Quasi per difendersi dalle critiche che, inevitabilmente, i posteri gli avrebbero rivolto, il poeta Newburgh Hamilton specificò, con gran precisione e grande umiltà, tutto l'iter (invero, piuttosto breve), percorso dall'ultima tragedia di John Milton, il Samson Agonistes, nel diventar testo d'un «musical Drama», il Samson. Newburgh Hamilton aveva ricavato questo testo per George Frideric Handel; le sue preziose delucidazioni si trovano sul libretto stampato per la prima esecuzione del Samson, che avvenne al Covent Garden (probabilmente, in forma scenica), il 18 di febbraio del 1743.
Nel 1742, Handel era tornato a Londra dopo una assenza di nove mesi. Li aveva trascorsi in Irlanda: il Messiah era stato, colà, un successo d'enormi proporzioni. Ancora una volta, e forse più d'ogni altra, gli era stata infusa la consapevolezza di non esser soltanto un musico, un intrattenitore, come tutti i suoi più fortunati colleghi «napoletani». Gli s'era infusa la consapevolezza d'esser un vate, una guida spirituale d'un popolo: quel Timoteo ch'egli aveva raffigurato come duce dello stesso Alessandro nell'Alexander's Feast del 1737. Lo si considerava (ed egli si considerava) un grande spirito, che dovesse colloquiare da pari a pari con gli altri grandi spiriti nazionali, con Shakespeare, con Dryden, con Milton...
Con Milton: con questo poeta c'era stato, due anni prima, un fecondo incontro spirituale, come anche Hamilton ricorda nel passo sopra riportato. L'Allegro, il Penseroso e il Moderato, un'Ode-Pastorale gentile, idillica, intima. Opera giovanile del poeta, di natura visiva e descrittiva, Handel vi aveva tradotto il diffuso senso panico della natura e vi aveva instillato la sua adesione, insieme appassionata ed intellettualistica, alla dottrina aristotelica e teatrale degli «affetti».
Per quanto fra quest'Ode-Pastorale e il Samson non passino che tre anni, è percettibile anche dalla loro versione musicale la gran distanza d'anni e di concezione che in Milton li separa; ed attraverso questa distanza, la posizione assunta da Handel nei confronti del suo grande, ancorché non volontario, soggettista.
Anche Samson Agonistes è l'opera d'un vate: d'un vate austero pagano-puritano, tanto costrettosi entro il rigore del classico (secondo Mario Praz, egli era d'un classico avanti la lettera), quanto portato a trasfigurare il reale nelle immagini del titanismo barocco. Un vate così convinto della propria missione profetica e sacerdotale, da proiettare sullo sfondo di sentenze universali e gigantesche, riuscendovi, non solo la propria eroica cecità e il proprio eroico puritanesimo politico: anche faccende meno propriamente edificanti, come la propria misoginia, non tutta attribuibile a colpe del bel sesso.
A tanta distanza, e sulla testa del buon Newburgh Hamilton, uno strettissimo legame intrecciò il musicista e il poeta. E ciò non è avvertibile solo per lo scrupolo puntiglioso verso la prosodia e la retorica esattezza della versione del testo nei recitativi: scrupoli che Handel aveva provato assai meno di fronte testi da musicare dovuti a penne meno illustri.
Se si toglie il suo mondano cosmopolitismo, e la natura più misteriosa che acida della propria misoginia, lo Handel di quegli anni condivide già l'essenziale delle caratteristiche psicologiche e morali di Milton. Il loro non fu un rapporto da poeta a musicista qual era solito fino alla rivoluzione romantica; né s'ebbe la sudditanza, al contrario, del musicista nei riguardi del poeta, come pure altri casi di timor reverentialis (per tutti, valga quello di Metastasio) avevano provocato. Fra Milton e Handel vi fu, forse, un duello: la sfida di Handel sempre più convinto della propria grandezza e sempre più desideroso di misurarsi con intimidatori modelli - Dryden, Milton, la sublimità per excellentiam, quella della Bibbia. E desideroso sempre più d'isolarsi con essi in titanico colloquio. Da questo colloquio, ogni altro doveva venir escluso: non poteva che far parte di una massa adorante e giubilante.
