musicale, anche se secondo prospettive assai diverse, che per Bartók miravano a mettere le strutture del canto popolare come fondamento di tutta la scrittura, mentre per Kodály tendevano a conservare la purezza incontaminata del canto, con esiti certamente meno innovativi. Legati da una amicizia saldissima, i due furono compagni di molte avventure anche negli ambienti musicali borghesi, come la fondazione, nel 1911, di una associazione per l'esecuzione di musiche moderne. Grandi speranze dovevano nascere poi dalla rovina dell'impero austroungarico seguita alla prima guerra mondiale. Nel novembre 1918 il governo Karolyi proclamò la repubblica, e anche la vita musicale subì le ripercussioni di questo rivolgimento; Kodály e Bartók furono chiamati a far parte di un "Direttorio musicale", rimasto in attività anche nel corso della breve esperienza della Repubblica dei Consigli, nata dalla rivoluzione comunista. Alla presidenza dell'Accademia musicale venne insediato il pianista e compositore Ernö Dohnányi, e Kodály fu il suo vice; i due, con Bartók, si impegnarono a studiare una riforma dell'educazione musicale ungherese; ma dopo pochi mesi, nell'agosto 1919, la caduta della Repubblica dei Consigli e l'instaurazione del regime autoritario dell'ammiraglio Miclos Horthy troncò tutti i progetti di rinnovamento. Le conseguenze per Kodály furono pesanti. Il nuovo regime iniziò una serie di persecuzioni rivolte verso gli esponenti di punta dell'esperienza repubblicana. Accusato di reati politici, di illeciti amministrativi, Kodály venne sottoposto a una sorta di linciaggio morale che portò anche alla sua sospensione dall'insegnamento. Si difese con grande vigore. Dovette attendere il settembre 1921 per essere riammesso al suo posto.

Queste vicende ebbero anche un'influenza diretta sulla creatività del compositore; l'unico lavoro di rilievo di quegli anni è la Serenata op. 12 per due violini e viola. Il Psalmus Hungaricus - nato poco dopo che la Universal Edition di Vienna aveva accolto le opere di Kodály nei suoi cataloghi - doveva essere dunque la prima importante partitura nata dopo tante difficoltà. L'occasione venne dalla ricorrenza del cinquantesimo anniversario della nascita di Budapest, con la fusione delle tre città di Buda, Óbuda e Pest. Per questa ricorrenza Bartók scrisse una Suite di danze, Dohnányi una Ouverture festiva. Kodály invece scelse una soluzione più complessa, quella di una Cantata basata su un testo arcaico, una libera traduzione del Salmo 55 di Re David, realizzata dal poeta religioso ungherese Mihály Kecskeméti Vég, del XVI secolo. Scritta in soli due mesi, la Cantata venne eseguita il 19 novembre 1923, sotto la direzione di Dohnányi.

La scelta del testo di Vég non era senza significato. Il salmo consiste in una preghiera di David, che si rivolge a Dio chiedendogli di non abbandonarlo nell'ora del bisogno, di consolare la sua tristezza, di salvarlo dalla persecuzione dei suoi nemici, il più acerrimo dei quali già creduto amico. Alla propria anima David chiede di rivolgere a Dio i propri pensieri e la propria fede; sa che Dio non benedirà i parassiti e difenderà i giusti. È possibile che questa preghiera avesse attirato l'attenzione del religioso del XVI secolo come diretto riferimento alla situazione dell'Ungheria, soggiogata dall'impero turco. Certamente Kodály venne attratto a sua volta dai possibili riferimenti autobiografici nonché alla situazione politica dei suoi anni. Lui era il giusto che si era dovuto difendere; i nemici lo avevano perseguitato e lo avevano lasciato in una solitudine dolorosa; e l'oppressione di un regime autoritario ancora durava.

Le ripercussioni che il Psalmus Hungaricus doveva avere furono notevoli; innanzitutto nella creatività personale del compositore, che per la prima volta abbandonava gli organici cameristici e si applicava a un lavoro di vasto organico, un indirizzo che doveva essere seguito con insistenza in seguito. Inoltre significativa è la presenza, sia pure opzionale, di un coro di ragazzi; grande parte della successiva attività di Kodàly infatti sarà rivolta al campo dell'educazione musicale, con l'elaborazione di un metodo didattico destinato a enorme fortuna, e numerose composizioni per coro di voci bianche. Altre ripercussioni furono sulla stessa carriera di Kodály; il Psalmus Hungaricus infatti cominciò ad avere una vasta diffusione all'estero, attirando l'attenzione, negli anni 1926-27, di direttori come Willem Mengelberg e Arturo Toscanini, che intrecciò con Kodály una lunga amicizia. Lo stesso autore diresse il Salmo a Cambridge e Londra, nel 1927.

