Jeji pastorkyňa  (La sua figliastra o Jenůfa), I/4

Opera in tre atti

Musica: Leós Janàček (1854 - 1928)
Libretto: Leós Janàček dalla commedia di Gabriela Preissová
Ruoli: Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, controfagotto, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, glockenspiel, xilofono, piatti, triangolo, arpa, archi
Sulla scena: 2 corni, piccola tromba, glockenspiel, xilofono, 2 violini, viola, violoncello, contrabbasso
Composizione: Brno, 18 marzo 1894 - 18 marzo 1903 (revisione 1906 - 1907)
Prima rappresentazione: Brno, Teatro Nazionale, 21 gennaio 1904
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1917
Dedica: in memoria di Olga Janáčková

Sinossi

Atto primo
In un villaggio di montagna della Slovacchia morava, nella seconda metà dell'Ottocento, vivono, intorno a un mulino, la vecchia Buryja e i suoi due nipoti: Steva, alla morte del padre divenuto proprietario del mulino, e il di lui fratellastro più anziano, Laca. Questi ultimi sono entrambi innamorati della cugina Jenufa, figliastra dalla Kostelnicka [la sagrestana], una vedova che è anche una delle nuore della vecchia Buryja. Jenufa ama Steva, da cui, a insaputa di tutti, aspetta un figlio, mentre è del tutto indifferente alle attenzioni dell'introverso, tormentato e gelosissimo Laca. La ragazza, che è di buon animo e istruita (ha insegnato a scrivere al pastorello Jano), attende con ansia il ritorno di Steva dall'annuale commissione di leva; se l'amato dovesse essere reclutato, non lo potrebbe sposare subito e la sua gravidanza sarebbe scoperta. Quando il mugnaio annuncia che Steva è stato esonerato dal servizio militare, le reazioni sono contrastanti: alla gioia di Jenufa fa riscontro la rabbia di Laca, che sperava di liberarsi del rivale vedendolo partire soldato. Al villaggio arriva quindi Steva, ubriacatosi per la felicità, seguito da un gruppo di coscritti e da alcuni musicanti. Vuole che tutti facciano festa e danza con Jenufa un ballo sfrenato. Ma la Kostelnicka interrompe i festeggiamenti: rimprovera a Steva di essere ubriaco e impone che il matrimonio con Jenufa sia rimandato di un anno, fino a quando il fidanzato non abbia rinunciato a bere e a comportarsi in modo sconveniente. Prima di essere condotto via dalla vecchia Buryja, Steva dichiara alla ragazza di non volerla mai lasciare. A questo punto, Laca dà sfogo alla gelosia repressa: molesta Jenufa, le dice che ciò che prova per lei il fratellastro non è vero amore e cerca di baciarla; poi, di fronte alla resistenza della ragazza, le sfregia la guancia con un coltello, pur pentendosene subito.

Atto secondo
Sono passati cinque mesi. Jenufa ha partorito il bambino che portava in grembo. Tutti al villaggio la credono a Vienna, ma in realtà la ragazza vive nascosta in casa della Kostelnicka, che ora medita su come evitarle l'onta di una maternità illegittima. Dopo aver somministrato a Jenufa un sonnifero, la matrigna riceve Steva. Vuole convincerlo a sposare la ragazza, ma questi confessa che con il volto sfregiato Jenufa non gli piace più. Si dice pronto a mantenere il figlio in segreto, ma non a riconoscerlo, tanto più che nel frattempo si è fidanzato con Karolka, la figlia del sindaco, e se ne va. Sopraggiunge poi Laca, profondamente pentito del suo gesto e sempre innamorato di Jenufa; la Kostelnicka gli rivela la verità, ma quando capisce che la presenza del figlio di Steva potrebbe impedire a Laca di sposare Jenufa, gli dice che il bambino è morto e poi lo allontana con un pretesto. Dopo una lacerante riflessione, la Kostelnicka decide di uccidere il bambino: lo avvolge in una coperta ed esce. Quando Jenufa si risveglia, scopre che il bambino non c'è più. Si illude che sia stato portato dal padre e prega per lui. Al suo ritorno, la Kostelnicka racconta alla figliastra che durante il sonno febbrile seguito alle fatiche del parto il bambino si è ammalato ed è morto; quindi, dato che Steva è ormai findazato con Karolka, la persuade ad accettare di sposare Laca. Questi ritorna per riaffermare il suo amore a Jenufa, mentre la Kostelnicka è assalita da cupi, ossessivi presentimenti di morte.

