Turandot op. 41, KV 248

Suite per orchestra

Musica: Ferruccio Busoni (1866 - 1924)
  1. Die Hinrichtung, das Stadttor, der Abschied
  2. Truffaldino
  3. Altoum
  4. Turandot
  5. Das Frauengemach
  6. Tanz und Gesang
  7. Nächtlicher Walzer
  8. In modo di marcia funebre e Finale alla turca
Organico: coro femminile ad libitum, 3 flauti (3 anche ottavino), 3 oboi (3 anche corno inglese), 3 clarinetti (3 anche clarinetto basso), 3 fagotti (3 anche controfagotto), 4 corni, 4 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, glockenspiel, triangolo, tamburello, tamburo coperto, grancassa, tam-tam, 2 arpe, archi
Composizione: giugno - agosto 1905
Prima esecuzione: Berlino, Beethovensaal, 21 ottobre 1905
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia, 1906
Dedica: Karl Muck

Nel 1911 la suite fu trasformata in musiche di scena, con l'aggiunta di 2 numeri supplementari:
  1. Werzweiflung und Ergebung (Kind. 248a)
  2. Altoums Wamung (Kind. 248b)


Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Nei pressi di quel crocevia che sta al termine dell'esperienza romantica, particolarissimo risalto ha la figura di Ferruccio Busoni. Musicista nato a Empoli nel 1866 da padre italiano e da madre tedesca, straordinario pianista, revisore e uomo di cultura vissuto nel clima artistico della Germania a cavallo dei due secoli, partecipe di un ideale classico nutrito della profonda conoscenza di Bach e Mozart, Busoni è però coinvolto al tempo stesso, soprattutto come compositore e scrittore, nello svolgimento di quell'irreversibile processo storico che egli avverte in tutta la sua importanza. Siamo insomma nei roventi anni che vedono il sorgere dell'espressionismo e delle alternative ad esso poste. Pochi artisti esprimono come Busoni il tormento storico dell'antinomia tra desiderio di comunicazione e rifiuto di identificare quell'esigenza con i mezzi linguistici tipici di un mondo con il quale non si vuole avere nulla a che fare. Una pena segreta spinge il musicista verso un misticismo aristocratico venato da scetticismo.

Messo di fronte alla progressiva corrosione cromatica della tonalità (colonnina di mercurio di una crisi storica, prima che linguistica), Busoni anziché esasperare espressionisticamente tale processo, tende a reperire, sia pure nella modernità del linguaggio armonico, una purezza ricuperata al di là della parentesi romantica. Le ombre malefiche e lacerate non è che egli non le avverta, anzi: ma la sua viva speranza è che il sole, di quelle ombre, abbia presto ragione. Si ricordino a questo proposito i consigli contenuti in una lettera da Roma alla moglie Gerda (marzo 1909), in merito alle letture da sottoporre all'interesse del figlio Benvenuto: «per quanto riguarda Benni, Lenau non è per lui, è veleno, come Schopenhauer e altri piacevoli disperati. Deve leggere soltanto cose che possano spronarlo, non debilitarlo. Continui a leggere Shakespeare... in complesso legga cose che non siano pessimistiche od erotiche, ma soprattutto quello che è artisticamente bello». Alla temporanea sconfitta dell'integrità umana il musicista risponde rifiutandosi di farla coincidere con la propria abdicazione esistenziale. L'entusiasmo e addirittura la passionalità dei suoi scritti, insieme all'importanza attribuita nella musica all'elemento melodico, ci dicono però anche quanto fosse discutibile la tesi, fino a pochi anni fa assai accreditata, che vedeva in Busoni un precursore dell'artigianato neoclassico; basta infatti il monito «evitare il mestiere, fate che tutto sia un principio», per stabilire, più ancora delle sue opere, in cui la fusione perfetta tra concezione e attuazione non è sempre raggiunta, una poetica addensata di spiriti romantici, ove passa in second'ordine quel materiale programmatico e volontaristico che parrebbe a una superficiale analisi coagularsi intorno al fondamentale concetto dell'oggettivismo (o meglio del «giovane classicismo»).

Perciò la problematica di Busoni può apparire contraddittoria, anticipando in seno a un periodo di trapasso tratti inalienabili di una diagnosi umana oggi attuale: malata nella sua apparente salute e sana nella sua apparente malattia. I segni dell'inquietudine son colti in una fase anteriore alla cristallizzazione delle idee estetiche nelle opposte correnti del neo-classicismo e dell'espressionismo: quella di Busoni è arte esposta ai quattro venti, in cui vivono passato, presente e futuro, fantasmi letterari apparentemente irriducibili alla misura terrena dei nodi storici e realtà dolorosamente presenti. Un'arte che è prima e che aspira ad essere dopo il diluvio.

Per Turandot nel 1905 Busoni aveva composto una suite, appunto come musica di scena per l'omonima fiaba del Gozzi. Questa serie di brani doveva divenire il nucleo originario della vera e propria opera, nata diciotto anni dopo per il teatro di Zurigo. Bisogna dirlo subito: nulla a che vedere con l'appassionata interpretazione di Puccini, il quale aveva eliminato le Maschere italiane, umanizzando ogni cosa: Busoni resta nel terreno della favola e del mondo gozziano, seppur opportunamente sfrondato. Una musica olimpicamente lontana da ogni dramma, deliberatamente astratta da approfondimenti psicologici. Lo stesso carattere orientalistico nel melodizzare di alcune pagine non è da intendere come sontuoso decorativismo, ma si qualifica come preziosa citazione subito stilizzata, sottoposta a una sorta di bagno chimico. La vita musicale dei personaggi, data la struttura a forme chiuse, si traduce in brani autosufficienti, nettamente differenziati.

