Stabat Mater per soli, coro e orchestra, op. 58


Musica: Antonin Dvoràk (1841 - 1904)
  1. Stabat Mater dolorosa - Andante con moto - Quartetto e coro
  2. Quis est homo, qui non fleret - Andante sostenuto - Quartetto
  3. Eja, Mater, fons amoris - Andante con moto - Coro
  4. Fac, ut ardeat cor meum - Largo. Più mosso - Basso solo e coro
  5. Tui nati vulnerati - Andante con moto quasi allegretto - Coro
  6. Fac me vere tecum pie flere - Andante con moto - Tenore solo e coro
  7. Virgo virginum praeclara - Largo - Coro
  8. Fac ut portem Christi mortem - Larghetto - Duetto Soprano e Contralto
  9. Inflammatus et accensus - Andante maestoso - Contralto solo
  10. Quando corpus morietur - Andante con moto - Quartetto e coro
Organico: voci soliste (soprano, contralto, tenore, basso), coro misto, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, archi
Composizione: Praga, 19 Febbraio 1876 - 13 Novembre 1877
Prima esecuzione: Praga, Prozátimní Divadlo, 23 Dicembre 1880
Dedica: Prager Tonkünstler Societät
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Nato nel villaggio boemo di Nelahozeves (l'odierna Múhlhausen) nel 1841, morto a Praga nel 1904, Antonìn Dvořàk proveniva da una famiglia della piccola borghesia radicata in un robusto ceppo contadino. Fu avviato precocemente alla musica, com'era costume dei suoi avi e della sua terra, ma non fu un compositore precoce: colse infatti il primo vero successo nel 1873, a trenta e passa anni, con un Inno patriottico che si inseriva compiutamente nella corrente irredentista propria degli ambienti culturali boemi. E' dell'anno seguente un riconoscimento prestigioso, con la vittoria di una borsa di studio del governo austriaco assegnata da una giuria composta, fra gli altri, dal famoso critico Eduard Hanslick e da Johannes Brahms. Tali tappe della carriera di Dvořàk seguivano da vicino anche la personale evoluzione dello stile del compositore. Se gli esordi creativi si erano svolti all'insegna della scuola neotedesca di Liszt e di Wagner, il cui modernismo sembrava più adatto a veicolare i contenuti nazionalistici peculiari della cultura cèca - ideali nei quali Dvořàk credeva fermamente -, fu proprio intorno al 1873 che lo stile di Dvořàk subì una brusca virata verso il sinfonismo puro e gli ideali di classico equilibrio della forma, ideali che trovavano nuova linfa nelle melodie di ispirazione popolare. Fu appunto questa peculiare mistura fra equilibrio formale e melodiosità slava che portò a riconoscere in Dvořàk un musicista dalla personalità inconfondibile, né conservatore né radicale, capace di apparire alla borghesia boema come un'incarnazione dell'identità nazionale, o anche di farsi ammirare di fronte all'intera Europa (e in seguito nel Nuovo Mondo) per la raffinatezza della scrittura e la solidità costruttiva delle sue opere. In questo processo di evoluzione e di affermazione un ruolo non secondario fu giocato da Johannes Brahms, che oltre a divenire un modello di riferimento per l'autore boemo, lo sostenne con il suo incoraggiamento, presentandolo fra l'altro all'editore Simrock di Berlino. Proprio Simrock si accollò il rischio di pubblicare la prima grande opera corale di Dvořàk, lo Stabat Mater, dopo che il lavoro era stato eseguito per la prima volta con buon successo a Praga il 23 dicembre 1880 sotto la direzione di Adolf Czech.

