Serenade, op. 31

per tenore, corno e orchestra d'archi

Musica: Benjamin Britten (1913 - 1976)

  1. Prologue - Andante
  2. Pastoral - Lento
    Testo: Charles Cotton
  3. Nocturne - Maestoso
    Testo: Alfred, Lord Tennyson
  4. Elegy - Andante appassionato
    Testo: William Blake
  5. Dirge - Alla marcia grave
    Testo: anonimo del 15° secolo
  6. Hymn - Presto e leggiero
    Testo: Ben Jonson
  7. Sonnet - Adagio
    Testo: John Keats
  8. Epilogue - Andante
Organico: tenore, corno, archi
Composizione: marzo - aprile 1943
Prima esecuzione: Londra, Wigmore Hall, 15 ottobre 1943
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra
Dedica: Edward Sackville-West
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La data di composizione della Serenade per tenore, corno e archi op. 31 di Benjamin Britten sbigottisce soltanto coloro che ancora intendono l'arte del Novecento come obbligata riflessione intorno alle torbidezze di quel secolo e alle turbe di chi vi ha dimorato. Il musicista inglese vi mette mano fra il marzo e l'aprile del '43, recentemente rimpatriato da un soggiorno di tre anni negli Stati Uniti. La prima assoluta ha luogo in autunno presso la Wigmore Hall di Londra. È anche la cronologia di uno fra i capitoli più angosciosi della storia dell'uomo. I testi che scandiscono la Serenade contrappuntano il cuore della più illustre poesia pastorale in lingua inglese: quella di Thyrsis di Matthew Arnold, del Prelude di William Wordsworth, di Arcades di John Milton. La perenne illusione della vita pastorale in Inghilterra è con molta probabilità il contrappeso a un'industrializzazione precoce, sicché già il Vittorianesimo addita il mondo agreste come rifugio dalla vita alienante delle città. Ma perfino la poesia di trincea del 1914-'18 indugia sull'argomento bucolico, con ricercata o inconsapevole ironia. Edmund Blunden ne è il bardo più autorevole. Una musica che intona soavi notturni d'altri tempi e decanta la memoria dei miti classici di Febo e Diana, dunque, non è di necessità una forma d'estraniamento dai tragici casi della guerra: semmai, riscatto intellettuale sulle disarmonie del mondo, o loro riparazione, per adottare un'espressione cara al poeta irlandese Seamus Heaney.

Nella Serenade la caratteristica di maggior spicco è la coesistenza di poesie di autori vari: dalla lingua arcaica d'un anonimo del quindicesimo secolo a versi del Sei, Sette e Ottocento; presenze nondimeno giustapposte sotto il comune denominatore tematico della notte e della natura. Ma il florilegio composto da Britten con l'op. 31, e replicato nel '58 con il Nocturne op. 60 (su poesie di Shelley, Tennyson, Coleridge, Middleton, Wordsworth, Owen, Keats e Shakespeare), è tutt'altro che un'operazione storicamente originale. È difficile stabilire chi sia stato il primo compositore a concepire una macrostruttura organica e relazionata di testi eterogenei, ma con molta probabilità il Requiem da camera del 1924 di Gerald Finzi fa da battistrada, dato che in una sola composizione contempla Thomas Hardy, John Masefield e Wilfred Gibson. Alla base del pastiche poetico vi è probabilmente la semplice antologia di songs su poeti disparati, dapprima concepiti come degni d'estrapolazione, in seguito coordinati in sequenza obbligata, sotto la sollecitazione dell'omogeneità di contenuto. Nel Requiem da camera, per esempio, la predilezione per la poesia bucolica è in ogni caso segno della nostalgia dei soldati inglesi della Grande Guerra per le colline della cara Albione. Tuttavia, un lustro più tardi nasce l'opera che di gran lunga può essere considerata il più insigne antecedente alla Serenade di Britten: si tratta della Pastoral: Lie Strewn the White Flocks op. 33 di Arthur Bliss, su versi di Ben Jonson, Fletcher, Poliziano, Nichols e Teocrito. L'ibridismo testuale riscosse consensi, perciò Bliss vi si cimentò un'ultima volta nel 74, prima che giungesse la morte, con Shield of Faith op. 52; ma ormai altri compositori avevano adottato la nuova formula, e fra i tanti lo stesso Vaughan Williams.

