Concerto per clarinetto

con arpa e pianoforte

Musica: Aaron Copland (1900 - 1990)
Organico: clarinetto solista, arpa, pianoforte, archi
Composizione: 1947 - 1948
Prima esecuzione: New York, Carnegie Hall, 6 novembre 1950
Edizione: Boosey & Hawkes, New York
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Se è vero che la cultura europea - e quella musicale - sono caratterizzate da una atavica visione etnocentrica, i prodotti musicali d'oltreoceano subiscono, ad eccezione dell'operato dei maestri del jazz, un inconscio quanto ineluttabile confronto più o meno diretto con i modelli della tradizione occidentale, una tradizione nella quale sono stati anche assimilati, "ovviamente", compositori come Stravinsky e Bartók. Secondo un'ottica del genere il Concerto per clarinetto di Copland scritto nel 1948, sembra evocare fino alle prime battute dello Slowely and expressively in 3/4 un clima poetico tutto europeo o, per meglio dire, parigino. Impossibile non associare infatti questa apertura che ha la dilatazione di un valzer lento - sorta di agogica dello spirito, rarefatta e interiorizzata - al clima dell'Adagio assai, secondo movimento del Concerto in sol per pianoforte e orchestra di Maurice Ravel, che è del 1931, oppure a quello delle Danze per arpa e orchestra d'archi di Claude Debussy, che risalgono al 1904.

A ben riflettere, però, queste analogie si ridimensionano via via la composizione prende corpo. Privo com'è di suddivisioni nette fra un movimento e l'altro e senza far ricorso alla classica struttura sonatistica, il Concerto di Copland si distende nella prima parte in una forma A-A'-B-A" di chiara derivazione liederistica, con un avvio nella tonalità di Si minore in cui lo strumento solista assume i caratteri di un protagonismo a tratti lirico, a tratti pacato ed elegiaco ma sempre instabile, sia in senso armonico, sia melodico. Si noterà fra gli altri un episodio di intenso valore espressivo, alla 15ma misura e oltre, allorché la melopea si apre come stupefatta su un toccante Mi bemolle, "infiltratosi" in apparenza come nota di passaggio. L'instabilità orrizzontale che ha caratterizzato tutta la prima parte favorisce e rende meno programmatico il collegamento a un episodio centrale in Fa maggiore, nel quale la presenza di alcune misure in 5/4 "spezza" il flusso ritmico e contribuisce ad interrompere l'omogeneità del dialogo fra orchestra e strumento solista. Oltre tutto è proprio il clarinetto che, dimentico del clima meditativo nel quale si è mosso fino a questo punto, si abbandona ad alcuni salti "epici" di ottava e poi di decima, forse del tutto simili a quelle intonazioni nelle quali l'Europa ha creduto di riconoscere la voce dell'America attraverso Dvorak. L'omogeneità riconquistata poco dopo, nel ritorno alla tonalità di partenza, si stempera ben presto in un breve episodio che, senza soluzione di continuità, conclude la prima parte ma si lega altresì alla Cadenza del clarinetto. E proprio la Cadenza può essere considerata l'episodio che fa da cerniera dell'intera composizione. È in essa infatti che poco a poco si insinuano numerosi - e in fondo attesi - stilemi jazzistici grazie ai quali si sconfina direttamente nella seconda parte del Concerto, a conclusione di una vertiginosa scala cromatica ascendente di sedicesimi legati: unica concessione, finora, ad uno "slang" gershwiniano.

Appare evidente, in questo movimento che ha molti caratteri del divertimento, una minore consistenza strutturale e il ricorrere da una parte a una costante seppure irregolare frammentazione ritmica e melodica (è frequente il concatenarsi di gruppi di ritmi in 2 giustapposti a ritmi in 3), dall'altra a numerosi espedienti coloristici di mera estroversione timbrica. Un sound, in fondo, che ben conosciamo, essendo tipico di un sinfonismo stilisticamente ibrido in bilico tra generi diversi: il jazz d'intrattenimento, il virtuosismo delle bands di provincia oppure certe strepitose scores del cinema d'animazione. In ogni caso - come negli episodi che affidano al pianoforte e a violoncelli e contrabbassi "slap bass style" il dialogo col clarinetto in una gara d'impertinenza festosa e spesso ruvida - si tratta di sonorità profondamente americane, topoi di quel vitalismo meccanicistico ma anche imprevedibile, un pò puerile e un pò folle («tra grattacieli e praterie», come direbbe il musicologo inglese Wilfrid Mellers) sul quale nell'immediato dopoguerra si andava consolidando una società basata su un formidabile potere economico. In altre parole: il mito americano. Un mito del quale Copland è forse tra gli interpreti più amabili e sinceri.

