Trio per pianoforte n. 4 "Dumky" in mi minore, op. 90 (B.166)


Musica: Antonin Dvoràk (1841 - 1904)
  1. Lento maestoso (mi minore). Allegro vivace
  2. Poco adagio (do diesis minore). Vivace
  3. Andante. Vivace (la minore)
  4. Andante moderato (re minore)
  5. Allegro
  6. Lento maestoso (do minore). Vivace
Organico: pianoforte, violino, violoncello
Composizione: Praga, 12 febbraio 1891
Prima esecuzione: Praga, Mestanska Beseda (Unione Mestanska), 11 aprile 1891

Vedi al n. B.520 la versione per pianoforte a quattro mani
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La parola dumky, plurale di dumka, dal verbo dumati, si ritrova in tutte e lingue slave e significa meditare, pensare, riflettere. Dumky è anche una vera e propria forma poetica, ballata elegiaca celebrativa di grandi eroi, sorta di canto epico che ricordava le gesta dei cosacchi alla conquista di pace e libertà. Dvoràk scrisse alcuni pezzi intitolati dumka, (come la Dumka op. 35 per pianoforte) intendendo per essi una forma musicale malinconica di fondo, però inframmezzata a sezioni serene, gradevoli, più leggere. Il Trio op. 90 in mi minore «Dumky» trae il nome da quest'intenzione poetica e si esprime in un'architettura variabilissima nelle indicazioni dinamiche e di tempo - almeno una quarantina gli scarti di movimento - e sostanzialmente binaria nella struttura (in pratica degli A B alternati). Vi troviamo temi eroici, gioiosi, di danza, in sequenza con altri di taglio opposto, nostalgici, intimistici. Mancano, in linea di massima, elementi «complessi» di sviluppo, di modificazione, di variazione organizzata. Tutto scorre senza interruzioni, passa, si risolve, rinasce: Dvòràk compone le sue melodie, non le trascrive, non le rielabora, semplicemente coglie il sapore del canto popolare. Come le sequenze di un film, scorrono semplici fotogrammi di un'impressione fugace, in grado di restituire il senso dello «spirito del popolo». Alla fine questi sei brevi brani si collegano in una formidabile unità di contenuti attraverso un pensiero comune. La connessione è garantita, oltre che dal carattere, dalle relazioni tonali e da uno stile narrativo che ce ne restituisce l'antica origine dei cantastorie slavi.

Nella Dumka I, aperta in Lento maestoso, accordi penetranti al basso del pianoforte (A), con la mano destra impegnata in una sorta di lancinante grido su nervosi bicordi discendenti, si uniscono alla melodia carica di pathos del violoncello, che si spegne in totale solitudine: è come un lamento sconvolgente, quello che esprime Dvoràk, una sorta di caos primordiale che sovrasta la debolezza umana. Un motivo accessorio formato da una melodia malinconica pare commentare questa convinzione, con le due voci di violino e violoncello che, senza forze, lentamente si intrecciano in un'imitazione alla fine come sospesa, solo con una coda dagli ampi arpeggi del piano sul sospiro commosso del violoncello. Poi d'improvviso la scena si illumina (B): quella melodia passa al più solare mi maggiore, del tutto trasfigurata e completata nel suo arco dal cello, sostenuta dal ritmo leggero del violino e dalla figurazioni agili del piano, infine trasfusa in un festoso giro di danza. Nel clou della festa irrompe di nuovo il Tempo I (A), con la ripresa del motivo in mi minore, questa volta distribuito su pesi timbrici diversi. Il tempo si blocca, cristallizzato in quel lamento lancinante, anzi quasi torna indietro, con la cascata di note del piano e il canto degli archi che pare una retromarcia voluta. Nel silenzio che è sceso su questo quadro desolato, il tema accessorio passa al canto del piano, sull'iridescente tappeto armonico disposto dalla mano sinistra e dal pedale lungo del cello, mentre la successiva entrata imitativa è al violino, cui subito si intreccia in un canto espressivo il violoncello: un'emozione fatta di pochi istanti, ma carichi di significati. Un raggio di sole è l'ultimo ricordo della prima Dumka che, con il ritorno del tema (B) in mi maggiore e degli avvolgenti passi di danza, si conclude in un rinfrancante pensiero di speranza.