Atto terzo
Due mesi dopo. Nella casa della Kostelnicka fervono i preparativi per le nozze tra Jenufa e Laca, cui sono stati invitati anche Steva, la sua fidanzata, la famiglia del sindaco e altri del villaggio. La coppia s'inginocchia per ricevere la benedizione della vecchia Buryja, quindi s'appresta ad accogliere anche quella della Kostelnicka. In quel momento, tuttavia, dall'esterno si ode un tumulto di grida e rumori, di fronte al quale la matrigna di Jenufa indietreggia terrorizzata. Sotto il ghiaccio del torrente è stato rinvenuto il cadavere di un bambino, che la ragazza non tarda a riconosce come il suo. La folla vorrebbe linciare Jenufa, ma Laca la difende. A questo punto interviene la Kostelnicka, che nella costernazione generale discolpa la figliastra e confessa di essere l'unica l'autrice del delitto. Karolka riconosce in Steva il responsabile morale della tragedia e rompe il fidanzamento, mentre Jenufa capisce che la matrigna ha commesso l'infanticidio per amor suo e la perdona prima che venga consegnata alla giustizia (per essere sottoposta a un processo che, secondo le leggi imperiali dell'epoca, si sarebbe concluso con la condanna a morte). Alla fine, s'allontanano tutti tranne Jenufa e Laca. La ragazza invita il promesso sposo ad andarsene con gli altri, ma questi non l'abbandona, rinnovandole per l'ennesima volta il suo amore che ora Jenufa è pronta a ricambiare.

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

«Leggo molto più profondamente nell'animo di una persona di cui capisco la lingua attraverso la melodia delle parole»: in questa affermazione si condensa la cifra espressiva della terza opera teatrale di Janàček, Jenufa o, più correttamente, Její pastorkyna [La sua figliastra], capolavoro del realismo musicale del primo Novecento che l'autore poneva dolorosamente in relazione con la morte prematura dei suoi due figli Vladimír (1890) e Olga (1903), alla memoria della quale la partitura è dedicata. Lo stile musicale di Jenufa scaturisce infatti dallo studio che per tutta la sua vita Janàček dedicò alle inflessioni della lingua parlata cèca e al diagramma emozionale e psicologico di tali inflessioni: «studiando la relazione tra intonazione ed emozione, Janàček conseguì un'acutezza psicologica unica» (Milan Kundera).

La genesi dell'opera abbraccia un decennio. Nel 1890 si rappresenta a Praga il dramma naturalista di Gabriela Preissová Její pastorkyna, da cui tre anni dopo Janàček medita di trarre il soggetto per un'opera. Nel 1894 il compositore inizia a elaborarne il progetto, scrivendo altresì il pezzo sinfonico Zárlivost [Gelosia] concepito originariamente come introduzione. Il lavoro sulla partitura si concentra in due fasi separate da un intervallo di quattro anni, tra il 1895 e il 1897 (atto I) e poi tra il 1901 e il 1903 (atti II e III). Ma la storia dell'opera si prolunga ben al di là della prima rappresentazione, avvenuta al Teatro Nazionale di Brno il 21 gennaio 1904. Janàček aveva infatti offerto già nel 1903 la partitura al Teatro Nazionale di Praga, il cui direttore, Karel Kovarovic, l'aveva però rifiutata: in parte perché memore della critica sferzante a suo tempo riservata da Janàček alla sua opera Zenichové (1884), in parte per la modernità del linguaggio e per il forte accento nazionale - ossia moravo - del lavoro. Sarà soltanto il 26 maggio 1916 che, grazie alla mediazione della cantante Marie Calma-Veselá, l'opera andrà in scena a Praga sotto la direzione di Kovarovic, dopo essere stata comunque sottoposta a una pesantissima revisione, con tagli e riscritture, che l'autore si vide costretto ad accettare. Ben presto, l'opera nella versione praghese fu tradotta in tedesco da Max Brod (lo scrittore amico di Kafka) con il titolo Jenufa e rappresentata a Vienna (1918) e a Berlino (1924). Bisogna poi attendere gli anni Novanta perché sia pubblicata, a cura di Charles Mackerras e John Tyrrell, un'edizione che ricostruisce la versione originale di Brno (con riferimento allo spartito per canto e pianoforte edito da Janàček nel 1908).

