Capriccio, VII/12

per pianoforte (per la mano sinistra) e fiati

Musica: Leós Janàček (1854 - 1928)
  1. Allegro
  2. Adagio
  3. Allegretto
  4. Andante
Organico: pianoforte, flauto (anche ottavino), 2 trombe, 3 tromboni, tuba tenore
Composizione: aprile - 30 ottobre 1926
Prima esecuzione: Praga, Smetana-Saal, 2 marzo 1928
Edizione: Edizioni di Stato, Praga, 1953
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

A differenza del Concertino, il Capriccio per pianoforte (mano sinistra), ottavino, flauto, due trombe, tre tromboni e tuba si rivela meno complesso e difficile dal punto di vista melodico e armonico, anche se l'orchestrazione degli strumenti a fiato produce effetti insoliti e bizzarri e la parte pianistica è piena di insidie e di sortite solistiche. Il Capriccio fu scritto tra i mesi di giugno e di ottobre del 1926 per il pianista Otakar Hollmann, il quale era rimasto ferito durante la prima guerra mondiale e aveva la mano destra paralizzata. Fu lo stesso Hollmann a convincere Janàcek, impegnato allora nella composizione della Messa glagolitica, a scrivere questo pezzo, eseguito per la prima volta dal dedicatario il 2 marzo 1928 nella Sala Smetana del Palazzo municipale di Praga, sotto la direzione di Jaroslav Ridky. L'autore era presente e fu l'ultima apparizione in un concerto di musiche proprie, prima di morire il 12 agosto successivo durante le vacanze estive a Ostrava. Senza dubbio il Capriccio (in calce alla partitura è indicata una durata di circa 17 minuti) è tra i lavori più geniali ed estrosi della personalità janacekiana con quei ritmi aguzzi e vagamente stravinskiani e quegli scoppi luminosi di suoni che emergono con naturale spontaneità dalla singolare struttura strumentale. Il vivacissimo gioco timbrico, che è alla base della composizione, si mostra in modo prepotente sin dall'Allegro iniziale in 2/4, dove ogni suono si inserisce come un tassello nel variopinto mosaico armonico. Di straordinaria forza espressiva è l'Adagio, avviato da un tema del pianoforte dalle delicate inflessioni; tutto si agita e si coagula intorno a questo nucleo lirico, riproposto alla fine dallo strumento solista. Nell'Allegretto, caratterizzato da guizzanti idee melodiche e ritmiche, si sbizzarrisce l'inventiva del compositore, che poi ritrova i suoi momenti distesi e cantabili nell'Andante conclusivo, prima di esplodere con pienezza di suoni in un tempo maestoso e grave.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Collocato tra i due più importanti lavori sinfonici e corali di grandi dimensioni della maturità, la Sinfonietta da un lato, la Messa glagolitica dall'altro, il Capriccio per pianoforte (mano sinistra) e insieme di fiati è una pagina d'occasione, scritta tra il giugno e l'ottobre del 1926 su richiesta del pianista Otakar Hollmann, che era rimasto paralizzato alla mano destra da una ferita ricevuta durante la Prima guerra mondiale. Janàček, che in un primo momento aveva rifiutato, si decise ad accettare l'invito dopo una corrispondenza con Hollmann, che gli descriveva lo stato penoso della sua situazione: non per nulla il titolo originariamente previsto era Vzdor (Dispetto), quasi a voler manifestare l'indignazione per l'ingiustizia di uno dei tanti casi di guerra che aveva colpito un artista.