Tanti consensi avevano ovviamente la loro ragione nello stesso contenuto musicale dell'opera, che appare ispirata da lirismo, severità e gusto arcaicizzante. Non c'è, nella partitura, nessuna vera melodia popolare, ma uno stile che a tratti riecheggia quello dei canti popolari, e che comunque guarda a molti tipi di coralità, da quella gregoriana a quella rinascimentale, fino a soluzioni barocche. Il tema principale è affine a quello della sequenza gregoriana Lauda Sion Salvatorem e ha un chiaro profilo pentatonico; questo tema, intonato dal coro, ritorna a più riprese - ogni volta in una veste variata, secondo le tecniche dei canti popolari - intervallandosi con altri episodi; la forma complessiva della partitura è dunque quella di un libero Rondò.

I timpani iniziali danno subito l'impressione della temperie drammatica che informa la partitura, e che si impone nella introduzione orchestrale (Andante molto appassionato), fortemente gestuale e animata da dissonanze che non contraddicono l'impianto tonale di base. Attacca così il coro (contralti e bassi), sottovoce e all'unisono, intonando la melodia pentatonica in modo salmodiante, per le parole del narratore. È poi il tenore solista a dar voce al lamento di re David; dalla melodia pentatonica nasce un libero declamato che acquista progressivamente incisività nella perorazione; viene interrotto una prima volta dal coro, sostenuto da tutta l'orchestra; poi il tessuto orchestrale conferisce una maggiore drammaticità alla preghiera, che è sostenuta anche dal coro femminile vocalizzato; questo lungo climax sfocia in una terza e altamente retorica intonazione della melodia pentatonica. Si giunge così a una svolta espressiva; è il momento intimistico con gli archi, il clarinetto e i corni che sostengono la voce di David che lamenta il tradimento dell'amico più fido; si profila quindi un nuovo climax, con la voce del tenore echeggiata dal coro, che intona quindi direttamente e con forza il proprio pianto di fronte al Signore.

Una lunga pausa immette in un Andante che è forse il vertice espressivo della partitura, certamente sotto il profilo della ricerca timbrica; vi troviamo infatti un delicato impasto degli archi divisi e dell'arpa, con occasionali interventi dei fiati, per donare intensità al momento in cui David afferma la fiducia in Dio. Quindi la parola di David si trasforma da preghiera del singolo a invocazione collettiva, di tutto un popolo. Interamente corale è infatti l'ultima sezione della partitura, che passa attraverso forti contrasti espressivi per giungere a un apice di intensità sulle ultime parole di David; le ultime misure della partitura, che espongono il testo del narratore, si spengono progressivamente nel nulla; vi ritroviamo, ancora sottovoce e all'unisono, l'estrema apparizione del tema pentatonico, che chiude con logica circolare l'intera partitura.

Arrigo Quattrocchi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Dopo la fine dell'impero asburgico, Kodàly, Bartók e Dohnànyi - tre illustri compositori ungheresi - aderirono al governo popolare di Béla Kun, avviando un processo di rinnovamento delle strutture musicali del loro paese. Caduto il governo popolare, i tre maggiori rappresentanti della cultura musicale ungherese furono sospesi dalle loro cariche e sottoposti persino a inchieste disciplinari. A questo particolare periodo di vita e di lavoro risale il Psalmus Hungaricus, composto nel 1923, eseguito per la prima volta a Zurigo nel 1926 e presentato da Toscanini, alla Scala, nel 1928.

È la prima, importante composizione di Kodàly, reintegrato nell'insegnamento soltanto nel 1922. In questa pagina il musicista riflette sulla sua vicenda «personale». Il titolo in latino non tragga in errore. Kodàly utilizzò, infatti, un testo in ungherese antico del predicatore e poeta Mihàly Vég, vissuto nel Cinquecento nella sua stessa città natale: Kecskemèt. Attraverso questo testo, Kodàly non tanto si prese una «vendetta» nei confronti di coloro che lo avevano perseguitato, ma riaffermò la propria autonomia e indipendenza calate nell'humus popolare.

Il testo elabora il Salmo 55 di David, nel quale si configura il risentimento del calunniato, tanto più profondo in quanto le ingiurie e gli attacchi provengono dagli stessi amici. Si tratta di un Salmo contro i soprusi e gli inganni. «Se mi avesse insultato un nemico, l'avrei sopportato; se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente...».

La composizione assume, quindi, il tono di una invettiva, pur mantenendo quello di una stupefazione per le offese patite. La prima strofa ha nel Salmo il carattere di «ritornello» (in mutati atteggiamenti vocali e strumentali, si ascolterà tre volte), e presenta - nelle voci del coro - David (cioè lo stesso Kodàly) corrucciato e inquieto per il tradimento di coloro che riteneva suoi amici:

Allor che David triste conobbe
De' suoi amici l'odio e l'inganno
Col cuore gonfio d'orrida angoscia
Stanco e avvilito il Signor invocò.

