Concerto grosso in do minore, op. 6 n. 8 HWV 326


Musica: Georg Friedrich Händel (1685 - 1759)
  1. Allemande (do minore)
  2. Grave (do minore)
  3. Andante allegro (do minore)
  4. Adagio (mi bemolle maggiore)
  5. Siciliana: Andante (do minore)
  6. Allegro (do minore)
Organico: 2 violini concertatnti, 2 violini, viola, violoncello, basso continuo
Composizione: 1739
Edizione: J. Walsh, Londra, 1740
Guida all'ascolto (nota 1)

I dodici Concerti dell'op. VI per orchestra d'archi e basso continuo sono il contributo maggiore di Händel alla letteratura del concerto grosso d'orientamento corelliano. Tutti composti nel giro di un mese tra la fine del settembre e dell'ottobre 1739: in quella sorta di appassionato ritorno alla musica che seguì il grave attacco di apoplessia da cui il compositore fu colpito nel 1737, essi nacquero a breve distanza dalle grandi creazioni del Saul e dell'Israel. Circostanza che non riguarda soltanto la cronologia, giacché consimile a quello dei due oratori è l'alto livello di gran parte della raccolta; per la quale viene spontaneo il paragone con una serie di magistrali acquaforti, tanto il bianco-nero dell'orchestra d'archi acuisce il segno della fantasia di Haendel, rispetto ai cosiddetti Oboe Concertos dell'op. III e ai singoli Concerti per archi e fiati. Fantasia che si esplica anche nell'aver reso ogni concerto diverso dall'altro per numero, scelta, successione e carattere dei movimenti, al di là del principio intrinseco a questa forma di basarne il disegno sulla divisione in due gruppi della compagine strumentale: il «tutti» e il «concertino» dei sofisti.

In accordo con la tonalità minore, prevalgono così nel Concerto n. 8, stimato uno dei più belli, i movimenti non rapidi, a partire dal primo: un'Allemanda, l'antica danza tedesca, nelle versioni della musica d'arte tradizionalmente d'andatura moderata. Grave nello spirito oltre che nel moto suona il pezzo seguente dove l'alternativa orchestra-concertino, usata in funzione soprattutto espressiva, tocca l'apice nel sentimento quasi tragico delle proposizioni dei soli. Neppure l'aggettivazione Andante Allegro apporta una schiarita: se il movimento si accelera, qualcosa di funebre permane nell'intimo delle frasi ora fiduciose, ora dolenti che si scambiano i due gruppi strumentali. E' quindi logico che l'Adagio del quarto movimento, per quanto incline a rasserenarsi nel suo mi bemolle maggiore, elabori estendendole le ultime battute del «Piangerò la sorte mia» dell'opera «Giulio Cesare».

Del tutto originale è invece la materia della Siciliana: uno dei tanti mirabili frutti dell'italianismo di Haendel, che qui trasferisce agli archi la cantabilità di un'aria vocale sottolineandone le effusioni melodiche con le dolci ondulazioni cullanti del caratteristico ritmo ricavato dal 12/8. Sopraggiunge infine l'Allegro: l'unico effettivamente tale coi suoi motivi danzanti, senza più lasciar adito a ripensamenti melanconici.

Emilia Zanetti


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Sala Accademica di via dei Greci, 18 febbraio 1966


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Ultimo aggiornamento 29 gennaio 2015