Janàček utilizzò direttamente il testo in prosa del dramma (tagliandone circa un terzo e apportandovi interventi minimi). Il titolo è in dialetto moravo, così come molte espressioni idiomatiche del testo: il termine «pastorkyna» è ambiguo, perché significa genericamente «figlia non propria» e dunque può valere sia come «figliastra» sia come «figlia adottiva». Approvando la traduzione tedesca, Janàček insistette sulla prima accezione, che esprime meglio il rapporto, cruciale nell'opera, tra la Kostelnicka e Jenufa e oltretutto sottolinea l'importanza dei rapporti familiari per così dire obliqui che legano le tre generazioni di personaggi della vicenda (matrigna/figliastra, fratello/fratellastro e così via). D'altro canto, mentre il titolo originale pone al centro il personaggio della sagrestana (e matrigna), quello affermatosi con la traduzione tedesca concentra l'attenzione sulla ragazza (e figliastra).

Oltre che dallo studio delle inflessioni del linguaggio parlato, che si realizza sul piano compositivo in una flessibilissima declamazione melodica, governata anzitutto dal principio della ripetizione variata inteso a rappresentare gli stati e i processi della psicologia interiore dei personaggi, Janàček trae ispirazione dalla musica popolare della Moravia (tra l'altro, i quattro anni intercorsi tra le due fasi di composizione dell'opera furono impiegati anche per completare l'edizione Národní písne moravské v nove nasbírané [Nuova raccolta di canti popolari moravi], pubblicata nel 1901). Non si tratta tuttavia di un ricorso ad autentici materiali folklorici quanto piuttosto della distillazione personale di un linguaggio in stile popolare che utilizza intervalli e ritmi tipici della musica morava nonché gli antichi modi ecclesiastici nelle scene corali del primo e del terzo atto (rispettivamente l'arrivo dei coscritti e i preparativi delle nozze tra Jenufa e Laca) e nelle introduzioni degli ultimi due.

Al di là di questi elementi etnografici che contribuiscono a fissare l'ambientazione della vicenda, l'opera e la sua drammaturgia s'incentrano però sui destini individuali, sull'intreccio che li lega e sul processo psicologico che segna i tre personaggi principali, la Kostelnicka, Jenufa e Laca. Per questa ragione, la Kostelnicka è assolutamente sola nel suo sentire e nel suo agire e la scena che la vede protagonista è il grande monologo del II atto. Jenufa si divide invece tra l'espressione nel monologo (o nell'aria, come nel II atto) e i dialoghi con i suoi pretendenti e con la matrigna, mentre per Laca risultano decisivi i confronti con Jenufa (da ultimo, il duetto conclusivo che segna la consapevole maturazione morale dei due giovani). Quanto poi l'efficace pregnanza drammatica di Janàček sappia concentrarsi in gesti minimi, lo si coglie nella nota ripetuta dello xilofono, immagine del girare della ruota del mulino e simbolicamente del corso del destino, che dall'inizio ritorna in tutti gli snodi decisivi del I atto.

Cesare Fertonani

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Capolavoro assoluto del realismo slavo, Jenufa è l'opera teatrale di Janácek che ha conseguito il più ampio successo sulle scene nazionali ed europee. Il musicista moravo vi lavorò nel decennio 1894-1903, un periodo che venne funestato dalla morte dei suoi unici due figli: le date delle due morti (Vladimír nel 1890, Olga nel 1903) sembrano quasi incorniciare entro una luttuosa parentesi la stesura dell'opera. La lunga genesi è giustificata sia dall'intensa attività didattica del musicista, che gli permetteva di comporre solo a tempo perso, sia, soprattutto, dall'incubazione di un linguaggio nuovo e originale, che veniva cercato tra continui dubbi, ripensamenti e mancanza di conferme. Lo stile musicale di Jenufa è infatti il risultato dei lunghi studi che Janácek dedicò alle inflessioni della lingua parlata cèca: egli ascoltava la gente per le strade e nei mercati, come pure il canto degli uccelli e i rumori della natura e trascriveva sui suoi taccuini di appunti le note, le intensità e le durate che aveva ascoltato, aggiungendovi le sue osservazioni di psicologia interiore. Tornava così alle origini stesse del linguaggio musicale, le cui fonti erano da ricercare, secondo il suo punto di vista, nelle inflessioni irriflesse e quasi inconsce della parola parlata.