L'essenza di questo genere musicale risponde a proposito all'idea di tradizione formulata da Thomas Stearns Eliot in uno dei suoi saggi più celebri, Tradition and the Individuai Talent. Egli scrive: "Avere senso storico significa essere consapevole non solo che il passato è passato, ma che è anche presente; il senso storico costringe a scrivere non solo con la sensazione fisica, presente nel sangue, di appartenere alla propria generazione, ma anche con la coscienza che tutta la letteratura europea da Omero in avanti, e, all'interno di essa, tutta la letteratura del proprio Paese, ha una sua esistenza simultanea e si struttura in un ordine simultaneo". Nell'opera di Britten un'iniezione di collante è garantita dalla comprimaria voce di un corno solista. Esso, come un sipario che si alzi e poi cali su una rappresentazione, scrive il Prologo e l'Epilogo della Serenade: il tema d'apertura, vale a dire, torna intatto alla fine della composizione, ma con il corno schierato dietro le quinte, a segnare un senso di lontananza e dissolvimento. Il richiamo alpestre di questo strumento, la definizione degli spazi aperti, sterminati, è un tòpos musicale, un dato già acquisito dalla nostra coscienza auditiva, e, in quanto tale, quegli armonici suonano fuori dal tempo e dalla storia. La nudità mahleriana del suo colore lega le plurivoche età della musica e della poesia, elevandosi a canto ultimo della tradizione che ha dato la luce a The Lark Ascending di Vaughan Williams, alla Capriol Suite di Peter Warlock, a Summer Night on the River di Delius, per ricordare soltanto pagine celebri.

Il primo pezzo che Britten inserisce in questa cornice sonora è una Pastoral (Lento) su versi di Charles Cotton (1630-1687) nella tonalità di re bemolle maggiore. Il collegamento fra l'introduzione solistica del corno e il primo brano cantato avviene con assoluta scioltezza giacché il tipico metro giambico che apre ogni battuta del Prologo ora è riprodotto per diminuzione dagli archi. Su questa base, caratterizzata anche da un robusto fissaggio tonale, si leva la parte del tenore, riecheggiata dal corno. Le melodie, di felice presa d'ascolto, si snodano preferibilmente per grado congiunto, al sicuro da scatti ritmici: soprattutto, secondo un fraseggio simmetrico, regolare, di antecedente e conseguente. Una precisa scansione musicale delle strofe contempla momenti di squisito umorismo: su tutto, la terza strofa ("A very little, little flock" - Un piccolo, minuscolo gregge) la cui indole divertita scaturisce dal giocoso pizzicato degli archi e culmina nel salto vocale di settima ascendente del tenore sulla replica di little.

Il movimento seguente, Nocturne (Maestoso, in mi bemolle maggiore), su versi di Alfred Tennyson (1809-1892), tradisce nel canto la dimestichezza di Britten con la più autentica musica popolare d'oltremanica. V'è ancora continuità ritmica con quanto precede, ma la scrittura degli archi ora è soggetta a un accentuato divisionismo. Il corno, da parte sua, si limita a segnare la chiusa d'ogni strofa raccogliendo alla lettera l'invito del cantante: "Blow, bugie, blow; answer, echoes, answer" (Soffia, squilla, soffia; rispondete, echi, rispondete).

A questo punto, se è lecito applicare alla Serenade la nota antitesi di Blake, si registra un brusco passaggio dai canti dell'innocenza ai nuovi canti dell'esperienza. È proprio William Blake ( 1757-1827) a fornirne materia, giacché la Elegy (Andante appassionato) musicata da Britten none altro che The Sick Rose da The Songs of Experience. La notte è ora il traslato di una condizione dell'anima, e poiché il regno dell'esperienza è quello del pervertimento, il pezzo risulta, come disse Britten al dedicatario dell'opera (Edward Sackville-West, un amico che lo aveva aiutato nella selezione dei testi), rappresentazione "del senso del peccato nel cuore dell'uomo". Gli archi descrivono un oppressivo e angoscioso movimento sincopato di fattura diatonica. I contrabbassi pizzicano degli arpeggi che paiono l'insinuarsi tacito del marcio: "the invisibile worm / that flies in the night" (il verme invisibile / che vola nella notte). Ma la peculiarità del brano consiste nella perseverante instabilità modale. Difatti, il corno procede per sequenziali slittamenti cromatici, trasfigurando un accordo da maggiore a minore: figura sonora della caduta dell'uomo o rovina della bellezza. La parte vocale (indicata come Recitativo, lento) è solo una brevissima parentesi di otto battute nel cuore del brano. Sull'ultima parola pronunciata da Blake ("And his dark secret love / Does thy life destroy" - E il suo oscuro, segreto amore / ha devastato la tua vita) il tenore e il corno producono uno scambio cromatico, di forte impatto emotivo, che protrae l'ambiguità iniziale fra mi maggiore e mi minore. Fa seguito una ripresa letterale della prima parte del pezzo, ma le due battute finali sono ora abbandonate al glissando sordo del corno nel ristretto spazio di mezzo tono: un passaggio "sporco", impuro, quasi a riprodurre la trionfante affermazione del vizio.