La seconda Dumka II ancora vive di contrasti, con una sezione lenta alternata a una di fattura più veloce, nello stile della rapsodia ungherese. Nella parte A, sui dolenti rintocchi del pianoforte, si sente il tema lamentoso in do diesis minore del cello, mentre il violino con sordina riverbera armonie desolate. Adagiato su uno sfondo rischiarato al tono corrispondente maggiore, un secondo elemento di rinfrancante serenità è esposto in modo espressivo dal piano. Ma il tema lamentoso torna, sviluppato in una toccante frase ascendente, solo alla fine declinante a chiudersi in un trasognato senso di attesa. È la preparazione per la sezione veloce B (Vivace non troppo), con uno sbarazzino cambio di passo ritmico e l'intervento di un motivo di danza, basato su due periodi. Più volte ripetuti ed elaborati, saranno l'occasione per un'esibizione dai tratti zigani del violino e per i giochi funambolici del piano. La cadenza solitaria del cello, breve ma intensa, è un vero coup de théàtre e introduce di nuovo il tema iniziale cupo del piano (A), compreso il secondo elemento espressivo, questa volta al canto soave del violino. Di nuovo gli succede il tema lamentoso, ma ora è il piano che lo svolge, in uno stile fiorito carico di nouance melodiche sostenute da una trama densa: alla fine si stempera in metronomica codetta d'attesa. Il ritorno del Vivace (Parte B) conclude la seconda Dumka in un vortice spensierato e inarrestabile che travolge ogni pensiero, rimandando oltre il momento sulla meditazione delle cose.

La Dumka III è un esempio di lirica pura, in cui la scansione di idee di rara semplicità coincide con un sorprendente controllo della forma. All'inizio vellutati rintocchi del piano risuonano come un flebile ricordo, diffondendo un senso di pace, echeggiati da violino e violoncello con sordino. Il piano lentamente dipana una melodia solitaria, un motivo scalare in forma di recitativo, che emerge da quei rintocchi come un pallido sole in mezzo a un mare di nebbia. Poi il calco del tema è ripreso dal cello e sviluppato in una frase più elaborata, mentre il piano lo avvolge nelle sue spire con un motivo vagamente tormentato. Ora torna il recitativo del pianoforte, appena appoggiato da bicordi rarefatti del violino, così come si ripresenta la frase precedentemente in, che qui però, dopo la breve sigla cadenzale del piano, si prolunga in una nuova arcata che, sollevandosi sul piano tonale, ne prosegue il senso. Per la seconda volta insiste la frase, più profonda e in evidenza per le ottave frontali del pianoforte: preso slancio, letteralmente s'infrange sull'inciso declinante che poeticamente chiudeva l'episodio, inciso ripetuto in eco anche dal pianoforte come congiunzione con la sezione B. È palpabile la crescita di una curva dinamica all'interno della Dumka, come lo svolgersi di una storia tematica che va raccontando un percorso. Un tema leggiero, il pulsare dello spirito vitale, prende possesso della scena, definito dalle increspature del violino e dai tratteggi agitati del piano, con il violoncello che disegna una melodia continua: tutti segmenti scambiati nel trio in un intreccio d'animato fervore. Poi l'agitazione si spegne, si diluiscono gli elementi ritmico-dinamici (molto espressivo, ritardando), sono allargate le maglie testurali in una sezione di trapasso fatta di riflessi armonici. Giunge la ripresa di A (Andante), con il ritorno dei rintocchi prima lasciati a violino e cello, poi riecheggiati dal piano; subentra anche una variante della melodia di recitativo e una frase di commiato che, scivolando verso il basso, trascina l'eloquio al registro più grave sul pedale di tonica, solo appena rischiarato dagli ultimi arpeggi. Nella coda (Allegretto), come riflessi di un tramonto, risuonano gli accordi del pianoforte, mirabile variante dei rintocchi d'apertura (sezione A), trasfusi nella linea ricurva del cello, anch'essa derivata da un altro elemento, la melodia ad arco della sezione B: un esempio di sintesi estrema.

