La Missa Cellensis, detta impropriamente Missa Sancte Ceciliae o Cäcilienmesse, è la prima grande composizione sacra di Haydn, scritta nei primi anni della sua permanenza ad Eisenstadt, la splendida residenza a sud-est di Vienna dei principi Esterhàzy. Alle dipendenze di questi nobili ungheresi amanti delle arti, il compositore doveva rimanere legato complessivamente per quasi un trentennio, dal 1761 fino alla morte del principe Nikolaus Esterhàzy nel 1790. Nel primo periodo del servizio presso gli Esterhàzy Haydn ricoprì la carica di vice-maestro di cappella e poi - dopo la morte, avvenuta nel 1766, del vecchio compositore Joseph Gregor Werner, da lungo tempo dipendente dei principi - ebbe compiutamente pieni poteri su tutta la gestione della intensa e fertilissima vita musicale della corte principesca.
Il principe Paul Anton e, dopo la scomparsa di questi nel 1762, il principe Nikolaus, mantenevano un'orchestra di corte composta da solisti selezionati personalmente dal vice maestro di cappella, cui si aggiunsero in seguito una compagnia di attori e una troupe operistica. Nessuno sforzo era risparmiato per promuovere l'attività musicale, sia perché questa si inseriva in un complessivo programma di sfarzo mecenatesco, sia perché corrispondeva a una sincera passione dei principi. Date queste straordinarie condizioni di lavoro, Hadyn ebbe modo di applicare il proprio ingegno a tutti i principali campi compositivi, dal teatro d'opera, alla sinfonia, alla musica da camera, senza però poter accettare commissioni da altri soggetti.
Proprio nel campo della musica sacra, tuttavia, che suscitava un interesse assai limitato negli Esterhàzy, Haydn ebbe il permesso di creare dei lavori per committenti diversi. Nacquero così partiture come la Missa Cellensis (1766), lo Stabat Mater (1767), la cantata Applausus (1768) e l'oratorio Il ritorno di Tobia (1774-75), tutte di grande impegno. Fra queste, la Missa Cellensis è cronologicamente la prima e mostra, nelle sue grandi dimensioni e nelle sue ambizioni, il desiderio di offrire veramente un risultato personale e di alta qualità nell'ambito sacro.
Tuttavia non chiare sono le circostanze della genesi dell'opera, che ci è pervenuta attraverso due fonti principali (oltre ad alcuni altri frammenti), un manoscritto tardo e non autografo, ma completo, e una parte della partitura autografa (il Kyrie), ritrovata in tempi moderni. Il tardo manoscritto, conservato nella Biblioteca Nazionale Austriaca, reca l'intestazione Missa Sanctae Ceciliae, che si riferisce alla santa patrona della musica e che deve essere considerato un nome apocrifo, attribuito da qualche copista ottocentesco. L'autografo parziale, invece, scoperto recentemente in Romania, reca sul frontespizio l'intestazione Missa Cellensis/in honorem Beatissimae Virginis Mariae/dal giuseppe Haydn mpria [manupropria]/766.
Il nome Cellensis si riferisce a Cella, la città della Stiria nella quale si trova il santuario di Mariazell, meta all'epoca di un vasto flusso di pellegrinaggio al quale non si sottrasse, negli anni Cinquanta del secolo, lo stesso Haydn. Con il monastero benedettino nutrivano stretti legami gli Esterhàzy; e tuttavia è probabile che la Missa Cellensis non sia stata scritta direttamente per il monastero, dove mancavano strutture musicali adeguate, ma piuttosto per una delle numerose cappelle viennesi intitolate a Mariazell. Il nome di Cecilia, peraltro, ancorché apocrifo, continua ad essere usato per distinguere questa partitura da un'altra Missa Cellensis del 1782, detta Mariazeller.
Quanto alla data del 1766, se la sua indicazione sul Kyrie autografo ha consentito una retrodatazione della partitura nel suo complesso rispetto alle datazioni, decisamente più tarde, che erano state proposte in precedenza, essa pure non ha fugato i dubbi sulla concezione unitaria dell'opera. Altri frammenti autografi (del Benedictus e del Dona nobis pacem, conservati ad Eisenstadt), infatti, sono ragionevolmente databili intorno al 1770; inoltre la inusuale differenza di dimensioni del Gloria (821 battute) rispetto al Credo (386 battute) suggerisce la creazione di queste sezioni in momenti differenti. Forse, secondo una suggestiva ipotesi, Haydn fu costretto a riscrivere parte della Messa in seguito al disastroso incendio che, nel 1768, distrusse parte dei suoi manoscritti.
Ad ogni modo queste considerazioni nulla sottraggono all'importanza del lavoro, che vede Haydn per la prima volta impegnato in una composizione sacra di vasto raggio, per intendere la quale occorre tenere presenti, da una parte, il rispetto di consolidati stilemi della musica sacra cattolica e, dall'altra, l'approccio razionale e sereno di Haydn alla religiosità. La Missa Sanctae Ceciliae, preceduta nel catalogo sacro di Haydn da una Missa brevis del 1749/50, appartiene a tipo della messa-cantata, in cui ogni parte dell' ordinarium Missae (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Benedictus, Agnus Dei) viene divisa al proprio interno in differenti sezioni fra loro contrastanti, affidate a una vasta orchestra, coro, e quattro solisti di canto. Del tutto piena e convinta è l'adesione di Haydn al cosiddetto stilus mixtus, ovvero lo stile della messa concertata napoletana, che alternava brani in stile "antico" e contrappuntistico - riservati a determinati momenti topici della messa - ed altri in stile "moderno" e profano.
