La mitizzazione della cantante d'opera, della diva dalla voce irresistibile e irraggiungibile, è un fenomeno ricorrente nella storia del teatro musicale, ma che certo subì uno speciale giro di vite nell'età della décadence e della femme fatale. Già Jules Verne aveva legato tale figura al fantastico e alla fantascienza (si veda Il castello dei Carpazi, 1892), ma l'opera letteraria che più di ogni altra contribuì a diffondere l'associazione tra la voce della diva e una sorta di neofaustismo "al femminile" è senz'altro Il fantasma dell'opera di Gaston Léroux (1910). E a proposito di patto col diavolo "al femminile" non può non venire in mente Rapsodia satanica, il film di Nino Oxilia con la diva del "muto" Lyda Borelli, vero e proprio Faust trasformato in vamp, e con le musiche cinematografiche di Pietro Mascagni (1917). Per il tema delle tante identità della diva, penso invece a un racconto di Karen Blixen, Sognatori (una delle Sette storie gotiche, 1934), in cui la cantante veneziana Pellegrina Tosi si reincarna in vari personaggi diversissimi tra loro («Voglio essere tante donne», dice a un certo punto). Insomma, quando lo scrittore cèco Karel Čapek mette in scena (nel dramma L'affare Makropulos, 1922) la vicenda della cantante Emilia Marty, alias Elina Makropulos, il mito della diva metamorfica e fatale, dalla cui voce emana un fascino irresistibile e insieme un richiamo di morte, è già cristallizzato nella cultura europea.
Per capire l'opera che Janáček trasse dal dramma di Čapek conviene perciò tener presente questo contesto di mitizzazione che conferisce al loro personaggio un valore aggiunto storico e simbolico. Non che il compositore non abbia trasformato il senso della vicenda adattando il dramma di Čapek a mo' di libretto d'opera: egli è interessato soprattutto alla figura della protagonista, alla sua condizione esistenziale, laddove nel dramma il problema dell'iperlongevità (o dell'eterna giovinezza) è trattato in chiave filosofica, se non politico-satirica. Però è importante tener presente che tanto il dramma di Čapek quanto l'opera di Janáček realizzano (all'interno del loro genere specifico) un insieme tematico che vive anche di vita propria e si ritrova spesso - mutatis mutandis - in grandi capolavori dell'epoca come Il ritratto di Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde (per la giovinezza fasulla che si trasforma di colpo in orrida vecchiezza) o come Orlando (1928) di Virginia Woolf (per le mutazioni dell'io attraverso i secoli).
Dunque L'affare Makropulos di Janáček andò in scena a Brno nel 1926. Alle disquisizioni filosofico-politiche e all'ottimismo ironico di Čapek il compositore preferì, come dicevamo, il dramma esistenziale della sua enigmatica eroina. Naturalmente questa opzione drammaturgica porta con sé la scelta di fare del finale il momento-chiave dell'opera. Quello in cui l'algida e cinica diva finalmente getta la maschera e in un certo senso si scongela come Turandot. Ma in nome della morte, non dell'amore. Il calore dell'umanità ricomincia a scorrerle nelle vene soltanto quando accetta la sua natura di essere mortale. Il suo vero nome è Elina Makropulos ed è figlia di Hieronymos Makropulos, medico personale dell'imperatore Rodolfo II. È nata 337 anni fa. Sì, la gitana Eugenia Montez non era altri che lei e lo stesso vale per la scozzese Ellian Mac-Gregor e per moltissime altre donne ancora. Ora è stanca e vuole solo morire. La diva tornata donna canta la solitudine, la nostalgia e l'assurdità dell'esistenza senza più nessun sarcasmo, senza più nessun distacco. Alcune sue frasi sono prolungate amplificate da un coro maschile proveniente da un ailleur misterioso. È in fondo uno dei pochi elementi musicali e sonori che può rinviare al genere "fantastico". L'opera resta infatti strettamente legata al realismo janáčekiano. Si potrebbe attribuire al compositore una frase di Franz Kafka (contenuta nei famosi Colloqui con Kafka pubblicati da Gustav Janouch): «la vera potenza del teatro è quando rende reali le cose irreali. La scena diventa allora un periscopio dell'anima che illumina la realtà dall'interno». Questa illuminazione continuamente cangiante e ipersensibile è data ovviamente dalla musica che entra nel tessuto connettivo della vicenda attraverso un pullulare ossessivo di motivi continuamente variati, scomposti e ricomposti, in un gioco caleidoscopico di incessante mutevolezza che ci dà la sensazione di assistere alla rappresentazione, appunto, dall'interno. I motivi melodici (spesso ostinati) sono come delle tessere di un mosaico irrequieto, in cui non c'è più opposizione fra trama vocale e strumentale. Anche ogni singolo segmento strumentale, quasi sempre ricalcato su una frase, o un frammento di frase, del declamato vocale sembra essere "parola". E in questo nervosissimo tessuto complessivo accadono anche eventi sonori che sembrano dirci qualcosa di urgente e misterioso: si veda ad esempio il già citato coro maschile della scena finale oppure il suono anacronistico della viola d'amore (strumento amato da Janáček che lo usò tra l'altro anche in Kát'a Kabanová) oppure la fanfara lontana (da dietro le quinte) che compare già nell'ouverture come una strana evocazione, come il ricordo di un mondo perduto.
