Messa in fa maggiore "Messa di Chimay"

per soli, coro e orchestra

Musica: Luigi Cherubini (1760 - 1842)
  1. Kyrie - Sostenuto
  2. Gloria - Allegro vivace. Andante con moto. Sostenuto. Andante con moto
  3. Credo - Allegro moderato. Larghetto. Largo moderato. Allegro. Presto (si bemolle maggiore)
  4. Sanctus - Maestoso assai (re maggiore)
  5. Agnus Dei - Sostenuto (fa maggiore)
Organico: soprano, tenore, basso, coro misto, orchestra
Composizione: 1808
Edizione: Magasin de Musique, Parigi, 1809
Guida all'ascolto (nota 1)

La Messa in fa maggiore, detta anche Messa di Chimay, dal nome della località dove fu composta, segna la ripresa dell'attività creatrice di Cherubini dopo quasi due anni di silenzio, dovuto probabilmente allo scarso successo con cui erano state accolte le sue ultime opere, all'antipatia dimostratagli - e non soltanto a parole - da Napoleone, ma anche a una profonda "crisi spirituale" sulla quale non abbiamo notizie precise, ma che tutto l'atteggiamento del musicista fiorentino, fra la primavera del 1806 e l'autunno del 1808, rivela. In questi due anni infatti, se Cherubini continua ad insegnare al Conservatorio di Parigi (ha una famiglia da mantenere) all'infuori delle lezioni non vuol sentire parlare più di musica. Si occupa attivamente di botanica, dipinge molto, ma i suoi amici sanno che non gli si deve più parlare di quella che fu la sua arte prediletta.

Nell'estate del 1808 accettò l'invito della contessa Caraman-Chimay (era l'ex-Madame Tallien) di passare le vacanze nel feudo di questa. Al castello v'era sempre un folto gruppo di ospiti, tutti più o meno appassionati di musica. Ma Cherubini dalla mattina alla sera era sempre fuori per boschi e prati col suo cavalletto da pittore e coi suoi arnesi da botanico. Chi intrattiene gli ospiti melomani è Daniel Auber, dilettante e buon improvvisatore, amico fedelissimo e allievo di Cherubini. Il fiorentino, si direbbe, ha dimenticato la musica.

Ma avvicinandosi la festa di Santa Cecilia (la Santa dei musicisti) i fabbriceri della Chiesa pensarono di chiedere a Cherubini di scrivere una Messa per l'occasione. Il musicista montò su tutte le furie, e la commissione si ritirò un poco spaurita. Ma l'indomani Cherubini, quando uscì, non aveva né il cavalletto, né gli attrezzi del botanista: vagò tutto il giorno per la campagna, pensoso e meditabondo. Il giorno seguente non uscì di casa: cominciò a comporre il Kyrie con una serenità, con una facilità davvero insperata. Dopo qualche giorno il Kyrie era finito, e Cherubini lo mostrò ad Auber che gli propose subito di provarlo. Auber al pianoforte, il conte Chimay canta la parte del tenore, M.me Duchambge quella di soprano ed il maestro quella del basso (la composizione è a tre voci perché la modesta cappella di Chimay non disponeva di un coro completo). L'impressione è grandissima, e Cherubini compose ancora in pochi giorni, anche il Gloria. Ma la festa di Santa Cecilia è ormai imminente, e nella modesta cappella non si possono eseguire che i due primi brani della Messa. Il mese seguente Cherubini ritorna a Parigi e termina il lavoro con la stessa freschezza d'ispirazione con cui ha cominciato; e nell'inverno del 1809 la Messa è eseguita per intero nell'Hotel de Babylon, residenza parigina dei Caraman-Chimay dinanzi ad un pubblico di personalità d'ogni genere. Il successo fu immenso, e il cardinal Caprara, presente, disse a Cherubini: «Figliuolo, voi siete ben degno di cantare le lodi di Dio».

Composta per coro (a tre voci) e soli, e per un'orchestra dalla quale sono esclusi gli oboi e i tromboni e che comporta un solo flauto, due clarinetti, due fagotti, due corni, due trombe, timpano e quintetto d"archi, questa Messa è considerata non solamente il capolavoro di Cherubini, ma uno dei capolavori autentici della musica sacra. Giulio Confalonieri, nel suo prezioso libro su Cherubini, scrive: «...questa Messa racchiude nella sua intimità più profonda un vago senso pastorale, un raccoglimento d'uomo solitario che incontra Iddio senza troppi fulgori di luci, senza gran pompa di suoni osannanti; lo stupore di un botanico che nel verde della natura vede stemperarsi gli arcobaleni celesti. Non è soltanto per la tonalità di fa maggiore ch'io vorrei chiamare Pastorale la Messa di Chimay, così come Pastorale fu detta la VI Sinfonia di Beethoven, ma perché queste due opere, presso a poco coeve, rispecchiano in senso generale la pacificazione dei loro due autori e rappresentano quel momento nel quale anche il dolore va assumendo una sua segreta dolcezza».

