Quartetto per archi n. 2


Musica: Charles Ives (1874 - 1954)
  1. Discussions - Andante moderato
  2. Arguments - Allegro con spirito
  3. The Call of the Mountains - Adagio
Organico: 2 violini, viola, violoncello
Composizione: 1911 - 1913
Prima esecuzione: New York, McMillin Theatre, 11 maggio 1946
Edizione: Peer International, New York, 1954
Guida all'ascolto (nota 1)

La figura di Ives non è certo delle più semplici da identificare perché in qualche caso le sue musiche anticipano i possibili punti di riferimento. «Ricorrono più di frequente i nomi di Schönberg per quanto riguarda l'uso dei dodici suoni, e per gli sbalzi di ottava della melodia; Stravinsky per l'asimmetria e la varietà ritmica; Hindemith per la concezione a blocchi della composizione; Milhaud per la politonalità e Bartók "per la formazione di strati sonori percepibili come dati materici o timbrici". Non manca neppure chi fa i nomi di Webern per l'accuratezza con cui sono indicati i segni espressivi e dinamici e per la discontinuità metrica che talora crea effetti puntillistici; e ancora Messiaen per la concezione del contrappunto ritmico e perfino Stockhausen per gli effetti spaziali del suono» (Gianfranco Vinay). Non si pensi ad un'antologia di stili quanto ad una sovrapposizione sonora che non privilegia nessun percorso speciale, una mancanza di coerenza che non significa "confusione" ma solo libertà totale, anarchia estetica. Tutti i musicisti europei hanno inventato o aderito a linguaggi rimanendone spesso prigionieri e seguendo comunque un'idea unitaria che al massimo prevede delle fasi. Per Ives la musica è assolutamente senza regole, un atteggiamento che può disorientare o addirittura irritare ma che sembra naturale in un personaggio cresciuto nella musica (il padre era l'animatore musicale della cittadina e non si facevano distinzioni tra colto e popolare, musica da chiesa e pezzi per banda, passato e presente). A tredici anni Ives partecipa alle riunioni cittadine come organista e scrive i primi pezzi con un atteggiamento artigianale; non è strano che dal suo laboratorio, accanto alle nuove idee, riemergessero continuamente vecchi motivi, una modalità di composizione rintracciabile a livello più ampio anche nel catalogo generale delle sue opere. In queste, senza soluzione di continuità, si susseguono pagine tradizionali accanto a punte di ardito sperimentalismo nel campo della atonalità e, in generale, nelle tecniche d'avanguardia. Fortunatamente Ives era scevro da qualsiasi desiderio di "originalità" che aveva assillato il romanticismo e si rese subito conto che la corrente di ispirazione europea (con cui era entrato in contatto all'università di Yale) legata alla figura di Brahms, era per lui troppo poco americana.

Coerentemente, anche nella vita fece delle scelte diverse da quelle degli artisti d'oltre oceano: divenne un assicuratore che nei ritagli di tempo, lavorando appartato rispetto alla vita musicale coeva, creò un linguaggio molto personale in grado di invertire la tendenza eurocentrica della musica americana. Anche se isolato, Ives era destinato ad interpretare il ruolo di «patriarca senza una discendenza diretta». Nel 1918 una grave crisi di salute lo portò a concentrarsi di più sull'attività artistica e dal 1932 iniziò una vera e propria "Ives-Renaissance" con esecuzioni nelle sale da concerto che sancirono il riconoscimento della sua attività come genuinamente americana.

Due elementi essenziali si individuano nello stile originale di Ives: la sovrapposizione di linee musicali indipendenti e le citazioni, fattori a loro volta sovrapponibili fino ad arrivare ad un corto circuito dei materiali. Tutto si mescola, tonalità e atonalità, uso di intervalli particolari, ritmi asimmetrici, ed è interessante la convivenza tra l'idioma tradizionale e lo sperimentalismo integrale senza che ciò infici la struttura portante del pezzo. Rispetto alla musica sinfonica o pianistica, quella da camera (specie i due quartetti) risente maggiormente delle ascendenze ipercolte, e se lo String Quartet n. 1 è di impianto brahmsiano, il n. 2 rimanda ai quartetti centrali di Schönberg e Bartók. Ciò non significa che Ives si sia ispirato ai due grandi compositori del Novecento in quanto il n. 2, ad esempio, fu composto tra il 1907-13, prima di quelli di Bartók: quello che colpisce (e dovrebbe stimolare riflessioni critiche) è proprio che ai due lati dell'oceano vi fosse un pensiero comune anche se con direzioni e substrati diversi. Forse la musica di Ives meriterebbe una maggior diffusione ed esecuzioni come quella odierna offrono l'opportunità di ridimensionare una certa presunzione, non tanto dei compositori quanto dei critici nostrani.

Chi ricordi la definizione goethiana del quartetto («un discorso tra persone ragionevoli») ne sentirà una versione "americana", decisamente più moderna; per Ives gli strumentisti diventano «quattro uomini che conversano, discutono, parlano di politica si azzuffano, si stringono le mani, tacciono e vanno in montagna ad ammirare il firmamento». Questo si traduce in un uso individualistico ma democratico degli strumenti, protagonisti di ruoli ben identificabili e separati, raramente intrecciati in polifonie di stretta osservanza colta. Il primo e secondo movimento (Discussions e Arguments-Dispute) risultano più familiari per le atmosfere che rimandano a Schönberg e Bartók; il terzo (The Call of the Mountains) è invece tipicamente ivesiano per la sovrapposizione libera di materiali eterogenei come ad esempio le note del Big-Ben in un registro acutissimo del primo violino accompagnate dagli ostinati degli altri strumenti. La natura montana che dovrebbe evocare la pace della natura si contamina con una realtà fonica destrutturante e certamente poco rassicurante per orecchie abituate forse alla atonalità ma non a quell'anarchia dei suoni che ha in John Cage il suo massimo poeta.

Fabrizio Scipioni


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 3 maggio 1998


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Ultimo aggiornamento 2 marzo 2016