Lodoiska

Commedia eroica in tre atti

Musica: Luigi Cherubini (1760 - 1842)
Libretto: Claude-François Fillette-Loraux da Jean-Baptiste Louvet de Couvrais Les Amours du Chevalier Faublas

Ruoli:

Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, trombone, timpani, archi
Composizione: 1791
Prima rappresentazione: Parigi, Théâtre Feydeau, 18 luglio 1791
Edizione: Naderman, Parigi, 1791
Sinossi

La vicenda è ricavata da un episodio (Une année de la vie du chevalier de Faublas) tratto dal romanzo amoroso Les amours du chevalier de Faublas, pubblicato in 19 puntate da Jean-Baptiste Louvet de Couvray fra il 1787 e il 1790.

L'azione si svolge in Polonia, ai confini con la Russia, nella foresta di Ostropol intorno all'anno 1600.

Antefatto
Un nobile polacco, opponendosi per motivi politici all'unione tra il conte Floreski e la propria figlia Lodoiska, ha affidato la giovane all'amico barone Durlinski. Questi è in realtà un uomo malvagio e vorrebbe far sua Lodoiska approfittando della morte del padre.

Atto Primo
L'opera ha inizio nel momento in cui i tartari capeggiati da Titzikàn si apprestano ad assalire il castello del barone Durlinski, per vendicarsi dei soprusi subiti in passato.
Frattanto, accompagnato dal servo Varbel, Floreski gira la Polonia in cerca dell'amata Lodoiska. Giunto nei pressi del castello si scontra con Titzikàn: ha luogo un duello in cui Floreski ha la meglio, ma decide di risparmiare la vita di Titzikàn, ottenendo così la stima e l'amicizia dei tartari. Dalla torre del castello cade una pietra sulla quale è inciso un messaggio di disperazione: quello di Lodoiska che invoca l'aiuto del suo amato. Varbel suggerisce allora di introdursi nel castello sotto falsa identità: quella del fratello di Lodoiska. Senza esitare, i due giovani suonano al portale che viene aperto da Altamoras, scudiero di Durlinski.

Atto Secondo
Altamoras conduce Lodoiska, accompagnata dalla balia Lysinka, in una galleria del castello. La prospettiva di rivedere Floreski riempie di speranza il cuore della fanciulla. Dopo aver congedato Lysinka, Durlinski annuncia a Lodoiska l'intenzione di sposarla, anche con la forza se necessario. Allo scopo di vincere la sua resistenza la rinchiude nella segreta più cupa del castello, poi, dopo aver giurato di non lasciar mai avvicinare Floreski a Lodoiska, accoglie gli stranieri che si erano presentati al castello. Floreski si dice inviato dalla madre di Lodoiska, impaziente di ritrovare la figlia, ma Durlinski asserisce che la ragazza non è più al castello. Pur con la massima diffidenza, egli concede a Floreski asilo per la notte. Per sua fortuna, Varbel ha colto una conversazione tra Durlinski e Altamoras, la quale lascia intendere che il barone si appresta a versare un sonnifero nel loro pasto serale. Scambiate le coppe con quelle degli emissari di Durlinski, i due visitatori tentano di fuggire, ma sono sorpresi e imprigionati dal barone.

Atto Terzo
Durlinski ha deciso di usare Floreski per fare pressione su Lodoiska. Apprendendo la sorte del suo innamorato, la fanciulla si dispera. Durlinski le offre la sua mano in cambio della vita di Floreski, ma il conte le proibisce un simile sacrificio. Nel momento in cui gli innamorati si preparano a morire, si ode all'improvviso un colpo di cannone: i Tartari attaccano il castello. Altamoras allontana Lodoiska mentre la battaglia infuria. Dopo aver trionfato sulle forze di Durlinski, Titzikàn arma il braccio di Floreski che corre a salvare la sua amata da una torre in fiamme. Durlinski e Altamoras vengono fatti prigionieri, l'amore trionfa.