Emilio Sala
Non a caso una delle prime traduzioni inglesi della commedia di Capek si intitolava The Makropulos Secret: e anche l'opera di Janacek ruota attorno alla ricerca di una segreta formula alchimistica che permette di preparare una pozione capace di garantire trecento anni di longevità. Emilia Marty, cantante dell'Opera di Vienna, già una volta ha potuto avvalersi degli effetti della pozione: nel 1922, all'epoca di svolgimento della vicenda, ha 337 anni, nel corso dei quali ha assunto via via pseudonimi come Eugenia Montez, Ekaterina Myshkin e Elian McGregor, senza che alcun segno esteriore abbia tradito la fioritura della sua perpetua giovinezza. Il primo e vero nome di Emilia, tre secoli prima, è stato Elina Makropulos: quello della figlia del fisico e alchimista Hieronymus, vissuto verso la fine del XVI secolo presso la corte praghese di Rodolfo II, il sovrano asburgico protettore delle arti che per ultimo vi ebbe la sua capitale prima che questa venisse trasferita a Vienna. Nell'antefatto storico che Emilia Marty svelerà solo nel terzo atto dell'opera, Rodolfo incarica Hieronymus di preparare una pozione che gli assicuri altri trecento anni di vita, ordinandogli di provarla su sua figlia Elina. Costei cade in uno stato di incoscienza e Hieronymus è imprigionato per frode. Ma dopo una settimana Elina si ristabilisce, all'insaputa di tutti fugge con la formula della pozione e inizia la sua vita girovaga. Viaggia per il mondo, e la lunghezza della sua esistenza le permette di perfezionare senza limiti la sua tecnica, facendone una delle maggiori cantanti d'ogni epoca. D'altro lato la sua vita non più commisurata a quelle altrui le ha fatto patire più di una morte interiore. Inoltre, anche a causa dei cambiamenti di identità necessari al nascondimento della sua abnorme longevità, Elina è incapace di amare: la scelta della bellezza senza fine l'ha costretta ad abbandonare innumerevoli figli, mariti e amanti. Alcuni anni prima del 1922, Emilia-Elina torna infine a Praga, dove ha notizia di una famosa controversia legale in corso da quasi un secolo. Albert Gregor reclama il ricchissimo patrimonio che il suo avo Ferdinand avrebbe ereditato nel 1827 alla morte del barone Joseph Ferdinand Prus, mentre la famiglia Prus ha continuato, con successo, a respingere la richiesta. Elina, che è stata tra le altre Elian McGregor, madre di Ferdinand Gregor nonché amante del barone Prus, può quindi fornire a Gregor e a Kolenaty, il suo avvocato, l'informazione e i documenti decisivi per la vittoria nella causa: Ferdinand Gregor è il figlio illegittimo di Joseph Ferdinand Prus e di Elian McGregor. Un testamento a suo favore, precisa Emilia, è conservato nell'archivio della casa dell'avversario di Gregor, il barone Jaroslav Prus. Ma a Emilia Marty preme non la vittoria di Gregor nella causa, bensì la formula della pozione, rimasta tra i documenti di casa Prus, che ella aveva a suo tempo donato al suo amante Joseph Ferdinand: Emilia è tornata a Praga solo per rientrarne in possesso e assicurarsi così altri trecento anni di vita e di giovinezza.
