Z mrtvého domu (Da una casa di morti), I/11

Opera in tre atti

Musica: Leós Janàček (1854 - 1928)
Libretto: Leós Janàček dal romanzo di F. M. Dostoevskij

Ruoli:
Organico: 4 flauti (anche ottavini), 2 oboi, corno inglese, 3 clarinetti (3 anche clarinetto piccolo e clarinetto basso), 3 fagotti (3 anche controfagotto), 4 corni, 3 trombe, tromba bassa, 3 tromboni, tuba tenore, basso tuba, timpani, xilofono, campane, grancassa, piatti, spade, catene, sega, sonaglio, tamburo piccolo, tamburo militare, tam-tam, triangolo, pala e piccone, arpa, celesta, archi
Sulla scena: 3 tromboni, tuba tenore, basso tuba, grancassa, tamburo piccolo, triangolo
Composizione: Praga, 18 febbraio 1927 - 7 maggio 1928
Prima rappresentazione: Brno, Teatro Nazionale, 12 aprile 1930
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1930

Sinossi

Atto primo
In un campo di lavoro a Irtysch, in Siberia. Di prima mattina, nel cortile del campo, i prigionieri si stanno lavando sommariamente: alcuni litigano, altri stuzzicano un’aquila con le ali tarpate. Il grande e atteso avvenimento è l’arrivo di un nuovo detenuto da Pietroburgo, di nome Petrovic Gorjancikov; questi giunge ancora in abiti civili e viene presentato come un prigioniero politico. Neppure le urla di dolore del nuovo arrivato, cui vengono somministrate cento frustate, scuotono l’indifferenza dei compagni di sventura. Su ordine del comandante le guardie trascinano al lavoro i detenuti, e alcuni personaggi cominciano a presentarsi: Skuratov, ricordando i tempi in cui era libero a Mosca, si lancia in una danza selvaggia fino a cadere esausto al suolo; Luka racconta di aver pugnalato un maggiore tirannico e per questo di essere stato percosso quasi a morte. Il detenuto più anziano, che non distingue più la propria vita dalla morte, gli chiede se è poi morto davvero.

Atto secondo
La scena si sposta sulle rive dell’Irtysch; sullo sfondo la steppa dei kirghisi. Sono passati circa sei mesi e si festeggia la Pasqua: l’atmosfera fra i detenuti è serena e rallegrata dall’attesa per l’imminente rappresentazione teatrale prevista nei giorni festivi. Intanto Skuratov racconta la propria storia: in una città tedesca del Volga si era innamorato di una ragazza, Louise, che era stata però costretta a sposare un vecchio e odioso parente. Così si era presentato inaspettato alle nozze e lo aveva ucciso. Neppure questa storia commuove gli altri detenuti, che pensano piuttosto al teatro. Sulla scena infatti si recitano due pantomime. Nella prima Don Giovanni scaccia il diavolo che gli si aggira d’attorno e ordina a Leporello di far entrare Elvira che non ne vuol sapere. Si interpone un cavaliere, ma cade morto sul campo. Elvira intanto riesce a fuggire. Leporello, dopo aver rimosso il cadavere, riesce a portare al padrone la moglie del ciabattino, ma a Don Giovanni non piace e vien subito buttata fuori. Egli esige la moglie del pope e una cena. Quando cerca però di introdurla nella camera da letto vengono i diavoli a portarlo via; allora rimane Leporello a divertirsi con lei. Dopo le risate dei detenuti inizia la seconda pantomima. Questa volta la protagonista è la bella mugnaia che riceve i suoi molti amanti mentre il marito è in viaggio. Uno dopo l’altro gli uomini sono costretti a nascondersi perché arriva un nuovo pretendente alle grazie della padrona di casa. La ridda degli amanti finisce quando sopraggiunge il mugnaio che scopre i primi due e li getta fuori. Juan, rimasto nascosto, si trasforma in diavolo, uccide il marito e danza freneticamente con la mugnaia fino a quando cadono a terra morti. Calato il sipario i prigionieri tornano al campo. Il detenuto giovane rivolge la parola a una prosituta e, venuto a un diverbio con Petrovic, gli scaglia contro un samovar con il tè, ma invece di Petrovic colpisce gravemente Aljeja.

Atto terzo
In una stanza dell’ospedale del campo. Giacciono malati il detenuto vecchissimo, Aljeja, Luka, Šapkin e il folle Skuratov. Quando si fa buio e tutti dormono, Šiškov racconta la propria storia a Cerevin che lo sta vegliando. Anch’egli ha ucciso la donna che amava, Akulka, promessa sposa a Filka Morozov. Questi incassati i soldi della dote, aveva dichiarato di essere stato amante della ragazza e di preferire arruolarsi come soldato che sposarla. I genitori avevano picchiato Akulka e costretto Šiškov a sposarla. Durante la prima notte di matrimonio però, lo sposo aveva constatato la verginità della ragazza; dunque l’accusa di Filka era una calunnia. Anche lo sposo, sbeffeggiato dal rivale, batte l’innocente e silenziosa Akulka. Udita la confessione della fanciulla, che si dichiara ancora innamorata di chi l’aveva ingannata e abbandonata, Šiškov le ordina di seguirlo nel bosco e di pregare, e quindi la colpisce con un coltello. Durante il racconto Luka geme sempre più di dolore e muore allorché il suo racconto culmina nell’evocazione del momento in cui vibra la coltellata. Mentre sta morendo, Šiškov riconosce in Luka l’odiato Filka e lo maledice. Il comandante chiama Gorjancikov e gli comunica che la domanda di grazia inoltrata da sua madre è stata accolta: egli è libero. I detenuti inneggiano alla libertà e lasciano librarsi in cielo l’aquila. L’ordine urlato dalle guardie di mettersi in marcia annienta questo momento sognante di redenzione e i prigionieri ripiombano nella loro tetra vita quotidiana.

