Anche per Casella, come per tanti altri musicisti compreso Beethoven, la critica ha parlato di tre maniere o di tre stili, caratterizzanti la produzione di questo artista poliedrico che fu innanzitutto un insigne pianista e con la sua infaticabile attività di compositore, direttore d'orchestra, insegnante, revisore e organizzatore della vita musicale (basti pensare alle Settimane Musicali Senesi da lui promosse in seno all'Accademia Chigiana) diede un notevole contributo al processo di svecchiamento e di rinnovamento del linguaggio sonoro nel panorama culturale dell'Italia degli anni Venti. Non va però data eccessiva importanza a questa suddivisione dell'opera di Casella in tre periodi per non circoscrivere troppo la forte individualità di un musicista che approdò alle rive del neoclassicismo, in quanto assertore della chiarezza e della lucidità razionale delle forme, e si oppose agli epigoni dell'impressionismo francese e alle formazioni espressionistiche di origine centroeuropea. Ripudiando quelli che egli considerava gli ultimi segni della decadenza romantica, ossia voltando le spalle alla produzione che ancora nei primi decenni del Novecento gli appariva insidiata dalla "malattia dell'esotismo", Casella mosse una vivace guerra al melodramma, sostenendo a volte posizioni unilaterali e rigidamente polemiche, che si spiegano come reazione al soverchiante dominio dell'opera veristica sulla musica strumentale (Sonata, Sinfonia, Concerto), da lui ritenuta più sincera e non condizionata da ragioni extra-musicali. Oltre a credere nella figura del musicista-artigiano (Bach fu il suo insuperato modello), Casella ripudiò il microbo atonale, anche se comprese il significato storico che l'aveva determinato, e le esagerazioni del dadaismo futurista e si battè con l'opera e gli scritti per un ritorno a Monteverdi, a Vivaldi, a Domenico Scarlatti, a Rossini e ai modi ecclesiastici medioevali, non sdegnando di prediligere gli aspetti più autentici del patrimonio melodico popolare italiano.
Nell'ambito di questo richiamo al passato, in linea con quella
reazione musicale definita neoclassica e caldeggiata con brillantezza
di risultati da Stravinsky, si inserisce la Scarlattiana,
divertimento su musiche di Domenico Scarlatti per pianoforte
e piccola orchestra, composta nel 1926 e accolta subito con successo
(è dedicata a Vittorio Rieti). Non c'è dubbio che
del neo-classicismo la Scarlattiana, come scrive
Guido Turchi, offre il documento più vivo e più
esplicito - insieme con la più tarda Paganiniana
- dove i termini originali dello stile scarlattiano non vengono
alienati per una fruizione puramente estetica, ma ripercorsi per
carpirne la segreta vitalità, così congeniale per
spontanea elezione alla musicalità caselliana. Con la Scarlattiana
in effetti Casella conclude felicemente il suo antico proposito di
riaprire il corso dello strumentalismo italiano, di reperirne le sue
sorgenti tipiche e originali. Uno stato di salute fisica e spirituale
caratterizza questa musica al quadrato in cui il ritmo scorre vivace e
fluente e la melodia spazia con chiarezza e linearità di
espressione. Secondo lo stesso Casella - lo afferma nell'autobiografico
libro "I segreti della giara" - la tecnica armonica di Scarlatti
racchiude infiniti elementi di "attualità", lavorando sui
quali è perfettamente possibile trovare un armonioso terreno
in intesa fra Settecento e Novecento, eliminando però con la
massima cura ogni residuo di cromatismo ottocentesco che avrebbe
irrimediabilmente compromesso quella purezza di stile che forma il
maggior pregio della Scarlattiana.