L'idea della messa come grande festa sonora, si sposa poi alla particolare religiosità di Haydn la cui devozione, per usare le parole di Griesinger, il primo biografo, «non fu demoralizzata o sempre penitente, ma piuttosto sorridente, riconciliatoria, credente, e la sua musica sacra rivela questo carattere». Dunque, anche se la partitura rincorre spesso, anche nelle pagine profane, uno stile più arcaico - come capiterà poi a Mozart nella Messa in do minore K. 427 - pure questo sguardo all'indietro non acquista mai risvolti severi e inquietanti, ma piuttosto il segno di un saldo appiglio alla tradizione, da parte di un autore giovane, ricco di idee ed entusiasta di potersi finalmente applicare a una vasta partitura sacra.
Le ambizioni della partitura sono in qualche modo implicite già nella introduzione corale lenta che apre il Kyrie, che è diviso in tre sezioni: nel primo Kyrie, risuona la solennità di trombe e timpani, tipici della tonalità di do maggiore, insieme alla brillantissima spinta dinamica degli archi e al trattamento del coro che alterna omofonia e contrappunto. Il Christe è affidato al tenore solista, che con una scrittura impegnativa, alterna i suoi interventi a quelli del còro; l'intonazione mesta dell'inizio si converte poi verso una elegante scorrevolezza. Il secondo Kyrie, per contrasto, consiste in una vera e propria fuga corale, in cui il contrappunto non ha però un carattere austero, ma piuttosto cordiale.
Il Gloria è la parte più lunga e complessa della messa, articolandosi in sette distinte sezioni, nelle quali viene portata al massimo libello la tecnica di spezzare il blocco corale con gli interventi solistici. La prima sezione, il Gloria propriamente detto, è solo corale, e, nella sua festosa innodia, contrapposta all'intimo richiamo dell'Et in terra pax hominibus, si mostra perfettamente calibrata. Il Laudamus te è invece un'aria per il soprano solista, innervata da lunghe catene di vocalizzi. Il Gratias agimus tibi è invece una lenta fuga corale, una fra le pagine stilisticamente più arcaiche della partitura. Segue il Domine Deus, un vasto trio di carattere operistico, aperto dalla voce del contralto, presto raggiunta da tenore e basso. Il Qui tollis mostra come Haydn sappia assumere lo stilema consolidato di un movimento corale e in minore, per animarlo attraverso forti giustapposizioni espressive; interviene poi la voce di contralto per donare maggiore intensità alla perorazione. Forte il contrasto con il Quoniam, un'aria per soprano solo, accompagnata dall'intera orchestra, che riprende e potenzia l'assunto festoso del Laudamus te. Cinque solenni battute (Cum Sancto Spiritu), introducono l'ultima sezione di questo Gloria, In gloria Dei Patris, che, secondo la tradizione, consiste in una vasta fuga, chiusa dai densi intrecci dell'Amen.
Rispetto al mastodontico Gloria, assai più snello è il Credo. Qui troviamo, nella prima sezione, la molteplice ripetizione dell'iniziale affermazione Credo, secondo un principio assai diffuso nella musica sacra di tutto il secolo; questa affermazione di fede è realizzata, con dinamica esultanza, in una continua alternanza fra il coro e il soprano. Il momento misterioso dell'Et incarnatus, che apre la seconda sezione, è risolto con un plastico recitativo seguito da un'aria del tenore solista, che sfocia poi, per il Crucifixus, in un duetto fra contralto e basso, che tocca il vertice dell'espressività. Aderente alle convenzioni è anche lo scoppio corale dell'Et resurrexit, la composita sezione conclusiva, dove la brillante intonazione corale è più volte interrotta dai solisti, per convergere poi nella fuga di prammatica, Et vitam venturi saeculi, dove si sentono reminiscenze haendeliane.
Più sommarie le ultime parti della messa. Il Sanctus si svolge quasi sbrigativamente, in un'ambientazione arcadica, contrapponendosi al festoso Pleni sunt coeli, e lasciando maggiore spazio al Benedictus, che si sviluppa prevalentemente nel modo minore, secondo una scrittura corale espressivamente partecipe e variata. La parte conclusiva, Agnus Dei, si divide in due sezioni: una iniziale aria per il basso, animata da un accompagnamento tanto discreto quanto incalzante, e l'immancabile fuga del Dona nobis pacem; qui ci troviamo di fronte in effetti a una doppia fuga, nella quale la maestria contrappuntistica di Haydn si somma all'intonazione giubilante, in cui l'invocazione della pace diviene affermazione di fede razionale e ottimistica.
Arrigo Quattrocchi