Guida all'ascolto (nota 1)

L'acquisizione del linguaggio sinfonico come strumento privilegiato e peculiare di drammaturgia è ormai, per il Cherubini dagli anni Novanta del Settecento in poi, un dato definitivo, solo suscettibile di affinamento e di penetrazione assoluta in ogni recesso della morfologia. È quanto si verifica in Lodoiska, per la quale sembra giocoforza ricorrere a un parallelo mozartiano, quello con l'Entführung: vera epifania di un inaudito teatro in musica, quasi biblica colomba che lieta e sicura sorvoli un continente rimasto con gli occhi stupefatti puntati in alto. Anche per Cherubini il recipiente teatrale e il suo luogo deputato saranno questa volta tanto più cordiali e malleabili di quelli dell'aulica tragédie lyrique e della sua sede istituzionale. L'impegno contrattuale stipulato con il Théâtre de Monsieur orienterà infatti per almeno un decennio le sue scelte verso il genere minore della tradizione operistica francese, quello dell'opéra-comique, di casa, insieme con il vaudeville, la commedia di parola e per qualche tempo ancora l'opera buffa italiana, nella nuova sala costruita nel 1790 lungo la Rue Feydeau, toponimo che con l'incalzare degli eventi rivoluzionari essa assumerà.

Al di là dei vari Hymnes à la Fraternité, au Panthéon, pour la Fête de la Jeunesse, à l'Agriculture, con cui pagherà il suo occasionale tributo di citoyen compositeur, lo sguardo del trentenne operista italiano déraciné volerà alto sulla spicciola propaganda teatrale di regime cui attende la più parte dei suoi colleghi. Nel Catalogue général par ordre chronologique des ouvrages composés par moi, diligentemente compilato e aggiornato sino alla morte, invano troveremmo titoli del genere di Denys le Tyran o La rosière républicaine di Grétry, Les rigueurs du cloître di Berton, Les Visitandines di Devienne, Horatius Coclés di Méhul. Pièce à sauvetage, Rettungsoper sono le denominazioni postume con cui la musicologia battezzerà il nuovo genere di spettacolo musicale francese (germogliato in realtà dal vecchio tronco dell'opéra-comique, via via inturgidito da tematiche le più disparate) che conquisterà l'Europa sull'onda alluvionale napoleonica, quasi ovunque sostituendo in una nuova, effimera colonizzazione quella tradizionale dell'opera italiana.

Note ne sono ormai le costanti strutture di base, consistenti, di là delle epoche e dei soggetti trattati, nel dramma privato di una coppia giovane e innamorata, vessata da un potere prevaricatore dal quale verrà fortunosamente liberata da un provvidenziale colpo di scena. Le romanzesche peripezie attraverso cui i due protagonisti tentano la loro liberazione avvengono con l'aiuto generoso di un personaggio di estrazione umile ma di sentimenti nobili non disgiunti da un umor faceto (labile traccia del bouffon tipeggiato nel vecchio opéra-comique). Giunta alla penultima scena, l'operazione di sauvetage sta per finire male; ma proprio quando tutto sembra perduto, ecco che un provvidenziale intervento politico sopravviene a sciogliere ogni nodo e a riparare ogni torto, dirottando la vicenda verso un raggiante lieto fine.

Nel descrivere tale paradigma, che trova in Lodoiska (1791) e nelle Deux journées (1800) gli esemplari di una parabola destinata a produrre, tacendo d'altro, quella Léonore ou L'amour coniugal (1798) da cui germoglierà Fidelio, si è ricorsi all'aggettivo "politico". Di là degli intenti anche impliciti di una comunicazione ideologica ravvisabile in un teatro di regime che più che mai se ne sta scoprendo potente cassa di risonanza, non si può altrimenti definire la secolare brama di giustizia riparatrice che sottende a un siffatto sistema drammaturgico: dove politica e non genericamente consolatoria è la legge del lieto fine; dove alla celeste apparizione di un deus ex machina, emblema di un'inattingibile volontà superna, subentrano gl'interventi, decisamente immanenti e a misura e giudizio dello spettatore citoyen, del partigiano tartaro con le sue squadre d'azione, del ministro probo mandato a porre fine gli abusi di potere, del semplice e coraggioso acquaiolo che tra uno scherzo e un bon mot elude gli sgherri di Mazzarino nascondendo il proscritto conte Armand nella botte vuota. Episodi di vita vissuta, che l'ethos comune di quella moderna età del ferro riscatta, a ben vedere, dal cieco odio di classe ed eleva ad una dimensione epica non aliena da un certo anelito religioso. Quel "Ciel," quella "celeste Providence" tanto frequentemente invocati nelle espressioni di supplica come nei rendimenti di grazie, sì da farne paradossalmente, in tempi di istituzionale laicismo, la sola espressione di una sorta di religio non ideologica ma schiettamente spontanea e popolare.

