Sonata in do maggiore, Hob:XVI:50


Musica: Franz Joseph Haydn (1732 - 1809)
  1. Allegro
  2. Adagio (fa maggiore)
  3. Allegro molto
Organico: clavicembalo o pianoforte solo
Composizione: 1794 - 1795
Edizione: Caulfield, Londra, ca. 1800
Dedica: a Teresa Jansen-Bartolozzi
Guida all'ascolto (nota 1)

La Sonata, in do magiare, cinquantesima del catalogo Hoboken, fu composta da Haydn a Londra nel 1794 e, con le Sonate n. 51 in re maggiore e n. 52 in mi bemolle maggiore, rappresenta la sua ultima fatica nel campo della Sonata pianistica. Dopo i primi lavori denominati perlopiù con i termini di Partita o Divertimento e destinati al clavicembalo, Haydn aveva scoperto le potenzialità del nuovo pianoforte a martelli, l'Hammerklavier, con la Sonata in do minore del 1771, opera ben degna di figurare accanto alle Sinfonie e ai Quartetti del periodo "Sturm und Drang", ma che non sembra gettare le basi di una vigorosa fioritura, almeno a giudicare da lavori successivi come le Sei Sonate pubblicate da Artaria nel 1780.

Si deve quindi alla conoscenza di un'ottima pianista, nella fattispecie Therese Jansen Bartolozzi, se l'interesse di Haydn per il pianoforte si riaccende quasi improvvisamente durante il secondo soggiorno londinese. Il nuovo ambiente in cui egli opera in due distinti periodi fra il 1791 e il 1795, dopo il distacco dal rifugio dorato della cappella Esterhàzy, era forse il più vivace e dinamico d'Europa. Accanto all'antica aristocrazia veniva crescendo un ceto borghese sempre più vasto e desideroso di nobilitarsi. La vita musicale intensa e varia - e basti citare le grandi celebrazioni händeliane, i Concerti Salomon, i Professional Concerts di Clementi - era l'aspetto più vistoso di una vasta rete di interessi incentrati sulla musica che comprendeva editori, artigiani e costruttori di strumenti, compositori-esecutori e un gran numero di dilettanti. A Londra era nato il pianoforte moderno, quello costruito dal John Broadwood a partire dal 1780 e di cui Muzio Clementi con tutta la sua corte di allievi e imitatori era il dominatore incontrastato.

Non c'è da stupirsi quindi se il maturo compositore, a cui bisogna dare atto di una prodigiosa capacità di rinnovamento, attraversi una seconda giovinezza, una fase di eccezionale vigore creativo, che ha fatto accostare la produzione degli anni londinesi alle opere "Sturm und Drang" dei primi anni Settanta.

Le ultime tre Sonate pianistiche, meno note ma non meno significative delle coeve Sinfonie e degli ultimi Trii, ci appaiono come il frutto di un compositore che domina sovranamente la forma al punto da concedersi sperimentalismi come l'accostamento di tonalità lontanissime (mi bemolle maggiore - mi maggiore) nei primi due movimenti dell'ultima Sonata o l'uso di una singolare forma contratta nella Sonata in re.

La Sonata in do maggiore consta di tre movimenti, il primo dei quali, un Allegro in tempo ordinario, è giustamente considerato «un meraviglioso esempio di magistero strutturale» (J. P. Larsen). Haydn sottrae peso, alleggerisce e assottiglia il materiale, fa scaturire tutto da un tema - le tre note in "staccato" della triade - che non è un vero tema, ma la scintilla che mette in moto un meccanismo di precisione e fantasia. Questa leggerezza del punto di partenza gli permette poi, nello sviluppo, di avventurarsi nei magici territori dell'armonia con una serie di fascinose modulazioni. Non ancora del tutto pago di quanto fatto Haydn prescrive nella ripresa quattro battute in pp "open pedal" con l'effetto di carillon e non poche conseguenze sul futuro romantico e brahmsiano del pianoforte.

L'Adagio, di cui esiste anche una seconda versione stampata da Artaria a Vienna nel 1794, è un esempio di ampia melodia fiorita disposta in una semplice struttura bipartita. Il giovane Beethoven autore delle tre Sonate op. 2 non rimase certo indifferente di fronte a questa pagina così ricca di chiaroscuri.

Meno convincente dei due movimenti precedenti, il finale, Allegro molto, è una prova ancora più radicale del "minimalismo" haydniano. Il piccolo tema brioso, continuamente inframmezzato da pause e corone e saggiato in diverse tonalità, sembra alieno da elaborazioni e permane con la sua icastica e quasi beffarda semplicità nel corso dell'intero movimento.

Giulio d'Amore


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 15 novembre 1963


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Ultimo aggiornamento 18 maggio 2012