Composto fra il 1876 e l'autunno del 1877, lo Stabat Mater è strettamente legato a una catena di eventi luttuosi che avevano colpito in quel breve volgere di tempo la famiglia del musicista: la morte prematura, uno dopo l'altro, dei suoi tre bambini. Dvořàk, uomo di fede profonda, rimase tanto segnato da questi avvenimenti che cercò conforto in un archetipo del lutto materno e iniziò a mettere in musica, pur non conoscendo bene il latino, i versi duecenteschi della famosa Sequenza di Jacopone da Todi dello Stabat Mater: un percorso negli abissi del dolore scandito dalle invocazioni e dall'angoscia di una Madre, la Madre di Dio, in pianto presso la croce del divino suo Figlio. Partita come una confessione privatissima, l'opera si venne poi però sciogliendo in una semplicità rasserenante, appena velata da un'ombra, costante, di tristezza e confortata dai tratti di una partecipe coralità popolare. In altri termini, la tragedia personale dell'autore si stempera nell'afflato collettivo e il passo duro, aspro, legnoso del testo medievale si quieta in impreviste oasi di serenità. Atteggiamenti musicali tipici del dolore romantico (modi minori, andamenti cromatici, accordi di settima diminuita, rulli di timpani e simili) si alternano frequentemente a modi maggiori e a climi rasserenati, quasi a suggerire l'afflizione stessa come uno stato transitorio verso la beatitudine. In questa composizione solenne, ieratica e al tempo stesso delicata, di forte ispirazione sacra e religiosa ma non confessionale, con alcune puntate nella drammaticità di segno teatrale, Dvořàk conferì alla melodicità un tono alto, sempre sostenuto però dal respiro del patrimonio etnico della sua terra, e una compunzione classica che la eleva a un lirismo di richiamo quasi schubertiano, mentre la costruzione musicale è improntata a un'austerità che a momenti ricorda addirittura Händel.

I dieci pezzi in cui è suddivisa l'opera, distribuita tra parti solistiche e corali, hanno un andamento e un carattere uniforme, tendenzialmente grave e moderato (si tratta in realtà di dieci tempi tutti quasi lenti, trattenuti, con un unico scatto vivace nell'Amen conclusivo) e sembrano voler smussare gli angoli, distendere la tragedia in un bagno di malinconia corale che trova consolazione nell'immensa nostalgie per le melodie, i ritmi, i colori, i riti del proprio originario villaggio di campagna. Questo idioma locale affiora continuamente nelle pieghe dello Stabat Mater, col suo soffio struggente, le cadenze di danza, l'intimità raccolta. Anche se non mancano momenti di scrittura severa, dominati da un contrappunto robusto e da sonorità amplificate è il tono affettuoso, mite e rassegnato, a far da pedale all'intera composizione. Sonorità fresche, tinte campestri, dolcezza, ritualità chiesastica si compongono in una misura spirituale che attraversa il dolore mirando alla conquista di una calma serenità.

La cornice espressiva resta morbida e contemplativa persino nelle figure iniziali della visione della Madre addolorata in pianto presso la croce da cui pende il Figlio, disegnate su frammenti di scale cromatiche discendenti a ondate, quasi fossero ferite sotterranee, venature di un indicibile dolore. Il successivo Quartetto "Quis es homo" rende quasi visivamente l'immagine del pianto, del dolori della madre di Cristo davanti a tanto supplizio: ma è un tormento che diviene voce di un sentimento universale. L'"Eja, Mater" è una marcia funebre nella quale il coro assume su di sé lo strazio del martirio e chiede di poter condividere le lacrime del lutto materno. Al basso solo è affidato il quarto numero, "Fac, ut ardeat cor meum", ma ben presto vi si aggiunge il coro a diffondere calore e intimità, pronto a preparare il lirismo affettuoso del brano seguente, una cullante pastorale in 6/8 germinata dalle parole dell'incipit "Tui nati vulnerati". Accenti austeri, di declamazione scolpita, assume l'aria del tenore con coro "Fac me vere", dove emerge in primo piano il tema della vicinanza e della condivisione, in efficace contrasto con la assorta, devota preghiera del coro in pianissimo "Virgo Virginum preclara". Gli ultimi tre numeri presentano un percorso di intensificazione emotiva. "Fac ut portem" è un duetto per soprano e tenore, accompagnato da un ricco procedere dell'armonia che dà slancio al lirismo dei due solisti. "Inflammatus" è invece un'aria per contralto solo di stile quasi barocco, concitato, intensamente espressivo, acceso dal sentimento della speranza. Il "Quando corpus morietur" conclusivo, nel quale ai quattro solisti si aggiunge il coro, rappresenta il vertice drammatico del lavoro, riportando al clima severo e punteggiato da cromatismi dell'inizio ed evidenziando così l'architettura circolare, anzi chiusa a cerchio, della partitura. Di qui si stacca il solenne ottimismo dell'Amen finale, in re maggiore e in tempo Allegro molto: un'invocazione alla pace e all'eternità della vita oltre la morte, nella quale del corpo dissolto rimarrà soltanto l'anima e ad essa sarà donata la gloria del Paradiso.