Guida all'ascolto (nota 1)

È l’ultima opera di Janácek, e venne concepita nella consapevolezza di essere giunto all’estrema impresa compositiva, come dimostra una lettera dell’ottobre 1927 a Kamila Stösslová. Dopo aver iniziato a comporre seguendo uno schizzo drammaturgico e dei frammenti in russo, il compositore approntò un libretto in cèco che contiene volutamente molti calchi da quella lingua; l’8 luglio 1928 terminò i primi due atti, ma il 12 agosto, alla sua morte, lasciò incompiuta soltanto la stesura in bella copia del terzo atto. Per la prima rappresentazione postuma il regista Otakar Zítek e il direttore d’orchestra Bretislav Bakala, affiancati dal compositore Osvald Chlubna, decisero di apportare alcuni cambiamenti a un’opera che dovette sembrare all’epoca assolutamente contraria a qualsiasi convenzione: il regista Zítek fece una nuova stesura del libretto; il finale pessimistico venne sostituito con un’apoteosi della libertà e si preferì un’esecuzione concertante, data la staticità della scena. Così rimaneggiata l’opera fu eseguita alcune volte in patria (Praga 1931, Ostrava 1932) e in Germania (Mannheim 1930, Oldenburg 1931, Berlino e Düsseldorf). Il clima politico tedesco decretò l’oblio dell’opera fino al ’58, quando venne messa in scena per la prima volta dopo la guerra a Praga in un’edizione rispettosa del libretto e del testo musicale di Janácek, voluta dal regista Jaroslav Vogel. Da questo momento in poi (archiviata la vecchia versione di Zítek, Bakala e Chlubna) si sono susseguiti allestimenti diversi in tutta Europa, fra i quali si ricorda quello del 1968 a Düsseldorf, direttore Bruno Maderna, e quello parigino del 1988 con la regia di Volker Schlöndorff.

Alla luce della storia, Da una casa di morti può apparire, al contempo, inconsapevole rappresentazione o allucinato presagio della condizione umana nell’universo dei campi di concentramento, che ha segnato milioni di destini umani nel nostro secolo. Da un punto di vista drammaturgico il soggetto dostoevskiano offrì a Janácek l’occasione di costruire un’opera che capovolge aspettative e convenzioni. È la staticità, il tragico ritorno dell’uguale in cui tutte le speranze di redenzione sono azzerate a formare la sostanza di un dramma in cui non si rappresentano azioni di sorta, fuorché quelle banali e quotidiane dei detenuti. Le gesta criminose e gli eventi notevoli, a parte le continue e assurde liti fra compagni di pena, esistono solo nell’universo fittizio del teatro nel teatro, in quello narrativo delle confidenze dei detenuti e in quello psichico del delirio. Il libretto di Janácek, che stravolge l’ordine e il significato degli episodi dell’originale, è costruito secondo un rigoroso principio simmetrico: il secondo atto fa da asse rispetto al primo e al terzo, accomunati da un’analoga atmosfera, costituendo da un lato una sorta di grande divertissement, dominato dall’idea del teatro nel teatro; dall’altro introduce il motivo-chiave della valenza negativa della passione amorosa. L’attrazione verso una donna appare da null’altro giustificata che dalla pulsione erotica, una forza devastante che non lascia alcun vincitore, né il folle Skuratov, né Šiškov, né Filka, tutti prigionieri dello stesso campo ai margini del mondo. La ricchissima trama di motivi simbolici, evidenziati da Janácek nel testo letterario – il motivo della nostalgia della libertà raffigurato dall’aquila, prima incapace di volare e poi libera nel cielo alla fine, quello del destino, della compassione cristiana per citare i più notevoli – trovano riscontro in un’analogo trattamento della scrittura musicale, tesa a rappresentare, in maniera idiomatica, l’intreccio dei temi letterari, servendosi spesso di citazioni dalle proprie opere, dall’incompiuto Concerto per violino (1927) ad alcuni passi e sonorità evocatrici di un’altra tra le sue maggiori opere degli ultimi anni, la Messa glagolitica (1926).

Michela Garda


(1) Testo tratto dal Dizionario dell'Opera 2008, a cura di Piero Gelli, Baldini Castoldi Dalai editore, Firenze, 2008


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Ultimo aggiornamento 5 gennaio 2019