Il titolo definitivo Capriccio non deve far pensare a un pezzo bizzarro e stravagante, per quanto la scelta dell'organico che fa corona al pianoforte - ottavino, flauto, due trombe, tre tromboni e tuba tenore - non sia dei più consueti. Si tratta invece di un pezzo meditato e rifinito, anche se non privo di ascendenti. Vi si riscontra da un lato la parentela con le squillanti sonorità bandistiche della Sinfonietta, dall'altro una certa affinità per contrasto con le atmosfere sbrigliate e capricciose del Concertino, di cui può costituire un corrispettivo ribaltato però sul versante grave. Anche qui il pianoforte - che nella scrittura per la sola mano sinistra presenta ardue difficoltà all'esecutore - funge da tessuto connettivo delle diverse idee tematiche e perfino da equilibratore dei diversi pesi timbrici, ergendosi a tratti a protagonista quasi solitario, con un carattere eroico, di sfida.

Dal punto di vista del genere, siamo di fronte a un vero e proprio Concerto, concentrato nelle dimensioni ma di grande impegno formale. I quattro movimenti, articolati secondo lo schema classico, sembrano privilegiare l'invenzione di sempre nuove combinazioni all'interno dell'organico prescelto, subordinandovi la stessa caratterizzazione individuale dei temi. Passi ostinati, nei quali il ritmo ha un rilievo marcato, si alternano a eloquenti perorazioni e cadenze, armonicamente sospese; confermando, ma in modo meno drastico, quella tendenza a rapidi sbalzi di umore che è una delle caratteristiche più ossessive della musica di Janàček. Ciò si ripercuote anche sul clima generale dell'opera, ora triste e velato, ora aperto e luminoso, ora pesante, ora lieve (a ciò contribuiscono naturalmente le peculiarità degli strumenti solisticamente impiegati e degli insiemi); un clima che finisce per evocare, quasi suo malgrado, non soltanto minacciose fanfare di guerra ma anche festose atmosfere paesane, dove le bande suonino per danze e feste popolari, allegramente, non dispensando morte e ferite, ma spensieratezza e speranza.

Sergio Sablich

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Il Capriccio "Vzdor" (Sfida), opera ricca di sollecitazioni, costituiva senz'altro una "sfida" compositiva - come testimoniato dall'autore stesso: e questo sia per la difficoltà tecnica oggettiva di rendere con efficacia una partitura pianistica in cui il solista con una mano si confronta al gruppo, sia per il particolarissimo ensemble, a prima vista del tutto sproporzionato (un basso tuba, tre tromboni e due trombe che si confrontano con un flauto-ottavino e appunto, il solista). Un'altra sfida era quella lanciata contro l'inutilità della guerra, con la musica che, in un certo senso, ne porta i segni devastanti, ma ne vuole contenere a un tempo i germi della sua stessa risoluzione. E "sfida" ancora era quella che poneva con una scrittura originalissima rispetto ai modelli dominanti, con strutture e forme frutto maturo della propria cifra stilistica. Janàcek scrive orgogliosamente "a modo suo", presentando blocchi architettonici come tessere di un mosaico, utilizzando riferimenti e richiami tematici spesso variati ed elaborati, sopra materiale spesso desunto dalla tradizione popolare morava. Si tratta di vere "storie itineranti", definite da una musica ribollente e auto generativa.

Così eccoci dipinti, scheggiati, sussurrati, quadri che descrivono l'orrore della guerra con toni ironici, beffardi, sarcastici. Ma ci sono anche immagini salvifiche, temi dolci, aurorali affreschi armonici che tracciano una strada di rinascita e speranza. Il tema del primo tempo del Capriccio, Allegro apre con scenari dall'incedere livido, tormentato, diremmo aggrovigliato, oppresso da un peso; gli ottoni stendono drappi sonori fatti di cluster spezzati e sfilacciati che fanno presagire un lugubre tema di marcia funebre; claustrali sonorità si alternano a un motivo claudicante del piano che allude a un fantasmatico riemergere dalle nebbie, Colori meno grevi si alternano, lasciando presagire orizzonti meno foschi ed è il pianoforte ad affermarli. Dentro a un crogiolo ribollente che fa della rielaborazione e dell'imitazione il suo centro, tornano e si rigenerano le vecchie figure, forse proprio i timori e le paure della guerra anteposti a immagini trasparenti che ancora faticano ad affermarsi. Non passa inosservato come il flauto, lo strumento dal timbro così distante dagli ottoni, non compaia, rimanendo come sotterrato, mentre il pianoforte non riesca tematicamente a prevalere, ricacciato indietro dalle ombre.