La Dumka IV è la dumka del tempo. In apertura (A), segnato come quasi tempo di marcia, regolato dall'inciso rotondo del piano e dal ticchettio sincrono del violino, il tema principale appare come una sorta di armonia delle sfere, di melodia «del tempo» affidata al violoncello, che scorre regolare su due periodi con cadenza sulla tonica, re minore. L'Allegretto scherzando (B) irrompe come breve inserzione sul versus dell'episodio precedente, cioè sull'irregolarità ritmica e su improvvisi scarti dinamici, elementi sfuggenti alla regolarità pregressa. Tutto si svolge in pochi attimi, e il ritorno di una variante minima con la cadenza finale a re maggiore (A) si inanella alla ricomparsa dell'Allegretto scherzando (B), raddoppiato (la prima volta in re maggiore, la seconda in mi bemolle maggiore) e proseguito in una coda molto espressiva. La ciclicità degli eventi giunge ineluttabile, come regolata da un principio superiore: torna il tema del tempo (A), qui al cello, con inversione delle parti di accompagnamento e qualche variante armonica. Ma ecco l'imprevisto, il sussulto all'ordinario: un elemento apparentemente estraneo (in realtà derivato da alcuni incisi ritmici della parte A) si insinua dentro al binario obbligato (C), prende l'abbrivio, si velocizza, sfocia in un Allegro ricco di smaglianti giochi coloristici; poi si spegne in una frase di transizione (Meno mosso. Tempo I) sui medesimi elementi di C, però rallentati e, nel Più andante, basato su accordi di riposo e su un richiamo rallentato al ticchettio che accompagnava il tema di A. Poi tutto rientra alla normalità, inserito nel flusso costante degli eventi con l'ultima ripresa della parte A, con qualche differenza nei rotondi appoggi del pianoforte, un po' più squillanti, e una nuova cadenza finale a re maggiore, che segna l'inizio della coda, sul tremolo sotterraneo del piano e conclusa dal ricordo suggestivo del «ticchettio dell'orologio».

Dopo tanta misura è un piglio nuovo quello apre la Dumka V (Allegro): una sigla introduttiva accordale su scala ascendente porta a un'espansione sonora intensa e sospensiva, cui segue un'eco in pianissimo. Inizia un tema scalare sinuoso del violoncello (B), ricamato dalle avvolgenti figurazioni del piano, solo, nel finale, frenate da una sequenza circolare di transizione su disegno di crome: è un sentimento di rigenerazione che prende l'ascoltatore, come invitato a una sorta di volteggio di danza. Nella parte C, incupita dalle armonie minori, si apre la sezione, solcata da un tema pure scalare che presto si intreccia nelle imitazioni di violino e di violoncello, mentre il piano lo sostiene sull'input ritmico delle crome. Una transizione allenta la spinta su una figura altalenante e porta alla ripresa delle tre sezioni. Prima torna, variata, la sigla introduttiva (parte A), espansa in frequenti richiami; poi è la volta dell'elegante tema scalare del cello con le avvolgenti figurazioni del violino (B). Infine si ripresenta la parte C, pure in parte variata, con il tema scalare affidato al timbro pungente del pianoforte, mentre il violino disegna la sequenza circolare su crome e il violoncello rinforza la tessitura con un vorticoso giro in semicrome. Alla fine, nella prosecuzione di C, su una sorta di sinuoso trillo in pianissimo si succedono le entrate del tema scalare, che ora, del tutto trasformato, si porta sul piano di mi bemolle, rallenta (Meno mosso), pare perdersi negli ultimi sussurri. Ma un secco richiamo del medesimo tema (Più mosso. Allegro), reso pesante dalle ottave del piano e dal rinforzo di violino e cello, ridesta dal torpore chiudendo con fare deciso l'episodio.