Lavoro di ampie proporzioni e di vasto respiro, questa Messa in fa è costituita dalle cinque "parti fisse" (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Benedictus, Agnus Dei) della Messa, ognuno delle quali dà luogo ad una ampia e solida costruzione musicale, armoniosa nelle proporzioni, di una straordinaria potenza espressiva; ed è la rivelazione della sensibilità profonda e di quel sentimento mistico «dell'onest'uomo che ha stretto un patto indissolubile con la verità e che nella propria arte vede un potere costitutivo, pieno di misteri, cui bisogna inchinarsi...».

Per un'analisi dettagliata della Messa vale la pena di riportare quanto dice il già citato Confalonieri: «Il Kyrie comprende duecentoventi battute e incomincia con un sostenuto a quattro quarti in fa maggiore. I primi violini, accompagnati dagli altri archi e sorretti da accordi dei fiati intonano una melodia dolce e pensosa, che conclude alla "dominante" dopo sedici battute d'ininterrotto cantare, attraverso una deviazione nel somigliante minore e attraverso varietà di disegno. Già subito, da questa melodia iniziale, noi abbiamo l'immagine di un Cherubini mutato. L'osservanza del periodare quaternario, da lui così spesso abbandonata in passato; quel modo tutto proprio ai grandi autori di saper scoprire nel corso di una melodia lunghissima e nell'apparente autonomia, anzi antinomia dei suoi membri, rapporti di espressione siffatti per cui noi, giunti alla fine, riceviamo l'impressione di un'unità superiore e quasi di una sintesi ideale che compone tutte le differenze e tutti i contrasti; un abbandono più felice al disinteressato lirismo e uno scorrere più libero dei disegni, tutto questo, così manifesto nell'attacco del Kyrie, ci induce a credere che non pochi elementi della musica teatrale cherubiniana venissero dettati al maestro più da una convinzione logica che da una fatalità immaginativa.

Conchiusa sulla "dominante" la lunga frase melodica dei violini e gettato un breve ponte per il ritorno alla tonica, Cherubini introduce alla diciassettesima battuta il coro pianissimo.

Questo sembra dapprima procedere per lunghe armonie, avocando a sé l'ufficio che nell'introduzione era stato affidato agli strumenti a fiato; ma ben presto, mentre gli archi continuano il loro disegno, anch'essa si va concretando in eloquenza melodica e, attraendo a sé tutta l'orchestra, sale cromaticamente sino a spegnersi in un accordo di la maggiore. Così si chiude la prima invocazione Kyrie eleison, tre volte ripetuta nelle parole del testo.

La seconda invocazione, Christe eleison, è una fuga in allegretto a tre quarti cantata dal soprano, dal tenore e dal basso solisti. La fuga è soltanto nelle tre voci del canto, perché l'orchestra coltiva un disegno indipendente, una specie di mormorio acquatico che insiste nei violini secondi e vien punteggiato da sospiri delicati dei primi e delle viole. Il pedale sulla "dominante" (uno dei passaggi obbligati della fuga tradizionale) prende qui l'aspetto di una cornamusa, tanto vivo e facile alle allusioni è il carattere pastorale del pezzo. Innalzatosi sopra un crescendo che conduce appunto a codesto pedale, il corso della polifonia si smorza negli ultimi eleison; poi, mediante una ripresa dell'introduzione orchestrale, riammette il Kyrie nella forma primitiva.

Il carattere trionfale della preghiera informa tutto il Gloria nel suo più generale disegno. Alle prime battute, mediante un inciso che noi potremmo chiamar popolare nel senso più alto del termine. Cherubini interpreta la giubilazione della Notte angelica come un grande grido collettivo. Egli si confonde dentro l'innumerabiliià della Chiesa cattolica; e al posto del singolo uomo pone le infinite falangi dei credenti, i martiri e i santi, i beati e i peccatori, tutti quelli che con le loro varietà discordanti formano il corpo unico e immenso del Cristianesimo, il popolo eterno del Cristo. Cherubini è così attaccato al senso generale celebrativo del Gloria che, durante tutto il suo decorso, pur distinguendo varie parti e costruendo in base ad esse altrettanti pezzi di diverso carattere (pratica già in germe dall'epoca palestriniana) ritorna per ben quattro volte a quel giubilante tema iniziale.

Il "Laudamus te, benedicimus te" (Andante con moto in tre quarti) ha un carattere più intimo, più raccolto e viene alternato fra i soli ed il coro. È uno dei più alti brani di tutta la Messa, dove gli strumenti lavorano per conto loro un disegno di straordinaria potenza espressiva.