Tra il 1787 e il 1790 uscivano a Parigi i diciannove fascicoli del romanzo a dispense Les amours du chevalier de Faublas (titolo definitivo), tra gli ultimi esempi di una letteratura galante settecentesca ormai svaporata a tenue repertorio di luoghi comuni e chiacchiericci da boudoir, conditi di sospiroso sentimentalismo. Libraio, gazzettiere di tendenze girondine distintosi per le sue accese crociate divorziste, poi termidoriano e deputato alla Convenzione, jean-Baptiste Louvet de Couvray (1760-1797) vi racconta le imprese erotiche di un giovane cadetto di provincia piovuto a Parigi per dirozzarsi e compiervi il regolamentare apprendistato amoroso sui canapè delle solite dame compiacenti. Tra un'avventura e l'altra, frequentando il parlatorio del convento che accoglie la sorella, Faublas v'incontra l'educanda Sophie e se ne innamora. Finirà per sposarla, non senza avere affrontato peripezie di ogni genere che gli consentiranno di conoscere la vera identità della fanciulla: non Sophie, ma Dorliska, figlia perduta e ritrovata di Lovzinski (alias Monsieur du Portail) e di Lodoiska. Chi avrà letto sino alla fine il romanzo, apprenderà che Lodoiska è, per così dire, la sua eroina trasversale, protagonista di una storia nella storia che il nostro cavaliere va episodicamente narrando al suo ospite e mentore Lovzinski, un nobile polacco giunto a Parigi con falso nome e trascorsi burrascosi.

Enucleare tale storia dal suo contesto e nel sostanziale rispetto del suo svolgimento, salvo il mutar nome a due personaggi (Lovzinski e Boleslao, che diverranno Floreski e Varbel), l'addizionarvi qualche funzionale parte di fianco (la confidente Lysinka, lo scherano Altamoras, il tartaro Talma), e ricavarne una pièce à sauvetage in tre atti, sarà compito, svolto con maggior abilità teatrale che letteraria, di Claude-Francois Fillette dit Loraux (1753-1821), un impiegato dell'amministrazione statale, poeta dilettante e amico di Cherubini che gli chiese un libretto da porre in musica per il Feydeau. Gettare la polpa di un frutto tardivo della letteratura erotica settecentesca, con i suoi molteplici travestimenti incrociati nel gusto di Così fan tutte e il campionario delle confusioni sessuali e situazioni piccanti che ne derivano, per salvarne un nocciolo gravido di esemplarità virtuose, gesti eroici e messaggi morali, sarebbe stata operazione inconcepibile per un Casti o un Da Ponte, veri figli della trasgressività libertina del secolo. Ma frattanto la Bastiglia era caduta, l'onta di Varennes consumata, il già volterriano e frondista Conte di Provenza riparato a Coblenza col nuovo ruolo di capo degli emigrati e sostenitore di un trono vacillante. Che più? Braccato dall'emergente etica borghese e dalle sue istanze di rifondazione civile basata sulla virtù, il nichilistico amoralismo del secolo declinante urlava come belva ferita negli scritti di un marchese di Sade predestinato al manicomio di Charenton: ancora poco, e Léonore, ou L'amour conjugal avrebbe avuto partita vinta su Justine, ou Les malheurs de la vertu.