Sergio Sablich

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Lo Stabat Mater apre il capitolo della musica religiosa di Dvorak nel segno di una felice disposizione naturale per il vasto e colorito affresco sinfonico corale; ispirazione che dovrà esplicarsi nella sua pienezza con gli estremi capolavori del Requiem e del Te Deum. Principiata nel febbraio 1876 sotto la diretta suggestione di un lutto che in quel tempo aveva funestato la sua famiglia - la morte della figlia Josefa - la partitura fu portata avanti da Dvorak con inconsueta lentezza insieme con altri lavori, non senza che gli affetti paterni del compositore venissero, nel contempo, sottoposti ad altre durissime prove, con le morti quasi consecutive della primogenita e di un bimbo di quattro anni. L'incidenza dei casi autobiografici - e nella fattispecie, di quali casi - nella vita creativa di un artista è, lo sappiamo, argomento riprovato dalle migliori scuole di estetica. E, ciò nonostante, è cosa di cui tanto meno ci si può sbarazzare di leggieri, quanto più si consideri ciò che in linguaggio dotto si chiama l'eterogenesi della creazione artistica e in discorso piano le mille e una via che in arte portano a una scelta, a una espressione, e a quelli soli e non ad altri. Senza contare che al connubio tra vita ed arte un uomo come Dvorak, il meno intellettualistico e il più sorgivamente spontaneo musicista del tardo romanticismo europeo, non poteva non credere con tutta la mente e con tutto il cuore. La partitura venne ultimata a Praga il 13 di novembre 1877 e la prima esecuzione avvenne solo tre anni più tardi, il 23 dicembre 1880, per conto dell'Associazione degli artisti della musica di Praga, cui Dvorak dedicò la composizione. Un anno e mezzo dopo l'opera ebbe altre due esecuzioni praghesi, ed una a Budapest. Nel marzo 1884, sotto la direzione dell'autore, lo Stabat ottenne un grandioso successo alla Royal Albert Hall di Londra, cui tennero dietro altre numerose esecuzioni europee.

Dalla raccolta intimità cameristica dello Stabat pergolesiano per due voci femminili, archi e continuo (l'aggiunta del coro è, come si sa, un abuso perpetrato incredibilmente anche in recentissime edizioni dovute a bacchette famose), la drammatica sequenza di Jacopone da Todi, via via gonfiatasi come fiume in piena, era pervenuta al vasto polittico rossiniano, denso di colorito pathos melodrammatico e informato alla più geniale e quasi provocatoria spregiudicatezza nei confronti della tradizione accademica e di quel «ritorno all'antico» propugnato dai coevi movimenti riformatori di tipo ceciliano. Ma tradizione e misticismo cattolico-romantico erano componenti cui Dvorak non poteva facilmente sottrarsi: tanto vicini ed incombenti avvertiva il candido ma tutt'altro che sprovveduto cèco i modelli di Berlioz, di Liszt, di Bruckner, autori di «affreschi» sacri gravidi di compromessi col passato e di un eloquente, estatico misticismo già corrotto - è il caso di Liszt - da ben consapevoli e compiaciuti atteggiamenti estetizzanti. La necessità, per l'artista uscito dal crogiolo romantico, di servire Dio e insieme Mammona (intendendo con tale termine lo spirito dei tempi, che l'antico maestro di cappella, autore di messe e mottetti concepiti secondo uno stile prestabilito detto appunto «da chiesa», non era affatto tenuto a seguire), indusse anche Dvorak a vestire le vetuste strofe della sequenza per la Passione dei panni sontuosi di una «sacralità» da concerto in cui convergono molteplici conponenti. Vi è l'elemento sinfonico, rilucente di densità timbriche e di sonorità per lo più compatte e rintrecciate mediante l'uso frequente di raddoppi tra la compagine degli archi e quella dei legni; questi ultimi prevalgono nel colore generale, secondo un tratto tipico della musica sacra viennese, illustrato da Bruckner e, risalendo nei tempi, da Schubert e da Salieri, maestro a Schubert, per tacere della pleiade dei minori. Vi è il contrappunto, trattato da Dvorak in alcuni passi con intenti prevalentemente scenografici, senza saggiarne altrimenti le possibilità costruttive. Importanza assai maggiore consegue a tale fine un declamato di tipo salmodico, per lo più piegato ad accenti di un drammaticismo eloquente: a tale forma di espressione vocale il compositore ricorre nei momenti di maggiore tensione patetica, ottenendo notevoli effetti mediante una sapiente e ben calcolata distribuzione delle varianti ritmiche di detto declamato attraverso le parti dei soli e del coro. I risultati (e si veda in primis il mirabile «Eja Mater, fons amoris») suonano inequivocabilmente moderni e persino avveniristici, anche se in essi Dvorak risulta ampiamente debitore a Liszt.