Degli otto pezzi che costituiscono la suite, i quattro del programma odierno sono quelli eseguiti più frequentemente.

Alle porte della città - Innanzi ad una delle porte della città di Pechino: sopra la porta, infisse a pali, sono le teste mozze dei principi che, venuti per chiedere in sposa la superba, astuta e crudele Turandot, figlia del re, non hanno saputo indovinare i tre enigmi, la cui risoluzione era posta da essa come condizione essenziale per poter aspirare alla sua mano.

Il principe Calaf, al quale è mostrata una effigie della principessa, si sente preso da una passione irresistibile e vuole affrontare anch'egli la prova, nonostante gli amici tentino di dissuaderlo. Si ode una strana musica, basata su un ritmo monotono dei timpani. Essa accompagna l'arrivo del carnefice col suo seguito che viene ad infiggere sui pali una altra testa mozza. Ma neppure questo terrificante spettacolo vale a distogliere il giovane dal suo proposito; ed egli si distacca violentemente dagli amici, risoluto a conquistare la principessa o a morire.

Truffaldino - Truffaldino è il capo degli eunuchi di corte. Egli prepara tutto quello che è necessario per accogliere il nuovo aspirante alla mano di Turandot, o, come dice lugubremente celiando, alla morte. La marcia è scritta per soli strumenti a fiato (legni e ottoni) e percussione.

Valzer notturno (Dalla musica per il IV atto) - Trattasi di una pagina dell'atto che culmina nell'episodio degli enigmi risolti da Calaf e che chiude su quello da lui proposto in una atmosfera di misteriosa sospensione.

In modo di marcia funebre e Finale alla turca (dal V atto) - Turandot simula tristezza per non essere riuscita ad indovinare il nome del principe Calaf - condizione da questi posta a sua volta per rinunciare a lei. Ma quando Calaf crede di aver vinto, Turandot lo chiama improvvisamente col suo nome (che per mezzo di uno stratagemma aveva potuto strappare al padre del principe). Calaf vuole uccidersi. Turandot glielo impedisce: l'amore che sentiva da tempo per lui si manifesta in tutta la sua forza. E una marcia gioiosa celebra il lieto fine della favola.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Composta nel 1904 traendo spunto dalla fiaba omonima di Gozzi questa suite è una delle pagine orchestrali più felici di Busoni. Non fu certo ispirata dal desiderio dì ricreare musicalmente un ambiente esotico che anzi Busoni dichiarava apertamente che la riduzione a commedia di Schiller e le musiche pseudocinesi di Weber avevano rovinato il capolavoro di Gozzi. Né al tempo della composizione della Suite Busoni pensava ad un'opera di tale soggetto per le scene: questa idea sarà sviluppata solo dodici anni dopo. La molla che lo spinge è soprattutto di carattere letterario ed intellettualistico e, da un punto di vista musicale, anche sperimentale. In questo periodo il compositore è immerso nella problematica cosi comune alle giovani generazioni di musicisti della «Mittel-Europa» alla ricerca di un linguaggio musicale nuovo, problema al quale con chiarezza e poesia accennerà lo stesso Busoni nel 1906 nell'«Abbozzo di una nuova estetica della musica». E già nella partitura di questa Suite, accanto a turgidi sedimenti di derivazione brahmsiana, troviamo il franco coraggio di affermazioni nuove, come la ricerca di melodie inusitate (straordinaria a questo proposito l'invenzione tematica di «Danza e Canto»), di armonìe pungenti e strane (ed è ià il pericolo di esotismo) e di una forma di orchestrazione che cerca di svincolarsi dall'uso artigianale degli strumenti per sentire invece l'orchestra come in Berlioz, uno strumento unico articolato nelle sue varie componenti. Non che la partitura mostri una sua totale volontà di rottura con i mezzi tradizionali ma certo lo sforzo di Busoni di emancipazione dal vetusto sistema tonale è già cospicuo e nel panorama della musica europea del tempo assai coraggioso. La caratterizzazione dei vari momenti nei dieci pezzi che compongono la Suite (ma raramente essa viene eseguita nella sua totalità) può apparire a tratti faticosa, proprio perché la ricerca della novità, soprattutto melodica e armonica si scontra con una prassi secolare dalla quale Busoni non può ancora prescindere, d'altra parte le sue ricerche non lo porteranno mai totalmente sul campo della Scuola di Vienna ma semmai ci fanno sentire una sua consonanza espressiva con Hindemith nel segno di un neoclassicismo astratto e di uno strumentalismo «assoluto», così lontani dalla musica di consumo italiana del tempo; ma è troppo noto che in larga parte Busoni è musicista italiano solo per anagrafe mentre, come già s'è detto, anche questa Suite appartiene ad un genere di esperienze della musica europea d'Oltralpe.

Fabio Bisogni


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Villa Borghese, Parco dei daini, 26 giugno 1980
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 13 ottobre 1973

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Ultimo aggiornamento 1 febbraio 2020