Presa di mezzo tra le più famose e più frequentemente eseguite sorelle, la Missa in angustiis (altrimenti nota come Nelson-Messe) e la Missa solemnis in si bemolle maggiore (detta anche Schöpfungs Messe), la nostra Theresien-Messe (anch'essa col secondo appellativo di Hermenegild-Messe, e vedremo perché), del 1799, ha sortito ingiustificatamente una minore fortuna: come talora succede a una ragazza niente male (non ce ne vogliano il buon Dio e papà Haydn per questo paragone non troppo compunto) che rimanga priva di corteggiatori a causa dell'invadente concorrenza di sorelle troppo belle e disinvolte. Anche il nomignolo della nostra Messa è velato da equivoci: si crede infatti comunemente che la Teresa alla quale essa s'intitola sia la grande Maria Teresa sacra romana imperatrice, al tempo della composizione della Messa felicemente passata a miglior vita (1780) da ormai diciannove anni. Si tratta invece della più modesta Maria Teresa, consorte dell'imperatore Francesco I; anche se in realtà, la vera dedicataria di questa come di tutte le altre Messe composte da Haydn dal 1795 in poi fu la bella principessa Marie Hermenegild Esterhàzy nata Liechtenstein, moglie di Nicolaus II, il quale (o gran virtù delli principi antiqui!) aveva mantenuto titolo e appannaggi al suo ex Kapellmeister di casa, divenuto ormai troppo grande per il feudo di Esterhàzy, con solo obbligo «morale» di scrivergli ogni anno una messa nella ricorrenza del giorno onomastico della consorte.
Composta su misura per il modesto organico della cappella privata degli Esterhàzy, la partitura della Theresien-Messe non si differenzia sostanzialmente da quella delle consorelle, constando di due clarinetti, un fagotto, due trombe, timpani, archi ed organo, oltre al quartetto dei soli e al coro. La struttura generale e particolare della composizione è quella della tradizionale messa concertata di matrice barocca, decantata attraverso lo stile dell'ultimo Haydn. L'idea sinfonica è la vera sostanza del discorso musicale e lo sostiene e giustifica mediante il sottile lavorio di un'eleborazione tematica onnipresente quanto magistralmente dissimulata. L'arte suprema haydniana di «risparmiare le idee» (come dirà acutamente Gaetano Donizetti una trentina, d'anni dopo, a proposito dei Quartetti, da lui studiatissimi e ammiratissimi) rifulge al paziente analizzatore di questa mirabile partitura, autentica gemma del Classicismo per l'escavo sistematico delle infinite possibilità insite nel più apparentemente modesto elemento tematico e per la tendenza a irradiare tali possibilità non che al singolo brano, alla struttura dell'intera composizione. In altre parole, quell'anelito all'unità tematica che negli ultimi Quartetti tramuta i tempi in forma di sonata o di rondò in gittate dalla sottile ma ferrea compattezza inventiva, si riscontra, in più vaste proporzioni ma con non minore coerenza, nelle architetture delle cinque parti dell'Ordinarium Missae, collegate intimamente mediante l'elaborazione di poche idee fondamentali e ricorrenti. Altra caratteristica comune allo stile sacro dell'ultimo Haydn (accolta poi da Beethoven, Cherubini e Schubert) è la limitazione dell'impiego dei solisti vocali, privati - per lo più - degli ampi brani, arie o ariosi duetti, ecc. tipici della messa concertata barocca e ancora cari al Mozart conservatore della grande Messa in do minore, e confinati a brevi ma efficaci interventi in contrastante alternanza col coro.
Il Kyrie s'apre con un semplice inciso di un severo incedere quasi cherubiniano (la croma, puntata ricorrente infonde al pezzo un ritmo di marcia idealizzata), destinato a fare da ossatura all'intero arco del discorso, spezzato a metà dal fluido intrecciarsi di una fuga corale sul «Christe». La tonalità fondamentale di si bemolle maggiore viene mantenuta nel Gloria, come del resto in quasi tutti gli altri brani della Messa: il genere sacro non stimolava evidentemente Haydn a quelle geniali e talora (per i tempi) avventate esplorazioni nella foresta vergine delle inedite relazioni fra toni lontani, tentate nel genere cameristico. Un brillante inizio in ritmo ternario e per scansioni corali generalmente omofone è seguito dal «Gratias» che fa corpo col «Qui tollis» secondo un procedimento abbastanza frequente nelle Messe haydniane. Le linee melodiche, inizialmente calme e spaziose, del quartetto solistico via via incupiscono armonicamente fino a sfociare nel «Qui tollis» corale, su un agitato accompagnamento di terzine. Dal «Quoniam» alla conclusione del Gloria prevalgono i toni festosi dell'inizio, non senza lo sprazzo polifonico finale, qui contenuto in un breve ma suggestivo intreccio melismatico sull'«Amen».
Come in quasi tutte le altre Messe, i tratti conservatori dello stile sacro haydniano paiono condensarsi nella prima parte del Credo fino all'«Et incarnatus». Sotto la declamazione prevalentemente omoritmica, con brevi accenni imitativi, del coro, si snoda l'accompagnamento degli archi costituito da un disegno in quartine di semicrome, mutevole nei valori intervallari, non in quelli ritmici, regolati a piombo sulla rigida scansione di un basso, più che mai «continuo». Sono rigidezze arcaiche che si disciolgono solo a contatto con l'accorata soavità dell'«Et Incarnatus» in si bemolle minore, basato su un disegno orchestrale che ricorda, nelle grandi linee, quello del Kyrie. Nell'«Et resurrexit» ritornano, accentuandosi, i già sopra menzionati arcaismi; ma, per quello spirito del contrasto tanto innato in Haydn, ecco il Credo inopinatamente concludersi con una splendida e rara fuga tonale nell'altrettanto infrequente ritmo di sei ottavi, dall'effetto irresistibilmente trascinante.
Una sostanziale unità inventiva accomuna, pur nelle differenze ritmica e tonale, Sanctus e Benedictus: sono le parti della Messa che maggiormente si affidano al fascino di una cantabilità vocalistica tornita, certo, con cura magistrale, e tuttavia sensibilmente inguainata in quella patina strumentale che la sottrae alla molle sensualità degli Italiani (per tacere del confronto con Mozart), rendendone evidente la parentela con quella di Beethoven, cultore tanto più riottoso e splendidamente faticato dell'amato-odiato medium espressivo costituito dalla voce umana. Un possente unisono corale e orchestrale apre l'Agnus Dei e le tre invocazioni, collegate da bellissimi raccordi strumentali, sembrano dilatare ad eco il contenuto pathos di questa forte pagina. Nel «Dona nobis» conclusivo, ricco di richiami tematici - pur nella sua relativa brevità -, col resto della Messa, il gioviale ottimismo haydniano ha il definitivo sopravvento: in laetitia, come prescritto, il vecchio patriarca della, musica viennese si congeda dal buon Dio (nella ferma certezza, s'intende, di rincontrarlo presto e per sempre) tra rulli di timpani e giubilose imitazioni corali.
Giovanni Carli Ballola