Sergio Miceli

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Nel 1947 il compositore statunitense Aaron Copland ricevette da Benny Goodman, allora all'apice di una popolarità mondiale, l'invito a scrivere un concerto per clarinetto. Copland si accinse al lavoro quell'anno stesso, nel corso del soggiorno a Rio de Janeiro effettuato per tenere conferenze e dirigere l'orchestra. Tra le fonti che ispirano il Concerto per clarinetto c'è la musica popolare brasiliana, almeno un motivo della quale viene utilizzato da Copland nel movimento finale; ma la fonte primaria d'ispirazione è legata all'illustre committente e dedicatario, ed è costituita dalla musica jazz. La cadenza solistica e l'intero secondo movimento del Concerto accolgono materiali motivici, formule ritmiche, accentuazioni caratteristiche ed effetti orchestrali tipici di quella musica e di quello stile esecutivo. Copland invita anche, occasionalmente, i musicisti dell'orchestra "classica" ad adottare il particolare modo di suonare dei jazzisti, e dal momento che non ha a disposizione la nutrita batteria di percussioni di un'orchestra jazz, utilizza l'arpa e il pianoforte come palliativo, per ricreare effetti che suggeriscano quelle sonorità peculiari.

Va osservato, in ogni caso, che Copland non si limita alle assonanze vaghe nei confronti del jazz, ottenute deformando certi parametri del linguaggio musicale tradizionale, come avviene a volte per i musicisti di formazione classica. La sua conoscenza è ben più profonda: lo attestano sia il suo interesse duraturo (il jazz resta un riferimento importante nel suo stile musicale) sia il contatto con il mondo reale dei jazzisti. Copland coltiva rapporti con Duke Ellington, Albert Ammons, Lennie Tristano, Miles Davis, Charles Mingus tra gli altri; la sua musica, perciò, contiene riferimenti stilistici precisi a quel mondo e ne riflette, nel tempo, l'evoluzione.

Il Concerto è in una forma inusuale: due movimenti - il primo dei quali costituisce una sorta di lunga introduzione lenta - si succedono senza soluzione di continuità, collegati da una cadenza intermedia del solista. Il primo movimento (Slowly and expressively) è una pagina ispirata, pervasa da un lirismo intenso e controllato. Prende il via con qualche tocco dell'arpa e dei contrabbassi pizzicati, che introducono una successione di idee melodiche sinuose, simili tra loro; in questo clima di rèverie sospesa interviene una sezione intermedia più irrequieta e armonicamente più ardita, prima che la ripresa ristabilisca l'atmosfera iniziale. Il carattere meditativo e rapsodico di questo movimento è accentuato da un'orchestrazione diafana ma avvolgente, e dalla sonorità luminescente che apportano, aggiungendosi agli archi, l'arpa e il pianoforte. Questa pagina si è imposta nel repertorio del balletto, a partire dal momento in cui il coreografo Jerome Robbins decise di utilizzarla per il suo The Pied Piper (1951).

La cadenza del solista appare, in un primo momento, incoerente col movimento iniziale, dal momento che introduce subito una lunga serie di figure vivacemente ritmiche e sincopate; in realtà il suo significato si chiarisce alla luce del movimento finale, del quale anticipa stile e contenuto melodico. Il Rather fast che chiude il Concerto è pensato espressamente, come abbiamo ricordato, per le doti jazzistiche e lo stile esecutivo di Benny Goodman: di qui i temi sincopati, le sonorità crude, le allusioni allo stile del ragtime e al caratteristico modo di suonare del celebre sestetto di Goodman. Alcuni materiali, comunque, provengono più dalla musica popolare latino-americana che dal jazz; come riconobbe lo stesso Copland, il suo finale nasce «da una fusione inconscia di elementi chiaramente imparentati con la musica popolare del Nord e del Sudamerica (per esempio la frase di una melodia popolare brasiliana, da me ascoltata a Rio, è stata inglobata nel materiale secondario)». Il materiale melodico del movimento viene alterato e ricombinato continuamente (la forma è una sorta di libero rondò, ricco di idee secondarie elaborate); a un certo punto Copland ricrea in modo ancora più preciso l'effetto di un'orchestra jazz chiedendo ai contrabbassi di suonare pizzicando le corde nel modo caratteristico, in «slap bass style». Alla fine una coda elaborata e virtuosistica spinge il clarinetto nell'estremo registro acuto e chiede al solista di chiudere con un lungo glissando, richiamandosi all'effetto forse più caratteristico dei clarinettisti jazz.

Claudio Toscani


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 4 febbraio 1990
(2) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 240 della rivista Amadeus


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Ultimo aggiornamento 28 gennaio 2017