La versione italiana - occorre avvertire - salva il ritmo musicale, ma non l'originaria aderenza al ritmo anche delle parole. A un cantante ungherese, che studiava la parte solistica di questo Salmo, Kodàly non raccomandò altro che di cantare in ungherese.

L'orchestra non presenta particolari situazioni foniche, ma è piuttosto nutrita nei «fiati», dilatata negli «archi» con suddivisioni in più parti, completata da timpani, arpa, piatti e organo.

Il coro «a cappella» (cioè privo di «accompagnamento»), dopo l'introduzione orchestrale, attacca sottovoce la strofa sopra citata. Quindi il tenore svolge nel suo primo intervento (quattro strofe) il motivo dell'ira provocata dalla ipocrisia dei nemici:

Sommo Iddio, Padre, ascoltami.
Volgi su me lo sguardo tuo santo,
Mio salvatore, pietà invoco ognor
Pel mio soffrire che il cuor mi lacera.

Mi dolgo e piango da mane a sera,
Fosco è il pensier, distrutto il vigore.
Gonfio è il mio cor d'amaro dolore
Per l'ira orrenda di nemici ipocriti.

L'ali m'avesse Iddio donato,
Qual colomba lungi a volo andrei,
L'ali m'avesse dato il buon Dio,
Lontan, lontano a volo fuggirei.

Là nel deserto viver vorrei,
Sperduto, errante in selva oscura,
Ma non potrei viver tra loro
Che il diritto e il vero mai sopportarono.

Il coro riprende la strofa iniziale, a piena voce, e il tenore, su un più fluido «vociare» degli archi, sviluppa con nuove variazioni il tema dei perversi che tramano inganni al prossimo ignaro e indifeso:

Tendono agguati e inique trame
Spargon onta e discordia notte e dì;
Nelle lor reti cercan d'attrarmi
Per giubilare di mie pene e guai.

Nella città risse e violenze,
Odi e contese riempion le piazze,
Dell'or l'ebbrezza tal è nei ricchi
Che la terra e il ciel fremon di terrore.

Gli empi s'uniscono spesso in segreto,
Tendono inganni a orfani e spose;
Di Dio il consiglio non guida gli atti Di lor,
che alteri il suo nome profanano.

Lo sviluppo di queste «variazioni», comportante l'ampliamento del tessuto orchestrale, porta alla terza ripresa della prima strofa, affidata ora a una massa tumultuante in invettive e poi sfociante in un vocalismo «muto», senza più parole, articolato in un intenso intreccio polifonico. La parola ritorna con il nuovo intervento del tenore che scopre come, in realtà, non i nemici l'hanno colpito, ma gli amici con i quali percorreva la stessa strada:

Lieve sarebbe vincer lo strazio
Fosse un nemico che mi persegue;
Se tal fosse, salvar mi potrei,
Ogni dolore io sopportar saprei.

Ma egli è l'amico e il più caro,
Quel che al mio cuore si confidava.
Seguimmo un giorno la stessa via,
Or m'è nemico e il più crudele egli è.

O amara morte, punisci tutti,
Forza e poter annienta dell'empio,
Struggi la vana perfida beffa,
Struggi la vil sacrilega masnada!

La tensione orchestrale e vocale si fa spasmodica, esasperata, e prorompe in una grandiosa e anche minacciosa fonicità. Ma un Adagio con arpa, violino e viole in «pizzicato», violoncello, clarinetto e flauto, introduce il motivo della salvezza. È un singolare intermezzo strumentale, concluso da un «assolo» del violino. Tenore e coro svolgono l'invocazione di salvezza e, dopo i tremuli rintocchi dell'arpa, il tenore intona la sua ultima strofa, in un clima fonico di sogno, sospeso tra suoni incantati:

Odi il mio pianto, Dio, ascoltami;
Da mane a sera sempre t'invoco,
Dammi salvezza e redenzione,
Guardami tu dal male e dai nemici.

Pur, o mio cor, sii lieto e spera ancor,
Dio ti consola e t'illumina,
Ei toglie all'alma ogni pena umana,
E luce è a te in vita e in morte.

C'è ancora il violino, e c'è ancora il fremito dell'orchestra, ma allo stesso modo che alla tempesta succede la quiete - come tutti sono pronti ad assicurare -, ecco anche qui strumenti e coro (sono sue le ultime quattro strofe) staccarsi dall'ira, appagarsi della certezza che i giusti trionferanno, dopo i tormenti patiti:

E tu, o Signore, che giusto sei,
I sanguinari mai proteggesti,
Mai loro gioia benedicesti.
Lunga vita giammai godranno in terra.

