Ancora una primavera, questa volta anglicana è proposta da Benjamin Britten: caso (forse) unico di un compositore novecentesco radicalmente, costituzionalmente libero da "cifre" tecnico stilistiche, da omologati dettati delle lingue d'avanguardia, che in ogni sua opera procede con sempre nuove e diverse esplorazioni e conquiste, senza "scoperte" e "inediti orizzonti", ma perfettamente adeguate al compito d'arte propostosi.
E questa Spring Symphony composta dal trentaseienne maestro nel 1949, commissionata da Serge Koussevitsky per l'Orchestra Sinfonica di Boston ma gentilmente ceduta in première a van Beinum e al Concertgebouw per il festival d'Olanda di quello stesso anno, porta ben udibili (visibili) i segni di quella libertà, stilisticamente promiscua eppure di assoluta omogeneità di condotta, nel vasto impianto architettonico che, disponendo di un notevole apparato esecutivo (tre solisti di canto, coro misto, coro di ragazzi ed un organico orchestrale di ricca tramatura timbrica), può adottare non soltanto la tradizionale divisione della Sinfonia in quattro tempi, bensì anche inserire contestualmente una struttura di Oratorio con numeri di canto solistico (aria, duetti, terzetti talvolta con inserti corali) e diffuse pagine sinfonico-corali che con la loro prevalenza costituiscono l'orizzonte "scenico" dell'Oratorio.
Sono dodici i numeri distribuiti tra i quattro movimenti: cinque nel primo, tre rispettivamente nel secondo e nel terzo e uno nell'ultimo. Su tutto aleggia una vibrante aura di attese, di presagi, invocazioni dell'avvento primaverile. Sono dunque episodi che danno voce ad altrettanti testi poetici in gran parte di autori inglesi del '500, in due casi anonimi: il primo per l'episodio d'apertura, l'altro quasi per l'intero finale, una intonazione di un testo ancora più remoto del XIII secolo, che all'approssimarsi dei fasti primaverili, lascia emergere un famoso canto polifonico medioevale britannico: il canone all'unisono a tre voci Sumer is icumen in (Ecco arriva l'estate), un festoso inno alle premonizioni della nuova stagione nelle cose, nelle creature, nella natura tutta.
E momenti altrettanto focali s'incontrano al termine di ognuno dei movimenti precedenti in cui Britten strategicamente colloca testi di particolare significato, di particolare pregnanza poetico-culturale: Milton a chiusura del primo, Auden del secondo e Blake del terzo. E se, per opinione di alcuni critici per altro condivisibile, il centro emozionale della Spring Symphony è incontestabilmente l'ultimo brano del secondo tempo che impiega quattro delle sedici strofe del poema di Wystan Auden, Out on the Lawn (Sdraiato sull'erba) - esaltazione panica dello stato di abbandono alla natura ed alla memoria -, in chiusura del terzo tempo, sugli agili ed immaginifici versi di William Blake viene raggiunto l'apice della gioiosa luminosità al sopraggiungere di un'era nuova, sull'onda di vivaci accenti corali, afflorescenti nelle voci bianche. E nell'orchestra si sprigiona una costellazione di timbri multicolori, una pirotecnia argentea ed aurea, un surplus di gaiezze.
E dall'intero lavoro del maestro inglese, sulla scorta di una fantasia linguistica che trascorre con suadente naturalezza da modi arcaicizzanti e finezze arcadiche, ad arabeschi e fioriture barocche (ma, ripeto non insidiate da deformazioni neo-classicheggianti), viene evidente una sua dote alquanto rara tra i protagonisti del Novecento musicale: una spontanea fluente vocalità, sia nella scrittura solistica, sia in quella corale, non intaccata né da forzature né da estraniazioni di tipo strumentale. Una dote che gli ha concesso le più brillanti affermazioni in campo operistico.
Guido Turchi