La portata epocale della comédie héroïque ritagliata dalla stoffa dello stinto paravento galante del citoyen Louvet de Couvray è stata a lungo disattesa o sottovalutata dalla storiografìa musicale, in particolare francese e anglosassone, ad eccezione di Jacques Joly che ha ricordato come Lodoiska anticipi di una decina d'anni le fortune europee sortite dalla Léonore di Bouilly e Gaveaux e da sempre rischiarate dal faro beethoveniano. L'elenco delle Lodoiske figliate da quella apparsa con felicissimo esito sulle scene del Teatro Feydeau il i8 luglio 1791 (a Vienna, Mozart divideva tra la Zauberfìòte, il Tito e l'incompiuto Requiem l'estrema fiammata del suo genio) ha inizio con quella di Jean-Élie Bedène Dejaure e Rodolphe Kreutzer, data alla Salle Favart il 1° agosto di quello stesso anno con esplicito intento concorrenziale coronato da un successo strepitoso e superiore a quello dell'opera cherubiniana; prosegue con la stessa opera di Kreutzer nella versione italiana approntata da Giuseppe Carpani nel 1793 per la residenza granducale di Monza; col "ballo eroico-tragico-pantomimo" di Paolino Franchi, un allievo di Noverre, rappresentato alla Scala nel 1795; con la fortunatissima opera seria di Francesco Gonella e Giovanni Simone Mayr, apparsa alla Fenice nel 1796; con un altro ballo di Lorenzo Panzieri, allestito ancora alla Fenice un anno dopo; al melodramma composto da Luigi Caruso su libretto assai rimaneggiato di Gonella per il Teatro Argentina di Roma nel 1798.

Da questa rassegna si denota come le peregrinazioni del "soggetto polacco" oltre i confini francesi traggano origine non dalla pièce di Cherubini, ma da quella concomitante di Kreutzer, più applaudita e significativamente prescelta dal Carpani nella sua operazione di acclimatamento italiano, anche se in un qualche modo egli offrirà al pubblico un assaggio dell'opera cherubiniana, adottando il suo finale terzo al posto dell'originale di Kreutzer. La ragione di tale cautela, che sembra dare inizio alle successive sfortune di Cherubini propheta in patria, è da ricercare proprio nella musica, nella quale il conservatore Carpani non poteva non leggere quella "stranezza", quell'"accumulare di modulazioni", quelle "erudite intricatissime confusioni piene di ricercatezza e di studio, ma prive di effetto" che gli facevano torcere il naso all'ascolto di Mozart e di Beethoven e che, nel 1787, lo avevano convinto a riprodurre in Monza Le nozze di Figaro con un libretto rimusicato per una buona metà dall'innocuo Angelo Tarchi.

Un abisso, in effetti, separa la gradevole Lodoiska di Dejaure-Kreutzer dal capolavoro cherubiniano: né si tratta soltanto di un dislivello di qualità inventiva verificabile al più superficiale dei raffronti e, del resto, avvertito anche dalle recensioni coeve, forse tra le più perspicaci mai sortite dal Fiorentino. In realtà, mentre nel primo caso si tratta di una consuetudinaria comédie en trois actes, en prose, mêlée d'ariettes, di quelle che a dozzine invadevano le scene parigine e di regola riservavano alla musica i tradizionali ruoli complementari di effusione lirica nei numerosi soli - airs, ariettes, romances - che costellano la vicenda, la concezione della comédie héroïque di Cherubini postula un genere di rapporto del tutto organico tra taglio librettistico e invenzione musicale. Rapporto che non trova riscontri plausibili in alcun genere di teatro in musica coevo, francese, italiano a tedesco, serio o comico. Intrigante risulta peraltro il confronto con la grande commedia umana di Mozart, senza dubbio il pianeta più vicino a quello cherubiniano; ma una sua conoscenza diretta da parte dell'autore di Démophoon e di Lodoiska è tutta da dimostrare.

Dovremo pertanto por mente ad altri stimoli più plausibili; in primo luogo, all'opera buffa più evoluta, di qualità più eletta e di orizzonti europei - Paisiello, Cimarosa, Sarti, Salieri, Martin y Soler - della quale Cherubini era conoscitore eccellente coma autore in proprio di alcuni titoli assai notevoli e sulla quale si era fatto la mano nella composizione di pezzi sostitutivi per le stagioni del Théâtre de Monsieur. Non altrimenti che dall'opera buffa, Lodoiska deriva infatti il tratto, insieme morfologico e drammaturgico, che più spiccatamente la differenzia dal teatro comico francese, ossia la frequenza e lo sviluppo dei morceaux d'ensemble - introduzioni e finali d'atto, duos, trios, quatuors con o senza coro - e la loro preponderanza assoluta rispetto ai soli, presenti in numero di sei, appena un terzo sui diciotto numeri di cui consta la partitura: proporzione non riscontrabile in alcuna delle opere mozartiane, bensì nel Matrimonio segreto (1792) e in altri coevi titoli italiani.

