Sonata n. 3 per violino e pianoforte, VII/7


Musica: Leós Janàček (1854 - 1928)
  1. Con moto
  2. Ballada
  3. Allegretto
  4. Adagio
Organico: violino, pianoforte
Composizione: 1914 - 1915 (revisione 1916 - 1922)
Prima esecuzione: Brno, Club dei compositori della Moravia, 24 aprile 1922
Edizione: Hudební Matice, Praga, 1922
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Della Sonata per violino e pianoforte di Janàček, la terza da lui composta ma l'unica a essersi conservata, esistono almeno due differenti versioni, che abbracciano un periodo di diversi anni e passano attraverso ulteriori fasi intermedie, mutandone il disegno. La prima versione, iniziata nel 1913 e terminata nel maggio 1914, prevedeva attorno al nucleo originario della Ballada, in origine concepita come lavoro indipendente e poi collocata nella Sonata al terzo posto, un Con moto iniziale, un Adagio e una Marcia finale. Successivamente Janàček, per stadi progressivi tra il 1915 e il 1919, oltre a rielaborare il movimento iniziale, spostò la Ballada al secondo posto ed eliminò la marcia; in un primo tempo sostituendola con un altro Finale, poi rimpiazzandola definitivamente con l'Adagio e componendo ex novo il terzo movimento. Questa versione, ultimata nel 1921, venne presentata per la prima volta a Brno nel 1922.

L'itinerario compositivo della Sonata risente in modo evidente dei contraccolpi, emotivi e psicologici, degli anni della Prima guerra mondiale, dallo scoppio - 26 luglio 1914 - alla disgregazione dell'Impero austro-ungarico, seguita dalla liberazione dei popoli cèco e slovacco. Partito da un'idea patriottica e da intenti nazionalistici («La Sonata per violino fu scritta all'inizio della guerra, quando attendevamo i russi in Moravia», ricordava l'autore ancora nel 1922: e i russi erano i fratelli liberatori), Janàček col tempo mitigò l'alta temperatura dell'esaltazione bellica, di quando alla sua mente eccitata sembrava di "percepire i clangori dell'acciaio affilato», e rese più contrastante l'insieme di sensazioni che la guerra gli aveva suggerito. Il travaglio della Sonata, la cui versione definitiva contempla alla fine un Adagio nient'affatto liberatorio, non è soltanto formale, per una forma affrancata e originale, ma si rispecchia anche nella oscillazione tra differenti stati d'animo, tra aggressività e introversione, ansia e speranza: quasi come in un caleidoscopio nel quale tutti questi elementi fossero agitati alla rinfusa, ma non da ultimo senza precise intenzioni.

L'aspetto più caratteristico della Sonata è costituito da una continua nervosità, da sbalzi d'umore improvvisi e laceranti, di cui l'estrosa spigliatezza, evidentemente ricalcata sui modi tipici dell'esecuzione della musica popolare, tanto del canto quanto del parlato, è il corrispettivo sul piano prettamente compositivo. Così il Con moto iniziale può richiamare alla mente gli stilemi del violinismo tzigano, ma è allo stesso tempo espressione di un'isteria senza freni, tesa e bruciante, resa ancor più stridente dalla contrapposizione degli stili: velocità affrettata degli accompagnamenti e flemma sinistra del canto. Siamo davvero vicini a quelle zone della psiche di cui ci parlano Kafka e Kundera nei loro romanzi.

La Ballada. Con moto che segue è una parentesi lirica tutta giocata sulla grazia della melodia e la decisa emancipazione del pensiero armonico; eppure anche qui si avverte un che di paradossale, di non completamente svelato: una piacevolezza per così dire inquieta, negata. E indole ossimorica ha decisamente l'Allegretto, con le sue movenze di danza gaia e vivace; ma come disturbata da una latente tendenza all'accelerazione ritmica e alla sfasatura metrica, e minacciata da un'instabilità timbrica secca e intermittente: tra luci e ombre, o meglio tra colori sgargianti e improvvisi, crudi bianco-neri.