Nell'Adagio siamo colpiti dal tema lirico del pianoforte, un recitativo che si snoda sopra i fili di una melodia estatica, mentre il basso tuba fa sentire un motivo nodoso di quattro note che fa da contraltare. Ancora luce e buio, cieli splendenti e notti tempestose stanno per confrontarsi nella meravigliosa battaglia musicale allestita dalla fantasia di Janàcek. Il tema di quattro note si invorticherà divenendo un peso insostenibile e trascinando persino l'alter ego pianoforte in un gorgo profondo. Eccolo allora ribollire in una danza senza freni; solo talvolta il motivo "selvaggio" di quattro note, che ormai pare aver preso il sopravvento, si presenta edulcorato; più spesso è pesante e pare vincere nel suo travaglioso sommergere. Poco dopo però succede qualcosa di imprevisto: il tema di quattro note è ripreso dal flauto, lo strumento sinora "invisibile", che lo intona col suo soffio, ammorbidendolo in una frase melodica. Il piano commenta come conducendolo per mano. Anche gli ottoni, solitamente così severi, paiono ora trasformati, quasi domati dalla novità e cantano in modo poetico l'antica melodia abbellita dal recitativo dolce del piano. Torneranno sì i rissosi, icastici richiami, ancora sullo stesso tema, ma per poco, rintuzzati dai cristallini rintocchi del tema solitario. L'antica storia truce di guerra e scontri suggerisce così un cambiamento.

Quando giunge l'Allegretto il clima è già diverso. Il tema dello scherzo è un'ancheggiante unità intonata dalla tromba sulle armonie divertite dei tromboni. Il pianoforte può cantare le sue cristalline melodie senza essere interrotto o piegato dai fiati, la tromba interagisce sopra disimpegnati incisi. E bello è il dialogo imitativo a intreccio tra tromba, tromboni e basso tuba che creano una fanfara deliziosa sopra un tessuto polifonico echeggiante di iridescenti riverberi. Prevalgono i toni dalle tinte bianche e quando si sente l'ottavino si crea un gioco di specchi sonori tra strumenti che si accodano a imitarlo intrecciando gioiosamente le voci. Con la ripresa del tema dello scherzo nasce un intenso dialogo in cui emerge sempre più svettante il tema del flauto-ottavino, che conquista un'enfatizzata preminenza affermata da ridondanti imitazioni degli altri strumenti.

Nel Finale (Andante) è emblematicamente il flauto che per primo dischiude il suo stelo melodico: darà così il via a una serie rigogliosa di variazioni ramificate. La traccia pare segnata poiché anche tematicamente, insieme al piano, ha strategicamente la preminenza. Varianti continue del tema, ora singole e leggere, ora massive, si inanellano l'una dietro l'altra, garantite anche dal sostegno degli ottoni che sono ora al servizio di un messaggio "pacificato" dentro timbri chiari, trasparenti. Ombreggiature e chiaroscuri compaiono ma tendono a svanire come ombre sfuggenti. Dopo una rapsodica cadenza del piano e l'ennesima ripresa variata del tema nel Meno mosso vi è la sorprendente citazione del tema del III movimento, lo scherzo, che congiunge e coibenta il materiale nel punto nodale del Capriccio dove viene affermata una svolta. Questa scelta di Janàcek consolida l'architettura dandole solidità e continuità rispetto ai temi precedenti, prima che ritorni il tema del flauto a dominare la scena e a cristallizzare, nell'epilogo del Grave (Coda), attraverso una sua poeticissima e solenne versione che suona come rallentata e sospesa.

Marino Mora


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 29 ottobre 1978
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 23 aprile 1999
(3) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 278 della rivista Amadeus


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Ultimo aggiornamento 3 febbraio 2017