Ma a questo dato, ancorché d'indubbia importanza, si limita ogni apporto esterno all'edificio drammatico cherubiniano; su altri basamenti si levano infatti i suoi muri maestri e ad altri equilibri risponde la sua chiave di volta. S'è detto come il trattamento sinfonico dell'orchestra, adottato nella sua pienezza in Démophoon (1788), ma già in fieri nelle precedenti opere italiane Giulio Sabino e Ifigenia in Aulide, divenga in Lodoiska necessaria premessa strutturale nello spirito di un affinamento favorito dalle architetture più agili e leggere dell'opéra-comique. Tale premessa si realizza nell'adozione di un sistema sonatistico che vorremmo chiamare radicale non solo e non tanto per la semplice constatazione che la forma-sonata predomina assoluta tra le scelte morfologiche relative ai numeri dell'opera. Anche gli Italiani, da Piccinni e Galuppi a Paisiello e Cimarosa, si erano inventati a misura del loro teatro e del proprio talento un lessico globale d'impianto sonatistico semplice e disinvolto, basato su esposizione dei materiali tematici, transizione nelle tonalità-modalità vicine, ripresa nell'area armonica iniziale: altra cosa, si badi, dall'Aria tripartita col da capo e fermo restando l'inderogabile primato della componente vocale su quella orchestrale.

Cherubini stravolge tali criteri compositivi, che avevano preso forma e diffusione nell'età galante; un rivolgimento che ha come immediata conseguenza il sottrarre alla voce umana il proprio primato, il ridurla ordinariamente ad un declamato ritmico privo di specificità tematica e l'assimilarla come parte complementare di un ordito orchestrale di natura squisitamente sinfonica. Non suoni paradosso affermare che in molti ensembles e persino in qualche Aria dell'opera il senso del discorso musicale risulterebbe abbastanza percepibile anche se per avventura tacessero i cantanti. Oltre che dal peso, dal colore, dal trattamento delle famiglie strumentali, l'autonomia strutturale ed espressiva del sinfonismo cherubiniano è assicurata da quell'elemento essenziale del sonatismo moderno che è l'elaborazione tematica. Questa rivela il suo intimo indebitamento con Haydn, e più in generale con Vienna e dintorni, dal fatto che in essa sono in gioco non tanto motivi "importanti", quanto piuttosto minimi incisi carichi di un'intensa potenzialità costruttiva, in grado di reggere da soli le campate dell'intero arco sonatistico ingabbiandolo in una struttura organica di mirabile concisione, vigore e agilità.

L"'arte di sapere ricavare sviluppi così ricchi e diversi da un unico soggetto", sagacemente individuata dall'anonimo recensore del Mercure de France nelle sinfonie parigine del Maestro di Esterhàza, per mano di un italiano deraciné stava ora producendo frutti inauditi in quel campo del teatro in musica nel quale Mozart aveva indotto energie sinfoniche senza peraltro rinunciare al tradizionale predominio della vocalità e della sua plastica reattività drammatica, con esiti di un supremo equilibrio strutturale. Da un fiorentino la voce umana veniva ora sbalzata dal trono su cui l'aveva collocata la Camerata dei Bardi e del quale Gluck era stato l'ultimo despota. Per l'ennesimo dei paradossi che intessono la vita di Cherubini, doveva essere proprio lui, l'erede più degno dell'autore di Armide e di Iphigénie en Tauride, ad erigergli il più formidabile dei contraltari, che contrapponeva al pathos ragionevole di una parola intonata in conformità con "il suo vero compito di servire la poesia per mezzo della sua espressione" - così recita la storica dedica di Alceste - quello, irragionevole e ineffabile, promanante dalla voce di un'orchestra sottratta a secolari servitù mimetiche e come liberata in una corsa sfrenata nelle regioni dell'indicibile. La rivoluzione sinfonica introdotta da Cherubini nell'opera come mezzo primario di comunicazione drammatica, ne presuppone un'altra, concernente il sistema armonico. Che in Lodoiska, oltre a risultare infinitamente più sottile, imprevedibile e complesso di quanto non sia nella normale produzione operistica del tempo, appare incamminato per lo stesso percorso battuto da Mozart entro i territori inesplorati di un'inquietante emotività. Fin dall'introduzione al primo atto, costruita sull'ossessivo incalzare per progressioni di un ispido motivo di marcia a crome puntate riaffiorante di scena in scena, quasi sinistro filo spinato; e dalla successiva Aria di Titzikan "Triomphons avec noblesse" (atto I, scena 2), l'accidentato percorso armonico sembra insinuare nella situazione scenica una costante di dubbio e d'instabilità. Quello che Verdi, nel suo vocabolario estetico squadrato a colpi d'accetta, chiamerà la "tinta" di un'opera, il suo specifico quid drammaturgico e poetico, viene qui realizzato con mezzi che più moderni ed efficaci non si potrebbero immaginare.