Janàcek assistette all'Affare Makropulos di Capek il 10 dicembre 1922, poche settimane dopo la sua prima rappresentazione: avrebbe iniziato a lavorare alla partitura nel settembre dell'anno successivo, portandola a compimento nel dicembre del '25. In parallelo alla stesura musicale, i tagli e le modifiche apportate dal compositore al testo della commedia, nonché al suo stesso significato originario, furono numerosi quanto significativi. L'allora trentacinquenne Capek, che con Jaroslav Hasek fu il solo scrittore cèco ad assurgere a fama internazionale nel periodo tra le due guerre, era una figura apprezzata in patria e all'estero in specie per la sua novellistica ispirata a temi fantascientifici alla Wells - a lui si deve tra l'altro l'invenzione del termine 'robot'. Alla sua uscita, nella commedia di Capek si vide una risposta dissenziente a Back to Metusaleh di G.B. Shaw, in cui si ipotizzava che un'accresciuta durata della vita avrebbe determinato un corrispondente aumento di saggezza e felicità nel mondo. Capek smentì il rapporto con Shaw, ma giunse comunque a conclusioni simmetricamente opposte alle sue. Nella lunga dissertazione filosofica che oppone i punti di vista di Kolenaty a quelli del barone Prus e di Vitek, viene affermata l'impraticabilità sociale di una vita di trecento anni («il nostro sistema sociale è completamente basato sulla brevità della vita. Pensate per esempio ai contratti, alle pensioni, alle assicurazioni», osserva Kolenaty), e soprattutto la sua mancanza di attrattive per l'indivìduo («Non puoi continuare ad amare per trecento anni. E non puoi andare avanti ad avere speranze, creare e avere delle curiosità per trecento anni. Tutto diventa noioso», soggiunge Emilia). Capek affermò di aver cercato con la propria commedia di infondere nella gente un messaggio di ironico ottimismo. Ma nelle mani di Janàcek la commedia divenne tutt'altra cosa, in particolare nel culmine drammatico dell'opera, polarizzato dal finale del terzo atto. Il compositore manifesta con tutta evidenza una sensibilità diretta e precisa per il dramma esistenziale della sua eroina, e invece un interesse alquanto minore per le tematiche sociologiche care a Capek. Se tale discrepanza drammaturgica resta più velata nei primi due atti, diviene palese nella metamorfosi cui Janàcek sottopone Emilia al termine del terzo donandole, con l'eloquenza della musica ancor più che con le modifiche al testo, quel soffio di intima e umana tragicità che in Capek restava nelle intenzioni. Janàcek credeva in un teatro musicale conciso: e la sveltezza del suo declamato, se si fa eccezione per il duetto del primo atto tra Emilia e Gregor, per il finale e per pochi altri momenti, procede con singolare fluidità. Dall'epoca del rorido lirismo di Jenufa, il suo capolavoro teatrale ancora intessuto di eredità musorgskiane e tuttavia venato di una precoce vocazione espressionista, lo sviluppo stilistico del compositore ha tracciato un arco assai ampio. Il miracolo del suo celebrato ultimo decennio produttivo, nel corso del quale vedono la luce anche La volpe astuta, Kàt'a Kabanovd e Da una casa di morti per limitarsi al solo ambito teatrale sta appunto nei tratti di una lucida e complessa modernità, libera degli eccessi di una vocalità spinta o plateale. Tratti che vanno ad arricchire e a intersecarsi originalmente con le ricerche, in lui già operanti dal principio del secolo, sulla modalità, sulle inflessioni del linguaggio parlato e sulla variazione ritmico-timbrica dei temi - principio operativo, quest'ultimo, che lascia sempre più in ombra quello del tradizionale 'sviluppo'. La tendenza a instaurare una vocalità di austera e stringata secchezza, già annunciatasi nell'ambito di fiabesca levità de La volpe astuta, e anche nelle amare e acide caricature dei Viaggi del signor Broucek (1907-17), è qui trasferita alla specìfica temperie di un 'realismo fantastico'. E i risultati non sono certo inferiori: i profili del declamato si innestano con sottili effetti stranianti (effetti e clima - il grigiore quotidiano di uno studio d'avvocato, di una camera d'albergo - per i quali è lecito parlare di un burocratico mondo praghese prossimo alle ossessioni kafkiane: non a caso era stato proprio Max Brod, l'amico e biografo di Kafka, a redigere la traduzione tedesca del libretto di Kàt'a Kabanovd) nei rapidi scambi di battute all'inizio del primo atto e nei dialoghi del secondo. Ed è degna di nota l'eleganza con cui il compositore riesce a fondere in un insieme drammatico coerente le inflessioni prosaiche che caratterizzano il recitativo di Kolenaty, all'inizio del primo atto, con la sua seconda parte, segnato dalle appassionate dichiarazioni d'amore rivolte da Gregor a Emilia.