Da questo punto di vista l'Adagio finale, ambiguo anticlimax in un'opera senza climax, è la chiave di lettura più appropriata per intendere la Sonata come una confessione di forza vitale e di mortale debolezza. La polifonia di stili incontrata nel corso dell'opera non si risolve in un contrappunto dialettico: e l'identità del tutto, tanto del piano complessivo così laborioso quanto dei particolari così lucidamente personalizzati, si frantuma in una follia afasica, senza neppure più i connotati di una parvenza che non sia schizofrenica. Sussurri e grida si confondono, velocità e lentezza si sovrappongono, violino e pianoforte si scambiano le funzioni, fino a non sapere più come interagire, se non con apprensive interiezioni. Il violino balbetta ancora qualcosa, poi tace. La disgregazione è compiuta. Anche la Cecoslovacchia libera intanto era nata, ma questa musica non sembra il suo inno di battesimo.

Sergio Sablich

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Nonostante le riproposte degli ultimi anni, che hanno consentito una certa diffusione dei capolavori teatrali, l'opera e la figura di Leos Janacek sono ancora sostanzialmente sconosciute, o mal conosciute, al pubblico italiano. Eppure Janacek è uno dei pochissimi compositori della sua generazione, di formazione tardo-romantica, ad aver svolto un ruolo di primaria importanza nello sviluppo del linguaggio musicale del nostro secolo (un ruolo che il compositore rivendicava prioritario rispetto a quello dello stesso Debussy). In quel delicato periodo di sutura che fu l'ultimo decennio del secolo scorso Janacek giunse alla teorizzazione e all'applicazione di principi nettamente in contrasto con il linguaggio musicale della tradizione romantica, il superamento della rigida contrapposizione fra i modi maggiore e minore, dell'uso funzionale dell'armonia, della tradizionale quadratura ritmica della frase.

Un simile progresso linguistico nasce dai profondi studi sul materiale folklorico delle terre slave (in particolare della Moravia). Ma l'uso del materiale folklorico è anche direttamente legato a quelle idee nazionaliste e irredentiste che convogliarono l'estro inventivo del compositore principalmente verso un teatro musicale di indirizzo realistico e popolare. La produzione cameristica di Janacek è significativamente scarsa, e nasce soprattutto nei periodi di intermezzo fra la composizione delle varie opere teatrali; assai spesso è una idea programmatica a guidare questi brani.

Come i due Quartetti per archi - le composizioni più significative dello Janacek camerista - anche la Sonata per violino e pianoforte appartiene alla maturità del compositore (in realtà la maturazione dell'autore fu lentissima, e si può dire che egli giunse ai propri migliori risultati solo attorno ai cinquant'anni). Preceduta da altre due Sonate che sono andate distrutte, essa ebbe una gestazione molto complessa; iniziata nel 1913 fu terminata nella versione definitiva solo nel 1921. Si tratta di una composizione in quattro movimenti, nei quali sarebbe pletorico cercare un riferimento pedissequo ad una idea programmatica, mentre è più interessante indicarne le principali caratteristiche strettamente musicali.

Il brano ignora i classici procedimenti di elaborazione e sviluppo; si basa su una logica di contrasti, perseguita con la contrapposizione delle diverse scritture strumentali e con la ripetizione, continuamente variata, arricchita, intrecciata, di un materiale tematico aforistico e frammentario; il risultato è quello di una composizione «estrosa e fantastica», per usare l'espressione di Luigi Pestalozza. Le idee principali dell'intera Sonata vengono presentate immediatamente all'inizio del primo movimento (Con moto); si tratta di un breve tema caratteristico esposto dal violino solo, cui segue un tema lirico, sull'accompagnamente, dei tremoli del pianoforte; il prosieguo del movimento, di impronta rapsodica, vede il discorso musicale condotto per lo più alternativamente dagli strumenti. "Ballata" è detto il secondo tempo, una pausa contemplativa che privilegia la cantabilità del violino e un rapporto di intima solidarietà fra i due strumenti. Il seguente Allegretto (che ha funzione di Scherzo) si apre e si chiude con un incisivo motivo popolare esposto dal pianoforte; echi di questo motivo, in pizzicato, si ascoltano anche nel corso della suggestiva sezione centrale di questo terzo tempo. La logica conflittuale del primo movimento si ritrova nell'Adagio finale, basato principalmente sul contrasto fra le frasi cantabili del pianoforte e i brevi incisi del violino; una perorazione più intensa conclude la composizione.

Arrigo Quattrocchi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 7 maggio 1999
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 4 aprile 1990


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Ultimo aggiornamento 27 febbraio 2016