Mezzi intrinsechi al puro e assoluto linguaggio della musica e non preordinati mediante elucubrazioni da teorico o da uomo di buon gusto. Quel senso d'ignoto, misterioso e vagamente sinistro aleggiante su tutto il primo atto trova momenti unici nella storia del teatro musicale e della sua comunicazione espressiva. Si ponga mente alla Polonaise "Souvent près d'une belle" (1-6) che contrappone e successivamente sovrappone alla prima sezione, brillante e "caratteristica", intonata da Varbel, una seconda, melanconicamente assorta e distratta, di Floreski, provocando un senso di doloroso estraniamento: quando mai le tecniche del contrappunto rigoroso introdotte nel melodramma vi erano state piegate a disvelare interiorità tanto inquietanti? Il paragone corre subito all'ultimo, concomitante Mozart, quello di Così e della Zauberflöte, e torna a tutto onore di Cherubini, un musicista della cui grandezza si è come persa la traccia.

Secondo un piano drammaturgico meditato che fa di Lodoiska, oltre che la piena rivelazione dell'artista, forse la sua opera maggiore più finemente elaborata, il secondo atto porta alla saturazione i conflitti progressivamente adombrati nelle prime scene ed emersi nel finale primo, con l'impressionante richiamo della reclusa dall'alto della torre sopra i silenzi dell'orchestra, il suo tenero, desolato dialogo con Floreski, la conclusione gravida di suspense e percorsa dai bagliori ferrigni di un clima sinistramente marziale.

In una con i nodi drammatici, s'infittiscono i problemi critici. Il recitativa e Aria di Lodoiska che, dopo una scena di recitazione parlata, apre effettivamente il secondo atto, ne presenta uno tra i più cruciali, attinente alla qualità melodica del Larghetto "Hélas! dans ce cruel asile" (II-2): pagina che non trova adeguato riscontro se non in un'area contrassegnata da una marcata Stimmung liederistica dai colori weberiani. Si tratta inoltre di uno tra i rari momenti di effusione lirica (un altro era stato il già ricordato cantabile di Floreski nella Polonaise del primo atto) in un'opera nella quale, per determinata scelta drammaturgica del compositore e non certo per sterilità melodica, la vocalità - già lo si è osservato - non detiene il baricentro della significazione espressiva.

Ma neppure questa volta Cherubini sa rinunciare alla vocazione di fare dell'orchestra il polo di attrazione delle proprie energie inventive. Ciò che di quest'Aria è destinato ad imprimersi nella memoria dell'ascoltatore è infatti l'idea motivica che fin dall'introduzione si libera da una casta compagine strumentale (archi in sordina senza contrabbassi, flauto e corno) in una fine polifonia ombreggiata da cromatismi, cui in seguito si sovrappone - o per meglio dire, s'interseca - la linea del canto in un ruolo che non è né vuol essere protagonístico, bensì complementare. Nella sua rigorosa concezione sonatistica, il tempestoso Allegro in fa minore che segue rafforza l'impressione di un predominante, irresistibile clinamen verso la dimensione sinfonica sentita come sempre strumento privilegiato di espressione drammatica. Altrove, nel duetto di Lodoiska e Durlinski "A ces traits je connais ta rage" (II-4) tale predilezione si concentra in modi che definiremmo estremistici per la loro audace novità: tale è infatti l'idea di contrapporre all'asciutto, icastico declamato sillabico delle due voci una sorta di violento perpetuum mobile costituito dagli archi in unisono.

