Concerto grosso in si bemolle maggiore, op. 6 n. 7 HWV 325


Musica: Georg Friedrich Händel (1685 - 1759)
  1. Largo (si bemolle maggiore)
  2. Allegro (si bemolle maggiore)
  3. Largo e piano (sol minore)
  4. Andante (si bemolle maggiore)
  5. Hornpipe (si bemolle maggiore)
Organico: 2 violini concertatnti, 2 violini, viola, violoncello, basso continuo
Composizione: 1739
Edizione: J. Walsh, Londra, 1740
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Forse mai come nel periodo barocco si assistette ad uno scambio culturale così frequente e fecondo fra i diversi paesi dell'Europa; si trattava di un confronto che riguardava tutti i settori del sapere e di cui la musica seppe farsi una delle maggiori interpreti.

E Georg Friedrich Händel ne è sicuramente uno splendido esempio: partito dal cuore della grande tradizione tedesca, completa la sua formazione e inizia ima brillante carriera in Italia, studia a fondo le forme francesi che si stavano imponendo con grande fortuna, e finisce per essere uno dei maggiori innovatori della tradizione musicale inglese. Da tutto questo scaturirà uno stile ricchissimo di stimoli, sfumature, accenti capace di porsi davvero come linguaggio universale ante-litteram.

Anche le composizioni strumentali di Händel, come quasi tutti i suoi lavori, si guadagnarono vasta popolarità nell'Inghilterra del Settecento, ma con l'eccezione dei Concerti grossi op. 3 e op. 6, dei Royal Fireworks e della Water Music, le altre composizioni orchestrali e la sua musica da camera sono praticamente cadute nell'oblio. D'altra parte la sua fama, sia come compositore che come uomo d'affari, dipendeva soprattutto dai grandi lavori vocali mentre quelli strumentali erano quasi sempre complementari alle Opere e agli Oratori (ne sono un esempio i Concerti per organo eseguiti come speciali attrazioni negli intervalli).

Il modello di riferimento per quanto riguarda la forma del Concerto grosso è quello corelliano che Händel ebbe modo di conoscere durante la sua permanenza a Roma fra il 1706 e il 1709 (fu Corelli infarti a dirigere le esecuzioni degli Oratori Il trionfo del tempo e del disinganno e La Resurrezione). Secondo la tradizione biografica il suo comportamento con il cinquantenne maestro romano sarebbe stato presuntuoso ma sarà poi con l'atteggiamento del discepolo che si accosterà alle sue opere.

I Concerti grossi op. 3 risalgono al 1734 mentre quelli dell'op. 6, con il titolo Twelve Grand Concertos in Seven Parts, furono pubblicati da Walsh a Londra nel 1740. Anche in Händel, come in Corelli, lo schema è quello della Sonata a tre in più movimenti, anche se i lavori del compositore tedesco si arricchiscono di maggiore libertà nel trattamento del materiale musicale; nonostante fosse uno dei più grandi contrappuntisti del tempo, egli si mostra disponibile ad abbandonare la complicata scrittura delle parti a favore di una maggiore melodiosità e di un suono strumentale differenziato con un contrasto molto netto tra il tutti (intensamente energico) e il concertino (dolce e rarefatto}. In particolare nei Concerti dell'op. 6 l'austerità si stempera nelle eleganti Ouvertures, nell'intensità lirica dei movimenti lenti, nella stilizzazione dei tempi di danza, nell'inserimento di forme popolari come le cullanti siciliane o il ritmato hornpipe del Concerto n. 7.

Laura Pietrantoni

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

I Concerti grossi dell'op. 6 furono composti a Londra nel 1739 con eccezionale rapidità, e ciò si riflette in una certa diseguaglianza di valori tra le dodici composizioni. Essi si rifanno al grande modello corelliano, e molti ne conservano, come il n. 7 oggi in programma, la ripartizione, in vari movimenti; ma vivaci sono gli influssi da Vivaldi, i cui lavori, fin dal 1723, avevano suscitato nella stessa Londra grande entusiasmo.

L'introduttivo Largo prepara un Allegro cui dà una impronta particolarmente originale, soffusa di spiriti umoristici e caricaturali, un tema che insiste curiosamente sulla stessa nota, in valori via via diminuiti, per ben tre battute.

Mentre il successivo Largo, nel tono di sol minore svolge un ricco intreccio di canto tra il concertino e il tutti, l'Andante lascia liberi gli strumenti di volgersi a espressioni più brillanti.

L'ultimo tempo - Hornpipe - è un bellissimo saggio di un trattamento in forma d'arte dell'antica danza inglese; e vi si ravvisa (tipico dello strumento d'identico nome, hornpipe, come dire cornamusa) il frequente alternarsi, quasi «ostinato», delle note di tonica e di dominante. Anche nella Water Music Händel introdusse un Hornpipe.