Eseguita nel 1904 in un teatrino di provincia, l'opera ha dovuto attendere dodici anni prima di offrirsi all'attenzione europea con l'esecuzione al Teatro Nazionale di Praga, con varianti all'orchestrazione realizzate in collaborazione con il direttore Karel Kovarovic. La fortuna di Jenufa è stata spesso messa in relazione con la coeva fioritura del verismo italiano. Ma il realismo popolare di Janácek ha basi diverse rispetto a quello di Mascagni o di Leoncavallo, e non solo per la musica, che parte da premesse assai più moderne e originali, ma anche nell'impianto drammatico del libretto, vicino piuttosto all'area del 'naturalismo' tedesco, e proiettata nella sfera di quella 'filosofia morale' tipica delle tradizioni culturali slave.

Va ricordato che dagli anni Ottanta si è ritornati alla versione originale dell'orchestrazione, e che nell'originale cèco l'opera si intitola ancora oggi Její pastorkyna (La sua figliastra), il che pone immediatamente la matrigna Kostelnicka al centro dell'azione; il titolo Jenufa si diffuse all'estero grazie alla traduzione tedesca di Max Brod, lo scrittore e giornalista nonché biografo di Franz Kafka e di Janácek.

La musica di Jenufa, assieme arcaica e moderna, folkloristica e autonoma, aggressiva e delicata, dipinge un affresco potente, in cui l'elemento folkloristico è solo una cornice, mentre l'opera vive assai più dell'elemento sociale e della caratterizzazione emotiva dei protagonisti. La melodia di Janácek spesso è tormentata e frammentaria come la parlata comune; procede per scatti, teneri indugi ed emozioni improvvise, in una discontinuità di pungente realismo. Sovente si rilevano temi musicali di carattere folkloristico: Janácek, come Bartók e come la precedente scuola nazionale russa, fu infatti un attento studioso della canzone popolare. Ma, a differenza dei compositori russi dell'Ottocento, non ha attinto a quel patrimonio per rielaborare temi preesistenti, ma ne ha scritti di originali, pur se dotati di movenze e di caratteri popolari. Il linguaggio armonico è assai poco tradizionale: sia perché si basa anche sulle scale modali tipiche del folklore, sia perché Janácek si serve di un certo accordo per rendere una determinata sfumatura drammaturgica ed emotiva, uscendo il più delle volte dagli schemi della tradizione. Ma è soprattutto l'incisività del discorso musicale nel suo complesso a colpire in Jenufa: l'uso di ostinati, incalzanti, diabolicamente fissi, come la nota ribattuta dello xilofono che collega le scene del primo atto ed è, nel contempo, simbolo dell'inesorabile scorrere del tempo e realistica immagine del moto perpetuo delle pale del mulino. La corrente della nervosa energia sinfonica di Jenufa rappresenta inoltre un superamento del sistema wagneriano dei Leitmotive e l'abbandono del contrappunto di matrice tedesca, ottenendo quell'indipendenza dei timbri cara a Debussy. Vi sono buoni motivi per ritenere che Jenufa martellò la mente del musicista in forma di caotico e affastellato flusso ritmato di voci sovrapposte, ricco di schegge verbali iterate: come un divisionistico gioco di specchi in cui si rifletteva distintamente un mondo sonoro reale, mutato in una visione deformata e ossessiva dagli artifici del comporre. Forse il realismo di Jenufa è così toccante anche perché narra, in forma d'incubo, una storia talmente archetipica da lasciar apparire in filigrana i contorni di una fiaba terrificante. Il sonnifero somministrato alla ragazza per decidere del suo destino e ucciderle il figlio pare la magica pozione delle fiabe: e nell'istante in cui Kostelnicka decide di uccidere il bambino, è la musica stessa a rendere quasi visibile la trasformazione di una donna in un'autentica strega indemoniata.


(1) Testo tratto dal programma di sala della rappresentazione del Teatro alla Scala,
Milano, Teatro alla Scala, 29 aprile 2007
(2) Testo tratto dal Dizionario dell'Opera 2008, a cura di Piero Gelli, Baldini Castoldi Dalai editore, Firenze, 2008


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Ultimo aggiornamento 8 luglio 2017