Una volta Erwin Panofsky spiegò che nel Settecento gli Inglesi erano rimasti gli unici in Europa ad attribuire al motto latino: "Et in Arcadia ego", il significato corretto. Non "Ed anch'io ho dimorato in Arcadia" (come era interpretato sul continente), bensì "Anche in Arcadia io, la Morte, esercito il mio potere". Ecco, dunque, che nei dipinti di artisti inglesi non è infrequente la raffigurazione di un teschio vicino a una rosa. Si tratta, in definitiva, di una caratterizzazione che nello specchio della natura ridente preserva il monito del memento mori. In tal senso risulta nient'affatto anomalo che dopo la Elegy Britten componga addirittura un lamento funebre, o Dirge, su un anonimo del Quattrocento. Adesso l'oscurità è quella che accompagna l'esalazione dello spirito, una notte che è simbolo di tutte le notti: "This ae nighte, Every nighte and alle" (Questa notte, per ogni notte e per tutte le notti).

Britten recupera la rota medievale, un tipo di composizione a canone circolare, il cui più celebre esempio è il song a sei voci Sumer is icumen in del tredicesimo secolo. Nel Dirge le voci entrano in progressione a cominciare dai contrabbassi e dai violoncelli, per finire con l'ultima esposizione del soggetto da parte del corno. Ma l'ostinato (o ground) che contraddistingue questa forma musicale è consegnato al tenore. Il suo tema (il cui profilo è dettato sotto l'urgenza cromatica della Elegy), in un cupo sol minore, ritorna implacabile quanto la percussione ossessiva del verso che completa ogni strofa: "And Christe receive thy saule" (E Cristo accoglierà la tua anima). La scrittura dell'orchestra pare spiritata, ma vi filtrano pure formule arcaiche come i curiosi bassi passeggiati.

Il Presto e leggiero Hymn in si bemolle maggiore sull'inno a Diana di Ben Jonson (1572-1637) ritrova un clima di nuova luce. Considerato il personaggio femminile in questione, Britten recupera l'uso intensivo del corno, strumento associato alla caccia per antonomasia. La forza del pezzo è concentrata proprio nell'andamento smaliziato del corno. Mentre Britten dedicava questa parte solistica al giovane virtuoso Dennis Brain (che durante il secondo conflitto mondiale suonava nella banda della Royal Air Force, per la quale Britten componeva musica ad uso dei documentari radiofonici sulla guerra), l'ottone pochi mesi prima aveva guadagnato al suo repertorio un'altra perla, il Secondo Concerto per corno di Richard Strauss: invero, la sola pagina che possa competere con quella di Britten per serena comunicativa. Naturalmente il compositore inglese non prendesul serio il testo di Ben Jonson, ma sfrutta gli eccessi della retorica verbale per esercitare un'ultima volta il suo umorismo. Al proposito si considerino i vocalizzi prolungati, pregni di ricercata enfasi, su excellently; oppure la pronuncia "tenebrosa" della seconda strofa, sollecitata dal borbottare del corno.

L'ultima figura della Serenade è quella di John Keats (1795-1821). Il famoso To Sleep nella partitura è indicato più semplicemente come Sonnet. Quello del sonno è per il nostro poeta un tòpos di comodo per risolvere un problema di carattere metrico: lo studio della possibilità di bilanciare la struttura del Sonetto italiano con quello shakespeariano. Ma la musica di Britten, attraverso una serie di triadi variamente correlate, brucia ogni convenzionalità. Lo stato di trance procurato dal divisionismo degli archi già presagisce lo stato di torpore del Libera me del War Requiem. Su tutto registriamo il "narcotizzante" intervallo di un tono e mezzo con cui le viole descrivono il soffice imbalsamatore della notte: "O soft embalmer of the still midnight". Oppure il meraviglioso salto di quinta giusta del tenore su "poppy" (papavero), che, al segno d'un effimero intervallo, si pone come esplicito ed estremo omaggio a tutta la tradizione pastorale inglese per musica.