Dopo un ritorno del Gloria in excelsis, un sostenuto a quattro quarti in re minore introduce il "Qui tollis peccata mundi miserere nobis". Questo pezzo, che l'ininterrotta rinascenza dell'armonia rende un prodigio d'invenzione dal nulla, è uno di quelli (io credo) dove i puristi possono trovare della drammaticità o del teatro. Perché qui noi ci troviamo di fronte all'individuo singolo, concentrato nel suo pensiero, memore di quanto nella vita non ha saputo comprendere e del nascosto terrore che ha sempre accompagnato i suoi giorni mortali. L'esistere si esprime in contrasti, in ribellioni e in soggiacenze; dualismo popolare dell'anima e dello spirito, dissidio filosofico della ragione pura e della ragione pratica; inaccettabilità del dolore caduta nel peccato. Dramma, dunque, e teatro, per la volontà storica che spinge a rappresentare tutto questo.

Dopo la bellissima apostrofe "Quoniam tu solus" (unisono delle voci e contrappunto in sedicesimi dell'orchestra), passando per l'espressiva enarmonia del "Tu solus Dominus", si giunge alla fuga finale (allegro in quattro parti) "In gloria Dei patris amen". In questo brano trascinante costruito sopra un soggetto di gran risalto ritmico e di festosa letizia, tanto più rilevabile per la varietà degl intrecci ottenuti con sole tre voci e per il modo con cui l'orchestra interviene a poco a poco a rinforzare la polifonia, il magistero tecnico di Cherubini si manifesta in tutta la sua naturalezza e in tutta la sua potenza di far cantare le parti.

Il Credo, che da sé solo comprende più di un terzo dell'intero lavoro, venne sempre considerato come l'acme espressivo di questa Messa. Impiantato nella tonalità generale di si bemolle, esso consta di un allegro moderato in quattro quarti che si estende sino alle parole "descendit de coelo", di un larghetto in tre quarti all'"lncarnatus est"; di un "Crucifixus", largo moderato in quattro quarti; di un allegro in quattro quarti che attraverso varie fratture di pensiero e di ritmo spazia dal "resurrexit" sino all'"expecto resurrectionem mortuorum", e di una fuga finale (Presto, in tre quarti) sull'"et vitam venturi saeculi amen".

Sino all"Tncarnatus" l'orchestra ha una parte di grande protagonista, con tre disegni indipendenti; il primo, dei violini, spezzato in pause e in larghi intervalli, rafforzato da un trillo; il secondo, dei fiati, che ritmano le armonie sul secondo e terzo movimento della battuta; il terzo, di violoncelli e contrabbassi, che camminano senza respiri e con ininterrotta progressione. Sullo sviluppo di questi tre disegni simultanei, il coro introduce per imitazioni una melodia di spiccato sapore liturgico, probabilmente la trasposizione di un cantus firmus antico; e dopo le parole "factorem coeli et terrae" esso ripete per due volte, in unisono, l'affermazione "credo" su lunghi intervalli di quinta discendente. Il procedimento di isolare dal testo la parola "credo" e di ripeterla lungo il corso del pezzo era già stato usato da Mozart; ma qui Cherubini, oltre che della parola in se stessa, tiene calcolo della sua sigla musicale, e questa adoperando poi anche in orchestra come puro valore melodico intessuto dentro brani che non dipendono affatto da quello iniziale, perviene a un risultato di vero motivo conduttore, non altrimenti di quanto aveva già praticato (sia pure embrionalmente) in taluna delle sue opere teatrali.

Allo stacco dell'"lncarnatus" il flauto e i clarinetti ricantano dolcemente le due quinte discendenti del "Credo" e dopo l'introduzione orchestrale si ode la melodia del soprano, ripresa dal tenore e quindi il basso, accompagnato da soli due corni, conchiude il grande mistero "et homo factus est". Nel "Crucifixus" si respira un senso di solitudine con i pizzicati profondi dei bassi, le note lunghe del fagotto e delle viole, gli arpeggi spezzati dei violini e il coro in pianissimo.

Prima del "passus et sepultus est" il flauto e il clarinetto, in ottava, sospirano un inciso melodico di estrema tristezza. Il timpano, che da lungo tempo taceva, rulla "coperto" e sempre pianissimo; le voci, ormai scarnificate in unisono spezzate da pause financo tra una sillaba e l'altra, scendono nelle più profonde zone del loro registro; l'inciso del flauto e del clarinetto si frantuma, si riduce a tre singhiozzi sui tempi deboli della battuta e tutto ristà immobile, inconcluso, incomprensibile su un'opaca armonia di settima diminuita.