La ricerca di un codice drammatico "nudo e crudo" (D'Amico) al di fuori del regesto retorico della tragèdie lyrique, in questa comédie-héroìque si fa quasi ossessiva, preludendo all'imminente Médée, sbalzata a duri colpi di scalpello nel nero basalto. La poetica dell'eccesso, fiume infero che percorre le latebre del Classicismo giunto all'ultima spiaggia (e bene avvertibile, di sotto la superficie levigata del bassorilievo metastasiano, anche in certi corruschi trasalimenti del contemporaneo Tito mozartiano) si esprime in questo manifesto della maturità stilistica di Cherubini negli estremi opposti di una scabra brevitas tutta ellissi e brachilogie, e di una pertinace iterazione d'incisi e formule cadenzali, preparando il terreno ad analoghi comportamenti beethoveniani. Sì che al culmine di un tale progress il quartetto di Lodoiska, Floreski, Durlinski e Altamoras "Quoi! t'unir à ce barbare!" (III-4) che s'innesta direttamente al finale terzo mediante il tópos degli squilli di trombe, non poteva non coincidere con la più lampante tra le anticipazioni di Fidelio, opera concepita nell'orbita delle fortune europee della pièce à sauvetage e avendo a fomite privilegiato la produzione cherubiniana.

Prescindendo dallo spettacolare combat sinfonico che lo precede, con le sue palesi allusioni alla presa della Bastiglia, il lieto fine di Lodoiska si configura infatti come il modello trasversale più plausibile per le definitive scelte beethoveniane. Stessa la compresenza in scena del tiranno che assiste alla propria catastrofe e delle sue vittime vincenti; stesse le tenere effusioni della coppia con la commossa partecipazione del provvidenziale liberatore (Titzikán in Cherubini, Don Fernando in Beethoven); stessa la perorazione corale conclusiva, che il pessimista Cherubini vuole peraltro venata di cupi accenti di recriminazione e di orrore, mentre il sipario cala sopra un ambiguo diminuendo orchestrale che si spegne in un "pianissimo" sopra le note fondamentali di re maggiore.

Ma il punto d'incontro più impressionante tra la comedie héroíque di Cherubini e il venturo astro beethoveniano si verifica forse nel trio "Ciel, ce que je lui propose" (II-10) ove Floreski, Durlinski e Altamoras senza comunicare tra loro studiano le mosse dell'avversario. Palmare l'analogia con il quartetto "Mir ist so wunderbar" (I-4) dove Marzelline, Leonore, Rocco e Jaquino restano del pari immoti e compresi nell'intimo dei propri pensici. L'episodio, con la sua abnorme connotazione drammaturgica, è assente nella Léonore di Bouilly e nei suoi derivati, ed è pertanto verosimile la sua provenienza diretta da Cherubini, che v'inventa una pagina di assorta, immota contemplazione, sbalzando l'ascoltatore stupefatto nelle sfere dell'ineffabile. Col colpo di genio di un totalizzante "a parte" di questa fatta, il conterraneo di Dante, Masaccio, Leonardo, Michelangelo collocava la sua commedia eroica entro una dimensione inaudita e imperfettibile, prendendone in un certo qual modo le distanze e proiettando un lunghissimo cono d'ombra, grave di un pensoso scetticismo manzoniano, sulle sorti di un'umanità immersa in un rivolgimento storico che egli trasvolerà con le piante asciutte come l'angelo la città di Dite; sempre più assorto nei fantasmi privati di quelle pagine religiose e cameristiche che con gli anni lo distoglieranno inesorabilmente dal teatro.

Giovanni Carli Ballola


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 15 ottobre 2010


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Ultimo aggiornamento 11 dicembre 2015