Lo Stabat Mater s'apre con un brano affidato al quartetto dei soli e al coro: vi predomina un frammento tematico contraddistinto dall'intervallo di ottava e da un breve melisma discendente che, variamente trattato, regge le strutture delle effusioni corali e solistiche che seguono alla imponente introduzione orchestrale. Un certo anelito a un'impossibile purezza ceciliana trapela dal lento sillabare, inframmezzato da pause suggestive, delle voci, tese a una esteriore mimesi delle caste imitazioni palestriniane; troppa colorita enfasi gestuale gronda, in realtà, da tali note e ne costituisce la ragion d'essere e il segno dell'autenticità espressiva. Una siffatta temperie caratterizza pure il successivo quartetto dei soli «Quis est homo», impreziosito da un sensualissimo gruppetto wagneriano che ricorre nelle quattro voci sovrapponentisi in libere entrate canoniche. Anche l'orchestra asseconda il canto con disegni più flessuosi e vocalistici. Vario di inflessioni ed accenti, il quartetto si conclude nel contrasto fra i risentimenti melodrammatici del basso («Pro peccatis») e l'impressionante mormorio delle voci inchiodate sull'unisono di un mi afono e spento («Vidit suum dulcem natum») di cherubiniana memoria. Dopo il già ricordato «Eja Mater», affidato al coro, il susseguente «Fac ut ardeat» ripropone l'eloquente intervento del basso solista che predomina sull'intero episodio, mentre un coro femminile sillabato, sostenuto dalle note dell'organo, gli fa alternativamente da sfondo: il teatrale effetto ottenuto è indicativo dell'innata, ingenua estroversione illustrativa del talento di Dvorak, fedele ai propri moduli espressivi anche nella manifestazione di una religiosità indubbiamente autentica e profondamente sentita.

Il quinto episodio, tra i più felici dell'intera composizione, si articola al ritmo ideale di una pastorale animata da una sottile inquietudine che verso la metà del brano esplode in cruda concitazione drammatica («Tui Nati vulnerati»); nel complesso, si tratta di uno tra i rari momenti dello Stabat in cui l'espressione musicale, sotto la suggestione di modelli classici (e quello di Bach, con le sue arie e i suoi cori in ritmo di pastorale, appare evidente) si affina e si interiorizza dietro lo schermo di una simbologia rettorica ricuperata con intenti allusivi: l'umanità di Cristo collegata alla Natività e alle sue tipiche raffigurazioni musicali. Il brano successivo, «Fac me vere tecum fiere» trae, al contrario, la sua forza di persuasione dalla sin troppo facile cantabilità del «solo» tenorile, che vi si effonde in frasi simmetriche alternate, come già nel «Fac ut ardeat», alle risposte del coro. Tale esuberanza melodica, nel «Virgo virginum praeclara», affidato al coro, si decanta in puri accenti di quasi classica compostezza, appena agitata da una più vibrata declamazione alle parole «fac me tecum piangere». Una ricorrente figurazione ritmica, costruita da due semicrome e una croma, è la struttura predominante del duetto Soprano-Tenore su «Fac ut portem»: essa percorre l'intera compagine orchestrale, ora contrapponendosi alle melodie intrecciate delle due voci, ora al canto dispiegato dei violini, immergendosi e riaffiorando da una scrittura orchestrale di particolare ricercatezza. L'«Inflammatus» è un solo di contralto, animato da enfasi melodrammatica sopra un vigoroso inciso dell'orchestra; mentre nell'ultimo e più vasto episodio, «Quando corpus morietur», la composizione tende a raggiungere un'ideale unitarietà inventiva atraverso il ricupero e la rielaborazione, in un più complesso quadro formale, di tutti quegli elementi che costituivano le strutture della parte introduttiva: in primo luogo, del tema fondamentale, che qui riappare potenziato e come esaltato da un più sontuoso apparato timbrico e polifonico.