Al "resurrexit". tutte le tre voci del coro e l'orchestra ascendono con movimenti diversi verso un'inebriante letizia. Nello "Spiritum Sanctum" i legni tracciano una concatenazione armonica di ritardi dove la nota risolta diventa nota dissonante dell'accordo successivo, e incidono così vari periodi melodici in forma quasi di corali. I violini hanno un movimento ostinato in ottavi (tuttavia assai cantabile) il quale immette nell'armonie dei legni appoggiature armoniche arditissime; i bassi, in pizzicato sui quarti delle battute, seguono un disegno loro che spesse volte anticipa le risoluzioni dei legni; le voci soliste (prima il soprano, poi il basso, poi il tenore e infine tutte e tre insieme) spaziano in larghe frasi modulanti che le quinte del "credo credo" riassumono e ricollegano fra di loro. Dopo un brusco trapasso in cui l'orchestra tace e le sole voci sussurrano l'"expecto resurrectionem mortuorum", incomincia la gran fuga finale (presto) "et vitam venturi saeculi amen". Con questo pezzo di magistero insuperabile e di suono corale perfetto, vera danza sacra in cui tutti i moti celesti e le orbite stellari sembrano aver lasciato un'immagine, il Credo ha termine

Dopo il Sanctus e l''Hosanna", pagine di straordinario effetto sonoro, si giunge al Benedictus, in cui Cherubini ha costruito un tempio di musica, come un adagio di sinfonia nel quale le tre voci soliste emergono alla superficie del tessuto orchestrale.

Ed eccoci, alla fine. all'Agnus Dei, in cui è necessario distinguere due parti. La prima (sostenuto in fa minore, quattro parti) rappresenta una delle più grandi ispirazioni cherubiniane con il coro che incominciando il suo canto conchiude la frase oscura e fatale dei legni, con i solisti i quali, dopo ognuna delle due prime invocazioni, ("Agnus Dei qui tollis peccata mundi"), si umiliano nel "miserere nobis" e mormorano le parole di pietà più a se stessi che a Dio, con l'ultimo impressionante grido in fortissimo sopra un pedale di "dominante", attraversato da disperati arpeggi degli archi e da colpi di timpano ben presto mutati in un tragico rullìo; la seconda parte ("dona nobis pacem") fuga in fa maggiore, allegro, è un brano di fattura tecnica trascendentale, ricchissimo di sorprendenti novità contrappuntistiche e armoniche, di abilità nel trattamento delle voci, ma sicuramente lontano da un'espressione viva e profonda del testo.


Testo

KYRIE

Kyrie eleison, Kyrie eleison, Kyrie eleison.
Christe eleison, Christe eleison, Christe eleison.
Kyrie eleison. Kyrie eleison, Kyrie eleison.

GLORIA

Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis. Laudamus te, benedicimus te, adoramus te, glorificamus te. Gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam, Domine Deus, Rex coelestis, Deus Pater omnipotens, Domine, Fili Unigenite, Jesu Christe, Domine Deus, Agnus Dei, Filius Patris. Qui tollis peccata mundi, miserere nobis, suscipe deprecationem nostram. Qui sedes ad dexteram Patris, miserere nobis. Quoniam Tu solus sanctus, Tu solus Dominus, Tu solus altissimus, Jesu Christe. Cum sancto Spiritu, in gloria Dei Patris. Amen.

CREDO

Credo in unum Deum Patrem omnipotentem, factorem coeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium; et in unum Dominum Jesum Christum, Filium Dei Unigenitum, et ex Patre natum ante omnia saecula, Deum de Deo, lumen de lumine, Deum verum de Deo vero, genitum, non factum, consubstantialem Patri, per quem omnia facta sunt; qui propter nos homines et propter nostram salutem descendit de coelis. Et incarnatus est de Spiritu Sancto, ex Maria Virgine, et homo factus est; crucifixus etiam pro nobis sub Pontio Pilato, passus et sepultus est; et resurrexit tertia die, secundum scripturas, et ascendit in coelum, sedet ad dexteram Patris; et iterum venturus est cum gloria, judicare vivos et mortuos, cujus regni non erit finis.
Credo in Spiritum Sanctum Dominum et vivificantem, qui ex Patre Filioque procedit, qui cum Patre et Filio simul adoralur et conglorificatur, qui locutus est per Prophetas. Et in unam sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam. Confiteor unum baptisma, in remissionem peccatorum. Et expecto resurrectionem mortuorum, et vitam venturi saeculi. Amen.

SANCTUS

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaoth. Pieni sunt coeli et terra gloria tua. Hosanna in excelsis.

BENEDICTUS

Benedictus Qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis.

AGNUS DEI

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem.
(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 16 settembre 1985


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Ultimo aggiornamento 1 ottobre 2015