Il corno, dopo la prestigiosa corsa nello Hymn, tace completamente. Il suo ultimo canto risuona come Epilogo a un lavoro ricco di sfaccettature: dai momenti di spensieratezza a quelli di commossa malinconia. Ma l'opera, nell'insieme, traduce una serenità dell'atto compositivo assolutamente sconosciuta alla maggior parte dei compositori del Novecento. Questa sorta di pastorale al quadrato si erge senza falsi pudori al confine critico fra musica colta e musica leggera; dimostra la possibilità di continuare a scrivere musica che sia ad un tempo disimpegnata ma nuova, di mezzi semplici, ma in cui neanche una nota suoni come concessione all'annoso. Infine, si offre come un'antologia di poesie sfogliate a caso al lume tenue che colora la notte.

Alessandro Macchia

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

La «Serenata» op. 31 per tenore, corno e archi del 1943 di Benjamin BRITTEN si connette a tutto un gruppo di composizioni vocali-strumentali che l'autore scrisse intorno a quella stessa epoca («Hymn to St. Cecilia» per coro misto a cappella op. 27, «Rejoice in the Lamb» cantata festiva per coro e organo op. 30 e soprattutto a «A Ceremony of Carols» per coro di voci acute e arpa, op. 28). Il nesso si può riconoscere nel linguaggio musicale di Britten, più individuabile anche in quella fase di evoluzione, così come nel «richiamo del paese» che il compositore, al suo ritorno da un soggiorno di 3 anni negli Stati Uniti, sente e segue nella voce così tipica e ricca di suggestioni della poesia britannica. Il testo della «Serenata» non è tratto da una sola fonte poetica; mal da una specie di antologia di varie epoche. Ciò che Britten aveva già fatto con «A Ceremony of Carols» e che ripeterà con la «Spring Symphony», ogni volta per riavarne una propria unità espressiva.

Il soggetto questa volta è un'immagine delle varie fasi della Notte. «La notte ed il suo prestigio» - come scrisse Edward Sackville West, cui il lavoro è dedicato, con il progredire dell'ombra, con la fanfara lontana, al tramonto, la panoplia barocca del cielo stellante, i gravi angeli del sonno; ma anche mantello del diavolo - verme nel cuore della rosa; ma anche senso del peccato nel cuore dell'uomo. L'intera serie forma un'Elegia o un «Nocturnal» (come Donne l'avrebbe chiamata), in cui sono riassunti pensieri e immagini notturne.

Nel lavoro, il corno che apre e chiude «fuori scena» la composizione con un appello-fanfara sui suoi armonici naturali, è usato come secondo protagonista accanto al tenore: la voce della natura che risponde a quella dell'uomo e dei suoi; sentimemi della notte. Lo strumento tace soltanto nell'ultimo brano, e in realtà il «Sonetto» di Keats è una meditazione dell'individuo solo di fronte a se stesso e desideroso di dimenticarsi.

Emilia Zanetti

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Concepita nel 1943 per due solisti di prestigio, il tenore Peter Pears e il cornista Dennis Brain, La «Serenata op. 31» di Britten è forse l'opera da camera di maggiore pregnanza espressiva del musicista inglese. Essa fonde, in una formazione inconsueta, le romantiche istanze del corno con una linea vocale di grande purezza discesa a Britten dall'assidua ed affettuosa frequentazione dei modelli purcelliani. Alle due parti solistiche si affianca il complesso degli archi che è trattato con estrema economia specialmente là dove esso si limita a fornire un sostrato puramente armonico. Possiamo dunque parlare di tre piani sonori, di tre zone timbriche diverse ma strettamente connesse ai fini del risultato finale, come se il compositore avesse inteso offrire una immagine tridimensionale di un'opera che, forse anche per questo, rivela come la visione «artigianale» ed eclettica che gli è stata spesso contestata, possa diventare un fatto d'arte.

Il corno, in particolare, ha una funzione analoga a quella che gli è demandata, in un àmbito sinfonicamente più allargato, nella «Terza Sinfonia» di Mahler, specialmente quando tale funzione è vista in senso altamente drammatico.