Testo (nota 3)

N. 1 - QUARTETTO E CORO
(Andante con moto - Molto tranquillo)
Stabat Mater dolorosa
juxta crucem lacrimosa,
dum pendebat Filius.
Cuius animam gementem,
contristatam et dolentem
pertransivit gladius.
O quam tristis et afflicta
fuit illa benedicta
Mater Unigeniti,
Quae maerebat et dolebat,
[pia Mater] et tremebat, dum videbat
Nati poenas incliti.
Stava la madre dolorosa
Vicino alla Croce lacrimosa
Mentre appeso stava il figlio.
La cui anima gemente,
Rattristata e dolente
La spada colpì di taglio.
O quanto triste e afflitta
Fu lei benedetta
Madre dell'Unigenito!
Quanto si rattristava e si doleva,
La pia Madre tremava, mentre vedeva
Le pene dell'inclito suo Nato.
N. 2 - QUARTETTO
(Andante sostenuto)
Quis est homo, qui non fleret,
Matrem Christi si videret
in tanto supplicio?
Quis non posset contristar!,
Christi Matrem contemplari
dolentem cum Filio?
Pro peccatis suae gentis
Jesum vidit in tormentis
et flagellis subditum,
Vidit suum dulcem Natum
moriendo desolatum
dum emisit spiritum.
Chi tra gli uomini non piangerebbe
Se la madre di Cristo vedesse
In tanto supplizio?
Chi non si potrebbe rattristare,
La Madre di Cristo nel contemplare
Dolente assieme al Figlio?
Per i peccati della sua gente
Vide Gesù tra i tormenti,
E ai flagelli sottostava.
Vide il suo dolce Nato
Morente, abbandonato,
Mentre lo spirito esalava.
N. 3 - CORO
(Andante con moto)
Eja Mater, fons amoris,
me sentire vim doloris
fac, ut tecum lugeam.
Madre, fonte dell'amore,
Fa' che io senta la forza del dolore
Fa' che con te io pianga!
N. 4 - BASSO SOLO E CORO
(Largo - Più mosso)
Fac, ut ardeat cor meum
in amando Christum Deum
ut sibi complaceam.
Sancta Mater, istud agas,
Crucifixi fige plagas
cordi meo valide.
Fa' che arda il cuore mio
Nell'amore di Cristo Dio,
A che gradito a sé divenga.
Santa Madre, ciò persegui,
Del crocifisso infiggi le piaghe
Al mio cuore con forza.
N. 5 - CORO
(Andante con moto quasi allegretto - Un poco più mosso)
Tui Nati vulnerati,
tam dignati pro me pati
poenas mecum divide.
Di tuo Figlio di ferite colpito
Che tanto per me di soffrire ha consentito,
Con me dividi le pene.
N. 6 - TENORE SOLO E CORO
(Andante con moto - Poco più mosso)
Fac me vere tecum fiere,
Crucifixo condolere,
donec ego vixero.
Juxta crucem tecum stare
te libenter sociare
in planctu desidero.
Fa' che con te io pianga,
Con Cristo crocifisso io mi dolga
Finché sarò in vita.
Vicino alla croce con te stare,
Unito a te volentieri
Nel cordoglio io voglio.
N. 7 - CORO
(Largo)
Virgo virginum praeclara,
mihi jam non sis amara,
fac me tecum plangere.
Vergine tra le vergini chiara,
A me non essere amara,
Fa che con te io pianga.
N. 8 - SOPRANO E TENORE
(Larghetto)
Fac, ut portem Christi mortem,
passionis fac consortem
et plagas recolere.
Fac me plagis vulnerari
cruce hac inebriarI
ob amorem Filii.
Fa' che la morte di Cristo io porti,
Della passione fammi parte
E delle piaghe sempre mi sovvenga.
Fa' che dalle piaghe io sia vulnerato,
Fa' che dalla croce io sia inebriato
Per amore del Figlio.
N. 9 - CONTRALTO SOLO
(Andante maestoso)
Inflammatus et accensus
per te, Virgo, sim defensus
in die judicii.
Fac me cruce custodiri,
morte Christi praemuniri,
confoveri gratia.
Dalle fiamme e dal fuoco
Da te, Vergine, io sia salvato
Nel giorno del giudizio.
Fa' che io sia protetto dalla Croce,
che io sia fortificato dalla morte di Cristo,
consolato dalla grazia.
N. 10 - QUARTETTO E CORO
(Andante con moto - Allegro molto)
Quando corpus morietur,
Fac, ut animae donetur
paradisi gloria.
Amen.
Quando il corpo morirà,
Fa' che all'anima sia data
Del Paradiso la gloria.
Amen.
(Traduzione di Emanuela Andreoni)

(1) Testo tratto dal programma di sala del concerto della Fondazione Arena di Verona,
Verona, 21 Aprile 2004
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 12 marzo 1978
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 8 marzo 2014


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Ultimo aggiornamento 15 marzo 2014