Nella Dumka VI (Lento maestoso) un interrogante tema in do minore, nel suo incedere narrativo, evoca immagini misteriose (parte A). Lo segue un tema secondario (Poco più mosso), su una quartina di semicrome dal flessuoso andamento per terze, di stampo improvvisativo, zingaresco; nel Più mosso la variante della quartina di semicrome diventa palpitante elemento conduttore verso la nuova sezione. Inizia la parte B (Vivace, quasi doppio movimento) e man mano i tasselli della dumka prendono forma, con una nuova permutazione dell'ondulato tema per terze eseguito dal violino e sostenuto in modo molto marcato dal moto in terzine della destra e dagli accordi pesanti della sinistra. Il moto retrocedente del violoncello rallenta la spinta, trasformando la tempesta in amabile discorso, mentre il tema per terze passa al piano, qui raddoppiato in appuntiti bicordi resi ancor più secchi dal pizzicato del violino. La nuova variante del tema per terze trova riposo sul claudicante basso del piano (coda) che indugia sull'armonia di do maggiore, trascolorante a do minore, contrappuntato dal tema stesso citato amabilmente dal violino. Con un sapiente gioco di pesi e misure l'ansia è spenta, il ritmo è annullato, si prepara l'arrivo di un nuovo elemento. È il tempo del canto, e un'aria operistica si dispiega magicamente nella melodia del violino nel Lento (parte C), che ha come sfondo ancora l'elemento per terze in forma variata e si svolge dentro un'aura molto espressiva di pregnanza sentimentale. Giunge la ripresa variata di A: sul vibrante tremolo del cello è riproposto il tema narrativo, che ora risalta rispetto all'inizio per i più contrastivi scenari armonici. In questo clima corrucciato anche il tema secondario prosegue senza interruzione rispetto al motivo narrativo; dopo la corona, nella seconda frase (in tempo) il violino riprende le fila del discorso e conduce alla sezione B. Qui (Vivace) ritornano, pur sensibilmente variati, i passi salienti confermando un completo dominio della forma. Nel Poco meno c'è anche l'inserzione della melodia struggente del violoncello, a tracciare, come un arcobaleno, lo spazio, sul sommesso mormorio del tema ondeggiante per terze, solo nel Vivace affrettato. Infine, nella coda, sopra il basso, ecco la stringata citazione del tema al violino. Ma è un attimo; il basso sprofonda a nuovi accordi per accendere il Vivace che, strìngendo, sull'ultima asserzione del tema, conclude bruscamente il brano.

Marino Mora

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Di Dvorak si conoscono quattro Trii per pianoforte, violino e violoncello, e precisamente l'op. 21, l'op. 26, l'op. 65 e l'op. 90, scritti nel periodo che va dal 1875 al 1891 e oscillanti stilisticamente sotto l'influenza brahmsiana e quella wagneriana e lisztiana, pur con richiami a temi della musica folcloristica boema e slava. Non c'è dubbio che tra queste composizioni, improntate ad un nobile e fluente classicismo formale, la più importante e la più tipica della personalità dell'autore resta l'op. 90, meglio conosciuta sotto il titolo di «Trio Dumky», scritto nel febbraio del 1891 ed eseguito tre mesi dopo a Praga e successivamente in un giro artistico in Boemia e in Moravia dal complesso formato dallo stesso Dvorak, dal violinista Ferdinand Lachner e dal violoncellista Hanus Wilhan, al quale il musicista dedicherà più tardi il ben più celebre Concerto in si minore per violoncello e orchestra. Prima di entrare nel merito della struttura e delle varie parti di questo lavoro ci sembra opportuno ricordare brevemente il significato di Dumky, che è il plurale della parola dumka (un termine indicante pensiero o anche riflessione in italiano), intesa musicalmente come canto popolare di carattere elegiaco oppure come ballata costituita da vari movimenti sia lenti che vivaci, sui quali però predomina un sentimento di struggente malinconia. Quindi Dumky, almeno come l'intende Dvorak, è una successione di canti e di stati d'animo espressi con estrema semplicità di linguaggio, ora nostalgico e triste, ora ritmicamente spigliato, in buona parte psicologicamente somigliante alle Danze slave dello stesso artista.