Ecco le stesse identificazioni fra vita e testo volute da Milton avverarsi, prodigiosamente, per Handel: il gigante cieco (Handel non lo era, lo sarà, come Bach, e come lui eroicamente) e incatenato dai Filistei oppressori: e tuttavia gigante, ed indomito fino al riscatto finale, la catastrofe che mortifera ma affermazione e vittoria morale. Su un punto solo, sia detto per inciso, i due testi non concordano. La misoginia di Handel non s'estese, com'è noto, dalla vita all'arte: la Dalila da lui creata, lungi dall'esser la «hyaena» del Milton è avvolta di tutte le possibili grazie del bel canto settecentesco, e non è che uno dei tanti ritratti della quasi infinita galleria di bellezze muliebri dipinta da Giorgio Federico; inoltre, il gusto troppo radicato pei colori brillanti, e l'insopprimibile carica di simpatia umana, presenti nel nostro Anglo-Sassone, non possono donare ai suoi Filistei che piacevolissime pagine festanti con ricchi colori di corni da caccia, inframmezzate da delicate arie su purcelliani ritmi di danza: e guai a chi vorrà dolersene accampando improbabili accuse di scarsa congruenza drammatica.
E quella commistione, puntualmente passata da Milton ad Handel, fra Bibbia puritana e poesia pagana: una concezione dell'Ellenismo sì particolare da esser impossibile fuori che in Inghilterra.
Donde cominciano a sorgere dubbi sulla tradizionale raffigurazione d'un Handel voltosi all'Oratorio per due motivi: il suo finale impaccio nei rapporti con la tradizionale opera seria all'italiana, il suo desiderio di acquisirsi la presenza pagante della nazionalistica middle class già borghese, all'innato moralismo della quale la natura dell'oratorio maggiormente attagliava.
Che si sia trattato d'un'evoluzione interiore, solo per praticità appigliatasi ad una chute commerciale e ad una meno incerta possibilità di successi? Che l'oratorio, lungi dall'esser veicolo di comunicazione verso più larghe udienze, fosse, per Handel, il suo manto sacerdotale, il piedistallo sempre più elevato sul quale isolarsi; quello, sommamente individualista, d'ammaestratore supremo?
Non sembra che la fucina biblico - umanistica donde sortì il Samson fosse la più adatta a forgiare strumenti di agevole comunicazione con le ideologie delle classi medie - lontane, peraltro, per definizione, dal Sublime, perseguito strenuamente da Handel in ogni parte della sua carriera, e definitivamente a partire dal 1740. Forse, il rifugio di Handel nell'oratorio, avvenuto in modo sempre più stretto a partir da quella data, non è che un arroccamento sempre più esclusivo nella raffigurazione del Sublime; di eccezionali moralità eticizzate. Ecco perchè, nell'oratorio, Handel lancia un «genere» completamente nuovo, ch'è quello di mescolare narrazione e amplificazione etica di essa attraverso lo stile parasacro dei cori polifonici e dello stile fugato - una mescolanza solo parzialmente ereditata da Carissimi. Sul quale «genere» non è possibile non vedere, più che influenze tecniche e artigianali di qualsivoglia musicista, quella intellettualistica dell'idea di tragedia greca che Handel credè, in buona fede, di risuscitare - di quali eventi artistici fu causa codesta felix culpa, irraggiungibile fra le umanistiche illusioni!
Solo P. H. Lang ha saputo comprendere la carica di umanesimo
eroico ed
individualistico che manifestano le scelte di Handel dopo il 1740:
Tutto ciò è vero indipendentemente dal successo che l'oratorio di Handel ottenne presso la classe media del suo tempo ed ha continuato a godere presso quella dei tempi a venire.
Ecco lo spazio enorme attribuito a Micah, un sensuale contralto che, godendo d'alcune fra le più belle ed ampie melodie che Handel abbia mai scritto (il dolore in mi bemolle maggiore: i compositori «borghesi» ameranno il patetico, in tonalità minori), assolve la sua funzione di historicus, corifeo e incarnazione di tutto lo sfondo etico dell'opera: valutando Samson secondo criteri drammatico-operistici s'è osato considerare la sua presenza ingombrante, inutilmente sentenziosa e spesso superflua, ove non d'impaccio. Ecco la funzione di Manoah, che, col contralto, guida la solennissima e toccante trenodia, ma guida anche l'immancabile trionfo celebrativo della chiusa. Ecco la funzione del coro, che ingigantisce e universalizza quasi arcanamente la portata d'ogni singolo personaggio e della sua affermazione etica, fermandola nell'universo senza tempo del contrappunto fugato o confermandola nella massiccia solennità di blocchi accordali a cui nessuno, come Handel, sa dare altrettanta e icastica pregnanza musicale.
Donde l'aspetto, letteralmente, enorme della musica, nella quale la polifonia sorge per collisione piuttosto che fusione di melodie sempre più barbaramente disadorne. In fondo, il Handel di Samson è già quello, allucinato, che, dal suo animo panicamente barocco, allucinatamente vede un classicismo barbaro e cosmico ad un tempo.
Paolo Isotta