Giorgio Graziosi

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

La «Haendel-Renaissance» di questi ultimi anni verte soprattutto sulla produzione operistica, e in questo senso un sottile filo conduttore lega le intuizioni critiche di Paul Bekker (1926) — che vedeva uno degli aspetti più significativi della civiltà barocca proprio nel «sentire vocale» di Haendel — fino all'ultimo e più aggiornato studio di Winton Dean (1969) sulla sua proteiforme abilità di compositore teatrale. Tutti i problemi concernenti la musica strumentale (composizioni per orchestra, concerti per organo, per clavicembalo, musica da camera) sembrerebbero risolti — tranne quello spinosissimo della datazione, in alcuni casi ancora aperto — qualora si continuasse a contrapporre l'estroverso Haendel all'introverso Bach, come dire l'eclettica capacità di sintetizzare i vari stili nazionali da un Iato e dall'altro uno scavo in profondità, lumeggiato da una sentita coerenza etica. Ma, come vedremo meglio esaminando i due Concerti Grossi in programma, non è tutto cosi facile, il fatto che Haendel abbia dovuto ricorrere di continuo a «prestiti» suoi o altrui, lascia ancora valida l'ipotesi-chiave della musicologa Emilia Zanetti, che il compositore, cioè, consideri la musica «come linguaggio dove, alla stessa guisa del linguaggio verbale, non gli elementi singoli, ma il contesto che li dispone in ordine, decide del valore dell'espressione».

L'op. 6 fu edita a Londra nel 1740 per i tipi di Walsh con la sottoscrizione di influenti mecenati, sistema questo molto in voga nel secolo, ma a cui Haendel ricorse raramente. Il titolo originario era «Twelve grand concertos in seven parts for four violins, a tenor violin, a violoncello, with a through bass for the harpsicord». Il concerto grosso, si sa, consiste in un dialogo fra un gruppo di elementi solisti («Concertino» o «Soli») e l'insieme degli strumenti («Ripieno» o «Tutti») ai quali si aggiunge il clavicembalo. Su questo genere musicale gli studiosi si sono battuti rivendicandone la paternità a Corelli, Stradella, Torelli. Per offrire alcuni dati orientativi utili alla genesi delle composizioni heandeliane ricordiamo che i concerti grossi op. 6 di Corelli erano comparsi nel 1714 ma Georges Muffat, di passaggio a Roma nel 1682, racconta di averne già sentiti, mentre Burney parla di un concerto di 150 esecutori, diretto dallo stesso compositore romano, alla corte di Cristina di Svezia nel 1680. Ai discepoli di Corelli spetterà poi il compito di diffondere questo stile in Europa: Geminiani in Inghilterra, Muffat in Germania. Non ha molta importanza sapere se Haendel, amico di Geminiani, ebbe modo di conoscere questa forma da lui o risalì direttamente alla fonte ovvero a Corelli stesso, durante il suo soggiorno a Roma nel 1708. È certo, comunque, — come i due musicologi Hoffmann e Redlich, curatori della «Hallische Haendel Ausgabe» hanno sottolineato — che proprio in quest'anno (1708) si può già reperire un concerto grosso in miniatura ne «Il Trionfo del tempo e del disinganno».

I concerti grossi op. 6 di Haendel si compongono di elementi vari tratti dalla Suite, dalla Sonata da Chiesa, dall'Ouverture ed è interessante notare che le sezioni sfuggono al numero rigoroso di tre — instaurato da Vivaldi e adottato poi da Bach nei suoi «Concerti Brandeburghesi» — ma oscillano da quattro (n. 2, n. 4) a cinque (n. 1, n. 3, n. 6, n. 7, n. 11, n. 12) fino a sei (n. 5, n. 8, n. 9, n. 10). Formalmente dunque è a Corelli che Haendel guarda; non solo, la stessa tavolozza di colori mai vistosi o squillanti, ma teneri, liricamente sfumati, è indice di un equilibrio e di una economia di mezzi tendenti a riprodurre quello che fu il denominatore comune a molte opere della letteratura e del teatro barocco tedesco: la malinconia. Questa diventa il simbolo della posizione assunta da quegli artisti che, sospesi tra i violenti binomi di cielo-terra, vita-morte, luce-ombra, parlano nei termini di un triste e cosciente disinganno, spesso celato dietro una parvenza umoristica.

Il «Concerto n. 7» in si bemolle maggiore fu terminato il 12 ottobre 1739; l'organico prevede: violino I, Il e violoncello (concertino); violino I, II, viola e bassi (violoncello, violone, cembalo (ripieno). Al «largo» iniziale di sole dieci battute, segue un «Allegro» fugato che, scorrendo in una divertente progressione ritmica, ha fatto pensare allo schiamazzo di una gallina («das Gackern einer Henne») e non è ipotesi tanto infondata qualora ci si richiami al «Tema all'lmitatio Gallina Cucca » di Bach e, in senso lato, al linguaggio barocco volto a rendere effetti naturalistici e onomatopeici. Il «Largo» si apre con una incisiva cantilena del primo violino, ed è tutto pervaso di colori malinconici, mentre, dietro l'«Andante», il musicologo Serauky nota alcuni parallelismi con le frasi pastorali dei celebri «brandeburghesi». Il ritmo sincopato della cornamusa («Hornpipe») finale chiude questo settimo concerto, l'unico dell'op. 6 in cui Haendel, rinunciando alla contrapposizione soli-tutti, lo risolve all'unisono come si trattasse di un concerto sinfonico.

Fiamma Nicolodi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 19 dicembre 2003
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Eliseo, 1 febbraio 1960
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 10 maggio 1974


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Ultimo aggiornamento 27 novembre 2019