Anche nella scelta dei testi recuperati da preziosi filoni della poesia inglese, il gusto e la cultura umanistica di Britten ricorrono ad una operazione che verrà più tardi tentata e risolta con successo in altre opere che vedono l'attiva partecipazione della voce. Ma il discorso, per cosi dire, «antologico» di Britten è dettato dalla necessità di trovare unità nella diversità. Infatti non esistono precisi nessi tra Cotton, Tennyson, Blake, Ben Jonson e Keats tanto più se si considera l'inclusione di un testo anonimo del Quattrocento che fornisce materia al quarto brano, «Dirge» (Canto funebre); eppure le tematiche svolte in ciascuna lirica sono affini, concomitanti, e volendo, consecutive, sicché la «Serenata» trova una precisa successione temporale, dallo spegnersi del giorno all'inoltro verso la notte, mettendo in rilievo soprattutto il momento notturno e le riflessioni che ad esso si accompagnano. In questo senso il lavoro britteniano anticipa certe atmosfere notturne e grevi che sono tipiche anche della sua produzione operistica (pensiamo in particolare al «Peter Grimes», composto due anni dopo, che alla «Serenata» deve non poco sotto questo particolare profilo «lunare»).

Al corno spetta comunque la prima e l'ultima parola nel prologo e nell'epilogo basati su uno stesso motivo quasi a contrassegnare la conclusione ineluttabile di un ciclo. La straordinaria presenza di questo strumento è avvertita in tutta la composizione tranne nel «Sonetto» di Keats. Il rilievo del corno già ammirevolmente esemplificato dai musicisti radicali della seconda metà dell'Ottocento (si pensi ad un Bruckner e ad un Mahler) assume, nell'ambito della composizione britteniana anche una funzione di commento partecipante alle varie situazioni proposte dai testi. Nella «Pastorale» di Cotton, per esempio, esso mette in luce una serenità del resto risultante dalle stesse premesse del contenuto; più mosso, invece e su linee chiaramente solistiche, l'apporto prestato al brano successivo «Notturno» (da Tennyson), dove i giochi d'eco sono propiziati direttamente dal poeta con uno specifico richiamo contenuto nel «ritornello» tra una quartina e l'altra («Blow, bugie, blow = Suona, cornetta, suona»). Anche nella breve «Elegia» di Blake, al corno è affidato un preludio iniziale i cui accenti drammatici vengono poi restituiti dal tenore al quale però, nel movimento seguente, «Dirge» (Canto funebre) è affidato il compito di enunciare a secco i primi tre versi. Si tratta di un testo arcaico di impronta chiaramente religiosa, ma che non ha suggerito a Britten l'adozione di formule volutamente in carattere con il periodo pre-rinascimentale; egli infatti lo tratta come se fosse opera di un moderno, travalicando ogni differenza stilistica, ma cogliendone il senso drammatico, sottolineato dal corno, contenuto nella invocazione più volte ripetuta, «Christe receive thy saule» (Cristo accogli la tua anima). L'«Inno» di Ben Jonson (drammaturgo contemporaneo di Shakespeare) oppone un netto contrasto al brano precedente. Si tratta infatti di una invocazione abbastanza «pagana» non priva di tentazioni arcadiche che il corno bene asseconda con galoppante vivacità ritmica. Infine il «Sonetto» di Keats; qui Britten tocca il punto più alto della propria ispirazione per la mirabile corrispondenza che viene a stabilirsi tra il testo e la musica. È un brano prevalentemente statico (pur non privo nella parte conclusiva di drammatici scatti) affidato a semplici armonie degli archi che si muovono quasi con circospezione intorno alla linea vocale che si leva purissima su quelle armonie. Da notare gli struggenti melismi sulla vocale tonica di «forgétfulness» (oblio) nel quarto verso, e di «lùlling» (cullante) nell'ottavo, nonché l'invocazione replicata «Save me!» (salvami) pur essa struggente e tanto più efficace emotivafnente quanto più risulta rattenuta e restituita al di fuori di qualsiasi tentazione teatrale. Si noterà anche una citazione del motivo del «Canto funebre» quasi a contrassegnare una identità di contenuti.

Il corno che si era appartato per non «disturbare» questa mirabile pagina conclusiva, torna nell'epilogo, riproponendo il motivo iniziale da lontano, come se fosse destinato a perdersi nel nulla, per cedere poi al silenzio delle distanze, dopo l'ultima nota.

Edward D. R. Neill


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 14 maggio 2005
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Eliseo, 7 maggio 1951
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 15 giugno 1978

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Ultimo aggiornamento 30 dicembre 2018