Sotto il profilo delle effusioni vocali L'affare Makropulos offre assai meno rispetto al lirismo di Kàt'a Kabanovd, o anche ai Viaggi del signor Broucek. A parte il culmine concertante del finale, le potenziali arie assomigliano a monologhi, i duetti si arrestano sulla soglia del dialogo inframmezzato da rari slanci emotivi. Si intende che quanto è perso dal lato della passionalità immediata è guadagnato da quello della problematicità del linguaggio, portato a un grado di coerenza tale da sconvolgere il consolidato tessuto musicale nazionalistico e folklórico scomponendolo in atomi di materiali ormai irriconoscìbili, pronti a esser riversati nel gioco di un caleidoscopio tematico di incessante mutevolezza. Anche sotto questo profilo più strettamente musicale, il contrasto con il climax conclusivo dell'opera non potrebbe essere più marcato; e su un'analoga dialettica di contrasti si imperniano anche i rapporti della trama vocale con l'orchestra. Laddove la vivida e a tratti lussureggiante ricchezza dell'apporto di quest'ultima resta a lungo scissa, quasi estranea al declamato vocale, nel finale tutte le forze convergono. Dal coro fuori scena alla scansione metrica più regolare che è qui conferita da Janàcek alla prosa di Capek e all'orchestra, tutto contribuisce allora al sostegno di un flusso melodico infine liberato, come se venisse strappato al gelido incantesimo cui era incatenata l'anima di Emilia. Soluzione che tuttavia, è bene sottolinearlo, non appare in alcun modo effettistica, bensì dettata dal naturale apice della curva drammaturgica - il calore dell'umanità infine riconquistata da Emilia, che prende a scorrerle nelle vene soltanto all'atto dì accettazione della propria mortalità.
Con La volpe astuta (che prevede un cast di uomini, animali, uccelli e insetti) e Da una casa di morti (ambientato in un campo di prigionia siberiano), L'affare Makropulos conferma la scelta di un soggetto quanto mai eccentrico, assai poco 'operistico', secondo una tendenza tipica dell'ultimo Janàcek. Ma qui, in aggiunta, non ci sono neppure i coloriti fiabeschi della Volpe astuta o lo spunto del dolente affresco esistenzialistico della Casa di morti. Lo stesso Capek in una lettera al compositore si domandava, con la sua abituale modestia, come sarebbe stato possibile conferire la vibrazione del lirismo alla sorda materia di una commedia, «così fitta di conversazioni, altamente impoetica e verbosa come la mia...». È dunque lecito ipotizzare che nel soggetto si sia presentata, al consumato istinto teatrale di Janàcek, una forza persuasiva tale da aver catalizzato la sua attenzione al punto da fargli sormontare ogni restante difficoltà. Forza che risiede senz'altro nella speciale complessità drammatica della figura di Emilia, un carattere nelle cui sfaccettature troviamo l'impulsiva gitana 'resuscitata' dal ricordo del conte Hauk, la fanciulla indifesa (l'Elina che si rivela nel terzo atto), la primadonna quintessenza di cinismo e vanità, la donna che conquista la saggezza dell'esperienza e persino un tardivo gesto di protettiva generosità verso la giovane Krista. Di qui traspare, nella centralità senza rivali affidata a una memorabile figura femminile, il sotterraneo legame retrospettivo di Emilia con altre due eroine di Janàcek, Jenùfa e Kàta. D'altro canto, a buon diritto si è osservato che in Emilia troviamo una ben maggiore ricchezza di sfumature caratteriali rispetto a Jenùfa e Kàta: a suo modo Emilia è anche il frutto di una retrospettiva e inquietante sintesi dell'erotismo delle figure femminili giovani (Jenùfa e Kàta), che in quelle opere lottavano contro l'autoritarismo delle anziane (Kostelnicka, Kabanicha): qui le troviamo riunite in una sola ed enigmatica persona, e sul loro fascino multiplo e uno Janàcek getta un ultimo sguardo, che è assieme nostalgico e di virtuosistica lucidità.
Michele Porzio