La composizione, elaborata con ricchezza e varietà di temi, si articola in sei movimenti dalla impostazione armonica semplice, misurata e discorsiva, ma pur intensa nel suo intimo lirismo che affonda le radici nel patrimonio melodico boemo. La prima Dumka si apre con un Lento in mi minore, quasi un recitativo del violoncello, del violino e del pianoforte in un'atmosfera di attesa percorsa da seste ascendenti e discendenti. Nell'Allegro vivace una frase fresca e brillante del violino prende il sopravvento per due volte con un piglio zingaresco, mentre ritornano alcuni frammenti tematici iniziali. La seconda Dumka si snoda dolcemente patetica nel Poco adagio in do diesis minore e sfocia in un fosforescente Vivace, posto in netta contrapposizione al clima sentimentale precedente. Una breve cadenza del violoncello introduce ad una delicatissima cantilena del violino sorretta dal pianoforte, prima della chiusura in tempo allegro. Anche la terza Dumka alterna un Andante in tre quarti ad un Vivace in due quarti, ambedue nella tonalità di la minore; il primo è intriso di sognante poesia romantica e il secondo, invece, è una sequenza di saltellanti cromatismi, coinvolgente in modo piacevole tutti e tre gli strumenti. Il pianoforte riespone di nuovo la melodia fondamentale, su accordi sfumati e leggeri pizzicati del violoncello.

La quarta Dumka è in forma di rondò, il cui tema principale è affidato al violoncello nella tonalità di re minore su un accompagnamento ritmicamente scherzoso del pianoforte, che in un secondo tempo presenta un tema di sapore tzigano. Il discorso a tre si sviluppa tra piacevoli risonanze e gustosi ammiccamenti sonori e si conclude in sordina con i pizzicati del violino. La quinta Dumka è un unico Allegro costruito su brevi episodi ritmici del violoncello e del violino in stile imitativo; alla fine le parti si ricongiungono e ricapitolano il discorso secondo i canoni tradizionali. La sesta e ultima Dumka comincia con un motivo lento in do minore; il pianoforte in un passaggio più mosso prepara il successivo tema Vivace che, dopo una ricomparsa della frase precedente, si scioglie in una travolgente e infiammata esplosione di suoni.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

All'interno della produzione, in particolar modo cameristica, di Antonin Dvorak la predilezione per danze e canti popolari dell'Europa orientale costituisce una sorta di comun denominatore.

Fu soprattutto la dumka (o duma) di origine ucraina, in cui Dvorak si spingeva a vedere le origini stesse della musicalità slava, che doveva ammaliare il compositore per i suoi frequenti sbalzi d'umore tra malinconia e gaiezza. Se altrove ("Dumki op. 59" per pianoforte di Ciaikovski o ne "La Fiera di Sorocinski" di Mussorgski) essa veniva a colorire uno stile musicale precostituto, in Dvorak invece diviene l'esempio più lampante di interpretazione, in chiave colta, di una tradizione popolare. Esempi eloquenti ne ritroviamo, oltre che nel celeberrimo Dumky Trio, quarto ed ultimo della serie dei Trii dvorakiani con pianoforte, nella Dumka op. 35 per pianoforte, nel Sestetto per archi (1878), nel Quartetto in mi minore (1879) e nel Quintetto con pianoforte (1887).

Il Trio op. 90 fu composto nell'inverno tra il 1890 ed il '91 ed eseguito per la prima volta a Praga da Dvorak, Lachner e Wihan l'11 aprile di quell'anno in occasione della concessione al musicista da parte dell'Università locale della laurea "honoris causa" in filosofia.

Oltre che nel superamento in una visione ancor più articolata (anche in fondo se più semplice) della forma sonata classico-romantica con una politticità quasi da suite barocca, il Dumky Trio s'impone soprattutto per la raffinata sapienza delle architetture. Dei sei movimenti i primi tre appaiono concepiti quasi in un'unica logica espressiva (si muovono difatti entro regioni tonali vicine). La frequente alternanza tra opposti stati d'animo (improvvisi impeti di gioia subito affossati da una malinconia cosmica), tale da agitare e plasmare i primi tre movimenti, distingue anche le Dumky n. 4 e 5, mentre il finale (n. 6) riprende ed amplifica elementi già noti sino all'esplosione del Vivace culminante in un atteso quanto lapidario accordo di do maggiore.

Lorenzo Tozzi


(1) Testo tratto dal libretto insweito nel CD AM 168 allegato alla rivista Amadeus
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Sala Accademica di via dei Greci, 21 aprile 1978
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, teatro Olimpico, 1 aprile 1981


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Ultimo aggiornamento 30 giugno 2016