Ma il buono e il giusto tu lo conservi,
Tu al fedele gioia eterna dai,
Chi s'è abbassato innalzato l'hai,
L'audace e altero scagli nella polve.

E chi sovente s'affligge in terra,
Gli strazi prova del fuoco ardente,
Tu a gloria eterna tosto l'innalzi,
Tu a lui salvezza, giubilo e luce dai.

Dice la Bibbia, scrive Re David,
Così si legge nel sacro Salmo
Del quale un pio in sua mestizia
Conforto a tutti la melodia creò.

Non è finita, però. Un'ambiguità tormenta il grande cuore «contadino» di Kodàly, il quale fa in modo - dopo la pausa che segue alla tranquilla discesa degli «archi» e dei «fiati» - che l'ultima strofa abbia le stesse note della prima (è la strofa che ritorna più volte nel Salmo), mentre i contrabbassi (quale che sia l'idea che abbiate di essi: bonari o perfidi, ruvidi o teneri, candidi o tenebrosi) prendono ad accompagnare, battuta per battuta, il borbottìo del coro che conclude il Psalmus Hungaricus. Ritorna così alla mente, per la quarta volta, il «ritornello». Odio e amore, vendetta e perdono, ira e oblio: dimostrano bene, qui, di essere estremi che si toccano.

Erasmo Valente

Testo

CORO
Allor che David triste conobbe
De' suoi amici l'odio e l'inganno
Col cuore gonfio d'orrida angoscia
Stanco e avvilito il Signor invocò:

TENORE
Sommo Iddio, Padre, ascoltami.
Volgi su me lo sguardo tuo santo,
Mio salvatore, pietà invoco ognor
Pel mio soffrire che il cuor mi lacera.

Mi dolgo e piango da mane a sera,
Fosco è il pensier, distrutto il vigore.
Gonfio è il mio cor d'amaro dolore
Per l'ira orrenda di nemici ipocriti.

L'ali m'avesse Iddio donato,
Qual colomba lungi a volo andrei,
L'ali m'avesse dato il buon Dio,
Lontan, lontano a volo fuggirei.

Là nel deserto viver vorrei.
Sperduto, errante in selva oscura,
Ma non potrei viver tra loro
Che il diritto e il vero mai sopportarono.

CORO
Allor che David triste conobbe
De' suoi amici l'odio e l'inganno
Col cuore gonfio d'orrida angoscia
Stanco e avvilito il Signor invocò:

TENORE
Tendono agguati e inique trame
Spargon onta e discordia notte e dì;
Nelle lor reti cercan d'attrarmi
Per giubilare di mie pene e guai.

Nella città risse e violenze,
Odi e contese riempion le piazze,
Dell'or l'ebbrezza tal è nei ricchi
Che la terra e il ciel fremon di terrore.

Gli empi s'uniscono spesso in segreto,
Tendono inganni ad orfani e spose;
Di Dio il consiglio non guida gli atti
Di lor, che alteri il suo nome profanano.

CORO
Allor che David triste conobbe
De' suoi amici l'odio e l'inganno
Col cuore gonfio d'orrida angoscia
Stanco e avvilito il Signor invocò:

TENORE
Lieve sarebbe vincer lo strazio
Fosse un nemico che mi persegue;
Se tal fosse, salvar mi potrei,
Ogni dolore io sopportar saprei.

Ma egli è l'amico ed il più caro,
Quel che al mio cuore si confidava.
Seguimmo un giorno la stessa via,
Or m'è nemico e il più crudele egli è.

O amara morte, punisci tutti,
Forza e poter annienta dell'empio,
Struggi la vana perfida beffa,
Struggi la vil sacrilega masnada!

TENORE E CORO
Odi il mio pianto, Dio, ascoltami;
Da mane a sera sempre t'invoco,
Dammi salvezza e redenzione,
Guardami tu dal male e dai nemici.

TENORE
Pur, o mio cor, sii lieto e spera ancor,
Dio ti consola e t'illumina,
Ei toglie all'alma ogni pena umana,
E luce è a te in vita e in morte.

CORO
E tu, o Signore, che giusto sei,
I sanguinari mai proteggesti,
Mai loro gioia benedicesti.
Lunga vita giammai godranno in terra.

Ma il buono e il giusto tu lo conservi,
Tu al fedele gioia eterna dai,
Chi s'è abbassato innalzato l'hai,
L'audace e altero scagli nella polvere.

E chi sovente s'affligge in terra,
Gli strazi prova del fuoco ardente;
Tu a gloria eterna tosto l'innalzi.
Tu a lui salvezza, giubilo e luce dai.

Dice la Bibbia, scrive Re David,
Così si legge nel sacro Salmo
Del quale un pio in sua mestizia
Conforto a tutti la melodia creò.

(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 24 aprile 2004
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Palazzo Pitti, 16 luglio 1982


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Ultimo aggiornamento 20 maggio 2016