Pubblicata intorno al 1794 da Longman and Broderip con il numero d'opus 33 n. 2, la Sonata in sol maggiore op. 37 n. 2, fu accolta dallo stesso Clementi nel IX volume delle sue Oeuvres complettes. Non è un caso che il frontespizio dell'edizione originale preveda la sua destinazione al pianoforte (e non come era d'uso, in alternativa, al cembalo); la Sonata ha infatti un carattere inconfondibilmente pianistico, come è agevole giudicare sin dalle prime battute, nelle quali il primo tema viene presentato sulla risonanza preziosa di un lungo pedale di tonica. Questa figura tematica, (che ricorda nella sua pacata serenità lo Haydn delle Sinfonie londinesi) è in qualche modo la protagonista assoluta del primo tempo, in quanto la seconda idea non è altro che una sua elaborazione contrappuntistica. Ma anche in mancanza di un contrasto tematico, il brano possiede una discorsività ricca di chiaroscuri: alla relativa staticità armonica dell'esposizione succede nello sviluppo un più complesso e tormentato itinerario tonale, un movimentato fiorire e richiamarsi di idee e di diversificate atmosfere timbriche, un rapido alternarsi di contrastanti situazioni strumentali che dilatano le possibilità del pianoforte (secondo una consuetudine cara a Clementi) sino a richiamare la sonorità di un ideale complesso orchestrale. La ripresa del tema principale riconduce alla serena atmosfera dell'esordio, predisponendo alla solenne tonalità espressiva del successivo Adagio maestoso; il quale, nella severa condotta contrappuntistica delle parti e nel nobilissimo respiro lirico che ne sostiene lo sviluppo formale, sembra accennare ai lontani, limpidissimi orizzonti dell'ultima stagione creativa beethoveniana. Al più tipico e spumeggiante gusto dell'opera buffa settecentesca, riconduce invece l'ultimo tempo Allegro con spirito; ma si avverte che qui lo humor non è immediato, ma riflesso e come alla seconda potenza. La gestualità teatrale dei temi è spogliata della sua prorompente, istintiva carica vitale per essere assunta nel gioco levigato della forma strumentale. La quale mantiene tuttavia, delle sue matrici comiche e spettacolari, il dinamismo brioso e frizzante; ma ne fa l'intima linfa di un perfetto quanto astratto meccanismo, che si consegna, al di là della macerata consapevolezza stilistica, con il sorriso ingenuo e luminoso di una riconquistata classicità.
Francesco Degrada